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== Festa di compleanno: ''L'invenzione di Morel'' di Emidio Greco == [[L'invenzione di Morel]] di Emidio Greco === Emidio Greco === Emidio Greco nasce il 20 ottobre 1938 a Leporano (Taranto). Compie gli studi a Torino dove la famiglia si trasferisce nel 1952. Da ragazzo si interessa di teatro e pensa più alla regia teatrale che a quella cinematografica. Cambia idea e si converte definitivamente al cinema dopo aver ascoltato (intorno ai 18-19 anni) alcune conferenze di Mario Gromo, critico cinematografico de La Stampa. Si diploma in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma alla fine di giugno 1966 con un saggio d'esame di 27 minuti: Uno, due e tre. Al Centro Sperimentale insegna regia dal novembre 1968, prima in sostituzione di Nanni Loy e in seguito per incarico ricevuto. Ancora allievo del Centro Sperimentale nell'aprile maggio del'66, gira per la RAI, per la rubrica Cordialmente, il suo primo servizio, un "pezzo" sui costumi da bagno. Lavora per la RAI fino al 1984 con un'interruzione di quattro anni, 1970-74, impiegati per riuscire a realizzare il film di debutto, L'invenzione di Morel. È autore di numerosi programmi culturali, documentari e inchieste per la televisione, come: Da una guerra all'altra (1967 /77): sei ore sui rapporti tra economia e politica tra le due guerre; Madame Bovary sono io: una biografia di Flaubert (1977); Niente da vedere, niente da nascondere: documentario sull'artista e amico fraterno Alighiero Boetti; L'Italia del boom: programma in tre ore che vince il premio Saint Vincent per la migliore inchiesta televisiva (1979). Nel 1979-80 è ideatore e curatore di Uomini e idee del '900: una serie culturale di 14 puntate, di una delle quali, Nel labirinto di Borges, è anche regista. Debutta nel lungometraggio a soggetto nel 1974 con L'invenzione di More/, dal romanzo di Adolfo Bioy Casares. Il film partecipa al Festival di Cannes nella "Quinzaine des realisateurs" e a numerosi altri festival. Per due anni (1975-76) viene proiettato quotidianamente in 9 musei d'arte moderna tra i più importanti d'Europa nell'ambito della mostra "Le macchine celibi". Il secondo film è Ehrengard (1982), dal romanzo omonimo di Karen Blixen, presentato alla Mostra di Venezia '82. L'anno successivo ottiene il premio Cinema e Società per il miglior film tratto da opera lettera ria. Non viene distribuito perché la Gaumont Italia che l'aveva acquistato fallisce. In seguito avrà una distribuzione indipendente del tutto marginale. Terzo lungometraggio è Un caso d'incosdenza, soggetto originale dell'autore. Presentato a Venezia nel 1984, nella sezione Film per la tv, riceve ottime critiche e viene richiesto in distribuzione da diverse società, ma la RAI rifiuta di darlo in distribuzione e lo manda in onda a metà luglio in seconda serata. Solo qualche anno dopo la Mikado riuscirà ad averlo nel proprio listino. Realizza due programmi culturali per la televisione della Svizzera italiana: Vivere un'altra vita (1988), una riflessione sulla "crisi delle convenzioni cinematografiche", e Contrabbando d'idee (1989), sul "cinema di metafora". Del 1991 è Una storia semplice, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Il film viene presentato in concorso alla Mostra di Venezia e riceve il Leone d'Oro per l'interpretazione di Gianmaria Volonté. Proiettato in diversi festival ottiene premi e riconoscimenti tra cui: Grolla d'Oro per l'interpretazione a Gianmaria Volonté, Ennio Fantastichini, Ricky Tognazzi, Massimo Dapporto e Massimo Ghini; Nastro d'argento per la sceneggiatura; Globo d'Oro per la sceneggiatura e la musica; primo premio Antigone d'oro al Festival di Montpellier (1992). Nel 1998 gira Milonga, uscito nel '99, distribuito dalla Medusa. Presentato in diversi festival, ha avuto il "Globo d'oro" per l'interpretazione di Giancarlo Giannini. Nel 2001-2002 realizza Il Consiglio d'Egitto. In concorso al festival di Montreal. il film viene proiettato in diversi altri festival nazionali e internazionali. "Globo