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=== “300 metri ad ostacoli” === Una testimonianza di Giuseppe Ferrara Mi fa molto piacere vedere di nuovo proiettati i miei documentari, molti dei quali credevo ormai perduti. Soprattutto tengo a Bambini dell'acquedotto, il mio primo film del ‘59 che ha vinto il Nastro d’argento. Si tratta di un lavoro pre-pasoliniano: io, allora giovane studente del Centro Sperimentale di Cinematografia, mi sono introdotto all'acquedotto Felice, le cui antiche mura erano state colonizzate da immigrati italiani, quasi tutti del sud. Ho fatto un'inchiesta molto approfondita, ho conosciuto le persone, stretto amicizia con loro, ho sperimentato sulla mia pelle una situazione di profondo degrado che è la stessa descritta in “Una vita violenta”, che proprio in quel momento veniva dato alla stampa, e che Pasolini più tardi narrerà nel suo film d'esordio. E' il racconto di come vivevano i bambini nelle baracche, aspettando che la madre abbia fatto l'amore con i clienti, imparando il catechismo. Ho sempre privilegiato il tema dell'infanzia, penso che i bambini protagonisti di molti miei film abbiano un visione assai chiara anche se elementare delle cose. La realtà vista attraverso i loro occhi non degrada l'espressività o i contenuti ma rende il reale più accettabile, più popolare. Popolare è la parola giusta, perché il mio cinema non vuole mai essere “intellettuale”. In quel momento, inoltre, ero influenzato dal neorealismo, dai film dei maestri che avevo amato e studiato tanto approfonditamente da farne oggetto della mia tesi di laurea. Bambini dell'acquedotto, come quasi tutti i miei documentari successivi, è un piccolo film fatto con pochi mezzi. Avrei voluto che fosse più lungo, più ricco, ma non poteva durare più di 11 minuti perché il Ministero accettava per legge solo quelle durate. Ho usato fino all'ultimo metro a mia disposizione, 299 metri sui 300 consentiti. Si tratta di un “documento”, protagonista la gente reale in luoghi reali, ma dentro c'è già in nuce anche il mio cinema di finzione, a cui sono arrivato solo dopo 10 anni. Fare documentari allora era un lavoro improvvisato, da “peracottari”. Ci davano solo 1000 metri di pellicola 35mm e non avevamo quasi mai il fonico, tanto che il sonoro all'inizio era quasi sempre aggiunto a posteriori, e molti dei miei film sono infatti doppiati: una vera follia per un documentario! Avevamo solo 3 giorni di tempo per fare le riprese, al massimo una settimana se si doveva girare fuori Roma: se si pensa a quanto tempo Flaherty ha trascorso con Nanook ci rendiamo conto di come in due, tre giorni sia impossibile affondare davvero dentro la realtà che vuoi documentare. Allo stesso tempo avevamo però una grande libertà espressiva, ai produttori non interessava che facessimo un cinema impegnato nel sociale e ci lasciavano trattare anche i temi più scottanti perché, nonostante la programmazione fosse sancita per legge, ormai i documentari non venivano quasi mai visti in sala. Gli spettatori li detestavano, ed esisteva un tacito accordo tra pubblico, esercenti e autorità incaricate di controllare che di fatto rendeva la programmazione obbligatoria una realtà puramente fittizia. Il documentario però aveva allora un'importanza fondamentale, era una sorta di palestra per giovani registi che potevano cimentarsi con il linguaggio del cinema. Io ho diretto quasi cento cortometraggi, ho imparato moltissimo grazie a questa legge che, nonostante le sue imperfezioni, mi ha consentito di esercitarmi a fare cinema, sia nel campo del documentario che della fiction, perché alcuni corti, pur se utilizzavano sempre personaggi e luoghi reali, erano costruiti come piccole novelle ambientate nella periferia romana. Questa della breve novella di fiction era una tendenza diffusa nei miei lavori, mentre gli altri temi fondamentali erano le inchieste sul meridione e l'indagine della capitale. Roma era una necessità per i modi e i tempi imposti dalla produzione: vi ho girato circa 30 documentari, che costavano pochissimo. Del resto ero bravissimo a risparmiare, facevo il fonico da solo, avevo imparato a usare il registratore Maihak. Il problema più grande era la macchina da presa, che non era insonorizzata; ma in quelle condizioni non sarebbe stato possibile girare con il “blimp” perché la cinepresa sarebbe diventata pesantissima e ingestibile. Il 16mm l'ho usato meno all'inizio degli anni sessanta, anche perché era ancora poco diffuso; ero dunque costretto a girare anche le interviste con una rumorosissima Arriflex 35mm, che avvolgevo con molte coperte per tentare di eliminare il rumore. Nelle interviste usavo lo zoom e cercavo di tenermi il più lontano possibile dai personaggi, almeno per garantire un'audizione accettabile, e comunque sempre abbastanza modesta. La mancanza di tempo e le condizioni di lavoro che ho chiamato da “peracottari”, termine gergale che definisce bene il nostro operato di quegli anni, mi imponevano di documentarmi a priori; sentivo fortissima l'esigenza di studiare la realtà che intendevo indagare partendo da inchieste preesistenti: spesso ricorrevo al lavoro di storici e giornalisti, come quello di Longo e Serao all'origine de La camorra, o l'inchiesta di Arturo Gismondi pubblicata su “Paese sera” usata per Banditi in Barbagia. Per questo film ho fatto a Roma un lungo lavoro di ricerca; quando sono andato a girare a Orgosolo avevo già stabilito i contatti con le persone sul luogo? ho trovato un ambiente già preparato. I miei documentari sono în primo luogo dei film politici, come si evince dai temi trattati, dalla durezza del commento. Sono un regista di sinistra e mi sono sempre considerato un militante, Ho sempre pensato di fare i film per il movimento operaio, e da socialista bassiano ho preso parte attiva nella vita politica e ho contribuito alla fondazione del Psiup. Ora mi rendo conto con la fine della classe operaia sia inarrestabile, perché lo stesso capitalismo è cambiato, il padrone e l'operaio non sono più nemici, sono sulla stessa sponda economica che è quella del Mercato. Ma le battaglie di allora, quelle contro la mafia, le aberrazioni del potere, la cecità di ogni estremismo politico sono ancora attive. Forse oggi sono più disilluso, ma non mi sento ancora sconfitto. Da una conversazione di Laura Buffoni con Giuseppe Ferrara, a Roma, aprile 2006
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