d'oro" della Presidenza al film; "Globo d'oro" per la musica; menzione speciale del "Globo d'oro" a Silvio Orlando; "Nastro d'argento" per la scenografia; "Capitello d'oro" (miglior film) al "Sannio film festival". === L'invenzione di Morel === di '''Francesco Savio''' Il Parastato italiano scopre il decadentismo. Il fatto è tanto lieto e clamoroso che, potendone io dar conto per il primo, m'affretto ad avvalermi di questo privilegio. Dall'ltalnoleggio è uscito stavolta un film esangue e neoplatonico, tutto giocato sul piacere intellettuale, sul gusto insulare e raro della circolarità delle immagini. Il cinema è una sola immensa bobina che, montata ad anello e proiettata sempiternamente, ripete all'infinito se medesima. Un po' alla volta, ecco, l'anima infusa in quelle immagini surretizie comincia a fuggirne, a morire, mentre l'assurda giostra dei fantasmi continua a proiettarsi, oramai sterile, su uno spazio (...) dal tempo ma intatto ed intangibile. Per rompere l'incantesimo, il protagonista dell'Invenzione di Morel ( opera prima del regista Emidio Greco, dall'omonimo romanzo di Bioy Casares insigne sodale di Borges) manda in frantumi il complicato meccanismo che, ad insaputa degl'interessati, ha fissato memorizzato per sempre, nel lontano 1929, la vacanza di gruppo di amici, convenuti nell'isola di Morel per tracorrervi una settimana d'ozio e di svago. Sull'isola Morel ha edificato una villa-museo, dove l'arte e il razionalismo si disputano le ceneri di un gusto, già co dificato da Mallet-Stevens. E' un ambiente gelido che fa pensare al Mabuse di Lang e all'Argent di L'Herbier: marmi verdi e seggioline funzionali, grandi lampadari saturnini ed ampie superfici convesse in vetrocemento - levigato e sinistro reperto di un'epoca viziosa, presaga e insieme ignara della crisi che sta per annientarla. Nei sotterranei della costruzione c'è, appunto, il macchinario di Morel: grazie al quale, e secondo le maree, i fantasmi dei giovani gaudenti, dissipati e fitzgeraldiani, rinnovano in perpetuo gli atti le parole i comportamenti di quella settimana (allo spirar della quale, gl'involontari protagonisti dell'esperimento erano tornati in patria per morirvi, svuotati e disseccati dal perfido congegno che aveva catturato il simulacro delle loro sembianze). Adesso - 1974 - un naufrago, forse un perseguitato politico, approda casualmente all'isola. Vaga per gli ambulacri della villa, si familiarizza a grado a grado con quegli strani dandies che lo guardano senza vederlo, scopre infine il segreto di Morel: Morel che, per amore di Faustine, sognò un giorno di vincere il Tempo consegnandosi ad esso con lei. Anche il naufrago s'infatua di Faustine; ma Faustine, ma gli amici di Morel non hanno anima, "vivono" fuori della storia e della consapevolezza di sé: bisogna dunque distruggerne il seme perverso, esorcizzare i lemuri, metter fine a uno spettacolo illusivo per tornare ad esprimere, col cinema, lo spettacolo illusivo per tornare ad esprimere, col cinema, lo spettacolo in quanto verità. Addio alle voci dei cantanti "crooner" diffuse dai vecchi grammofoni, addio alle danze intorno la piscina sotto la luce dorata dell'obliquo crepuscolo o la tepida pioggia autunnale, addio alle cene in vestito da sera, alla blanda lettura delle riviste, addio alle passeggiate nel vento, a picco sul mare venato di rèfole. Greco resuscita ed evoca i suoi magici Finzi-Contini con un sentimento d'ambigua ripulsa, d'ambigua tenerezza. Quel '29 non era poi tanto male, anzi era dannatamente affascinante, tra la fredda geometria delle sue architetture e il morbido tepore dei suoi figurini di moda, quei gilé, quelle gonne, quei foulards. Quell'essere "belli e dannati", ma in abito da tennis: come silhouettes in controluce. Attente panoramiche, fondues, perfino dissolvenze incrociate: la compagine linguistica è antiquata, si tratta invece di una scelta rigorosa. Certo !.:'invenzione di Morel non sarebbe pensabile senza il Resnais di Marienbad. Ciò che infatti è più commovente, in questo film-oggetto, è l'assoluta mancanza di commozione (e peccato che Giulio Brogi - il naufrago - ceda qua e là alle lusinghe del naturalismo). Dalle inquadrature si sprigiona un acre sentore di celluloide, anche le scenografie hanno l'impropria eloquenza del cinema muto, quando si parlava - o si sparlava - di "materiale plastico". Duri, esatti nei loro contorni, i soprammobili gli arredi i paralumi corroborano il teorema di Bioy Casares con opaca e inflessibile iattanza. Nella loro scontrosa concretezza gli spessori, autentici e "riprodotti", non sono poi tanto diversi gli uni dagli altri. Per cui la dimensione immaginaria prevarica quella reale, ad onta della resistenza che, alla prima, oppongono le cose. Sulle quali la polvere degli anni depone un velo tenue, che subito svanisce a contatto con gl'inganni del verosimile: agli ectoplasmi non bisognano piumini. In un debutto così patinato e ambizioso non si vorrebbero, né smagliature, né scadimenti. Ottimo quand'è ripreso a distanza, il gruppo degli amici di Morel non ci guadagna ad essere visto da vicino. Piccole incertezze, marginali goffaggini bastano a far precipitare dal loro astratto e peculiare basamento queste statue pigramente immortali. Come appunto in Marienbad, non esistono qui generici e comparse, ma alte presenze oniriche, emblemi di un tempo perduto, ritrovato, perduto. A suo agio con le nature morte, Greco non lo è altrettanto con gli intepreti, specie quelli di contorno. Del resto l'imbarazzo è, a ben guardare, una delle componenti dello snobismo. Non si dà vero snobismo senza le remore, le ritrosie, le insofferenze della timidezza. A meno che, questo dell'incerto dominio sugli attori, sia lo scotto pagato dal regista a una naturale acerbità. Come una tunica grave e leggera, dai preordinati panneggi, il film riveste d'una forma composta e distesa (si veda per esempio il bell'inizio, con l'a solo del naufrago) lo specioso pretesto narrativo offerto dal racconto avveneristico dello scrittore argentino. Si può non restare coinvolti dal risultato un po' algido. Ma il termometro delle emozioni estetiche ha a vedere con la scelta Fahrenheit?<ref>Il mondo, 28 marzo 1974</ref> === L'invenzione di Morel === di '''Mino Argentieri<ref>Rinascita, 28 giugno 1974</ref>''' Un uomo che ha un conto aperto con le autorità del suo paese è in fuga e a bordo di una barca sbattuta dalle onde attracca in un'isola deserta. [sic] su scogliere e costoni: davanti gli si para un edificio a prima vista indefinibile, a metà tra un grande albergo abbandonato e un laboratorio. Incuriosito, lo esplora e scorgendovi tracce di una dimora che fu ospita le e adesso è coperta di polvere, torna all'aria aperta a cercare radici di cui cibarsi e protezione al riparo di madre natura. Quando meno se lo aspetta, le sue orecchie sono sfiorate da un motivo musicale, un ballabile, proveniente dal luogo da cui si era allontanato. E gli capita anche di distinguere, a distanza, alcune coppie che danzano allacciate. è una allucinazione provocata dalla stanchezza e dal deperimento delle energie fisiche? O le apparizioni non sono che esseri in carne e ossa abbigliati secondo la moda della fine degli anni venti e chissà come sperdute in una landa tutta sterpi e rocce? Novello Robinson, il rifugiato cerca di saperne di più e avvicinatosi alla comitiva ne ritaglia una componente, la fredda e stilizzata Faustine, dalla cui venustà è preso. Inutili saranno i suoi tentativi di approccio: la donna, passeggi da sola, si accompagni al petulante corteggiatore Morel o a qualcuno della congrega, si comporta come se dinanzi ai suoi occhi non fosse comparsa un'altra persona. È un mistero, e per decifrarlo non varrà neppure mescolarsi a questi convi tati che non hanno alcuna percezione all'infuori della loro cerchia. L'arcano, tuttavia, sarà violato dall'anfitrione del gruppo, il professor Morel, uno scienziato che parteggia per le teorie malthusiane e spiega ai suoi amici di qual incantesimo si tratta: è che Faustine, e la corte riunita, con la specie umana non hanno nulla più da spartire. Morel li aveva convocati in questo posto inaccessibile per sottoporli alla fase superiore di un esperimento. Grazie ad alcuni prodigiosi macchinari essi sono stati fotografati e fissati in un archivio mnemonico che li riproietta all'infinito tridimensionalmente. Faustine e i suoi compagni sono immagini del passato che invece di rianimarsi su una parete bianca tornano prowisoriamente nella vita. Morel, però. registrandoli li ha scissi dai propri trascorsi e dal proprio futuro e li ha costretti entro uno spazio e un tempo circoscritti. Ognuno rivive le parole dette, i sentimenti, le azioni compiute nella settimana in cui Morel li ha fermati per sempre. Gli ospiti di Morel hanno guadagnato l'immortalità, ma scontato la condanna a ripetersi, non diversamente da un disco che riprenda a suonare la stessa musica dopo aver esaurito le due facciate. E c'è di più. La chiarificazione di Morel, che lacera l'enigma, essa medesima è parte di una catena di eventi incisi e anche il palazzo popolato da Fausti ne e dagli altri della congrega mondana è un prodotto dei macchinari di Morel. Pazzamente innamorato di Faustine e, nel suo invaghimento, non meno infelice del professor Morel, il nostro Robinson è tentato di cambiar condizione e si avvede che l'accesso all'eternità abbrevia il tragitto verso la decomposizione fisiologica e la morte. Ormai non v'è scampo. Questa, in breve, la trama di L'invenzione di Morel, il romanzo di Adolfo Bioy Casares, lo scrittore argentino, da cui l'esordiente Emidio Greco ha estratto l'omonimo film che ha rappresentato l'italia in una delle molte sezioni in cui si suddivide il festival di Cannes. Il libro di Casares, giunto da noi con l'autorevole avvallo di Jorge Luis Borges, è di quei testi che sembrano allettanti ai fini di una eventuale versione cinematografica, ma pongono problemi. Il primo ostacolo che presenta è costituito da un racconto soggettivo, brulicante di incubi e di monologhi interiori, la cui suggestione viene dalla circostanza che s'insinuano nella mente del protagonista più che avere una plastica corposità. Viceversa, il linguaggio cinematografico, ancora sottomesso a una ricezione di tipo naturalistico, conferisce uno spessore all'immateriale e drammatizza in una forma plateale le ombre, i fantasmi, le ansie, le tribolazioni, i dilemmi, le paure della coscienza. Se a questa barriera generalmente invalicata si aggiunge che, per necessità spettacolari, il cinema traduce la soggettività in oggettività, il tranello di un descrittivismo che banalizza e impoverisce le vibrazioni della pagina scritta è difficilmente evitabile. Il pericolo che la sintassi della suspense abbia una tronfia, esteriore e risonante rivalsa deriva da un procedimento di trasformazione che non avviene senza colpo ferire. Premessi questi trabocchetti, c'è da constatare che Emidio Greco si è ingegnato con lode a travasare in un film una pièce letteraria fra le più ardue in quanto vi si svolge una immaginazione ragionata, il cui senso si offre a molteplici interpretazioni. Contrariamente a chi contesta che il libro di Casares e il film di Greco non abbiano altro valore ravvisabile se non nel governo di una pura fantasticheria, e siano perciò alieni da alcun intendimento metaforico, noi siamo propensi a leggervi una meditazione a doppio fondo. Accantonando, insieme con Casares e con Greco, il particolare che Morel è un seguace di Malthus e delle sue tesi, due elementi si impongono. L'invenzione del professore è la metafora di una civiltà che, in virtù della cinematografia, della fotografia, della Tv e dell'elettronica memorizza milioni di testimonianze da trasmettere ai posteri. Perché fermarsi a imprigionare le immagini in rettangoli di carta o in pizze di pellicola o in nastri magnetici, quando basterebbe evolvere lo stesso processo di riproduzione per ottenere tangibili prove di quel che andrà ad accrescere il bagaglio dell'esperienza consumata? Ma Casares e Greco non sollevano soltanto una ipotesi futuribile e sono risucchiati in una speculazione parafilosofica che involge l'anelito a vincere la finitezza umana. E' una illusione, ci ammonisce la favola, poiché il miracolo tecnologico di Morel assicura il viatico alla perpetua sopravvivenza, ma previa la reiterazione degli istanti e dei momenti captati dai registratori. E non differentemente che nelle credenze di taluni popoli primitivi, l'archiviazione visuale di Morel corrisponde all'orrore sentito per la macchina fotografica cui si addebita di spogliare i suoi soggetti dell'anima mentre li avvia a morire. Non c'è sviluppo nella riproducibilità dei progetti di Morel e, a essere annullati, sono l'ieri e il domani: sussiste soltanto il presente, sospeso in un limbo, con speranze, aspirazioni, gioie, attimi di felicità immobilizzati. A voler forzare il significato del film si potrebbero intravedere anche allusioni a una società fatua che si morde la coda nella sua indifferenza ed estraneità ai travagli del mondo; ma a noi pare che più congrua sia una lettura che non si allontani troppo dalle leve afferrabili. Dare una realtà permanente alla fantasia sentimentale è il rovello di Casares e di Greco, che approda a una rotatoria, tremenda per coloro che assistono alla ronde ma non sgradita ai protagonisti. Film che sarebbe un errore prospettico omologare ai tradizionali filoni della fantascienza, L'invenzione di Morel è un prodotto insolito nel panorama del cinema italiano. Accurato nella messa in scena, nella scelta dei costumi e degli ambienti, che evocano uno scorcio del decennio ruggente in procinto di estinguersi, patisce di difetti non attribuibili alla regia ma all'obiettiva difficoltà di trasferire sullo schermo una materia che ha molto da perdere nell'assumere contorni provvisti di una propria concretezza. Gli dona la presenza quasi silente di Anna Karina, una Faustine incantevole che conquista con ogni suo sguardo e con la sua fotogenia; ma non giovano alla pienezza del risultato complessivo gli altri attori, scarsamente plausibili a causa dell'aria filodrammatica di cui non riescono a sgravarsi. Né Giulio Brogi, costretto a esprimere il suo turbamento arrancando sui sentieri impervi e correndo in salita e in discesa, tiene testa alla sua partner nel raffronto. === L'ultima macchina. Note sull' Invenzione di Morel === di '''Jean Clair''' ''Se qualcuno abbraccia appassionatamente il suo doppio attraverso il vetro, questo si anima in un punto e diviene sesso, e l'essere e /'immagine si amano attraverso la parete.'' (Jarry, Les jours et les nuits.) ''L'uomo e il coito non sopportano intensità troppo lunghe.'' (Casares, L'invenzione di Morel) Si dice che ancora oggi, nella regione delle Hurdes, in Spagna, gli abitanti rifiutano di lasciarsi fotografare, perché temono di perdere nella fotografia una parte dell'anima. Questa superstizione farà sorridere l'uomo colto. Tuttavia, non è lo stesso riflesso oscuro che continua ad agire in noi quando, a guardare la fotografia di persone care -anche se, e soprattutto se sono vive -proviamo la stretta furtiva della morte e come una specie di apprensione per la loro scomparsa? La registrazione dei tratti di una persona conterrebbe più di questo presagio o di questo presenti-mento: sarebbe quasi un prelievo nella vita di ciò che già appartiene alla morte, oppure la rivelazione, nel senso chimico del termine, di tutto ciò che, dall'eternità, sembra averle appartenuto. E, inoltre, nasconderebbe un potere capace di rivoltarsi contro i viventi di cui riproduce l'aspetto. «La paura di farsi ritrarre o fotografare, scrive Otto Rank nel suo saggio Don Giovanni e il suo doppio, è, secondo Frazer, diffusa in tutto il mondo. La si ritrova fra gli Eschimesi, come fra gli Indiani d'America, fra i popoli dell'Africa Centrale, in Asia, nelle Indie Orientali e in Europa. Giacché, per loro, l'anima dell'uomo è rappresentata dalla sua immagine, temono che il possessore estraneo di questa immagine possa operare su di essa malefici anche mortali» E così si potrebbe vedere nella fotografia una versione modernizzata, adattata ad un ambiente tecnologico d vecchio mito di Dracula. Senza che lo sospettino coloro di cui essa è destinata a soddisfare il narcisismo, la fotografia si nutrirebbe in segreto della loro sostanza. La presa di visione sarebbe una presa di vita, e noi saremmo tutti, a nostra insaputa, in «deficit» di anima in ragione diretta delle rappresentazioni che ci circondano. Perché, con il continuo progresso tecnico, si può supporre che questo trasferimento della sostanza vitale dall'uomo alla macchina che la registra si farà sempre più imperioso. Se, a quanto sembra - a quanto sembra, perché si è poi tanto sicuri? - la fotografia non ha mai fatto vittime, il cinematografo, tecnica più evoluta, ha già avuto le sue martiri. Per antifrasi, come per esorcizzare la minaccia che pesa su di loro e per lo stesso capovolgimento di senso che fa chiamare Frankenstein non lo scienziato ma la sua creatura, le si è chiamate «Vamp». Donne fatali? No, al contrario, donne che non cessano di essere date in pasto al cinema-Nosferatu. Di tutte queste vittime, la più esemplare resta Marilyn, che si suiciderà per non essere capace di sostenere più a lungo la frattura fra quello che restava il suo proprio corpo e quello che, ogni giorno di più, diventava proiezione su uno schermo, polverizzazione effimera e continuamente ripetuta di un po' di bromuro attraverso un fascio luminoso. Come non vedere, in compenso, che La macchina filmica non cesserà di incarnare il suo mito, immaginando, con sempre maggior convinzione, da Metropolis fino a Westworld, dei meccanismi capaci di sostituirsi alla vita di cui si nutrono? Facciamo un'ipotesi: dai primi dagherrotipi e dalle prime registrazioni di Edison fino agli attuali ologrammi, La riproduzione dei fenomeni che caratterizzano La vita si è così affinata che si può chiedersi se non arriverà il momento in cui la macchina registratrice sarà divenuta così fedele a ciò che proietta che finirà per sostituirsi completamente all' oggetto riprodotto, distruggendolo. È questa l'ipotesi che prospetta Adolfo Bioy-Casares nella sua Invenzione di Morel .Si potrà dire anche che, in questo modo, Bioy-Casares non fa che riprendere, aiutato ormai da tutti gli apparecchi della tecnologia contemporanea, uno dei miti che hanno costantemente visitato il pensiero greco dalle sue origini: Achille, sognando Patroclo ucciso in battaglia, grida «O Dei, allora resta realmente agli Inferi una Psiche e un'ombra dell'uomo» (Odissea, libro XI, v. 22). Così, dopo la morte, la psiche, l'anima, che è identica allo spirito, diventa eidolon, un'immagine, un sogno; così Omero attribuiva all'uomo un'esistenza doppia: da una parte nella sua apparizione percettibile, dall'altra nella sua immagine invisibile, che si manifesta soltanto dopo la morte. Questo destino è quello degli invitati di Morel, e quello che conoscerà il naufrago dell'isola ... Ma evocare uno dei miti su cui si fonda il pensiero greco è evocare anche il mito che sta alla base del pensiero occidentale dalle sue origini. La macchina di Morel, in effetti, non è forse la realizzazione ultima di una techné ossessionata da sempre dall'idea della ri-presentarzione, che permetta rendendosi padrona della natura secondo il progetto voluto dal logos occidentale, di capitalizzare il tempo? Perché, ecco questa macchina, capace di registrare le apparenze degli esseri e delle cose e di riprodurli nei minimi particolari ed eternamente, questo strano meccanismo capace di investire sul tempo, con un investimento che costituirebbe insieme la sua riserva e la sua spesa anticipata. Ricordiamo l'abitazione principale di Morel sulla sua isola: egli la chiama il suo «Museo»: «La parola museo, egli dice, è una sopravvivenza del tempo in cui lavoravo ai progetti della mia invenzione, senza saperne lo scopo. Allora pensavo di erigere dei grandi album o «musei», familiari e pubblici, delle mie immagini»3 • Ma, che cos'è questo museo se non è rispetto al capitale umano - gli invitati di Morel - ciò che la banca è rispetto al capitale moneta? È il sistema che fa costantemente degli anticipi su ciò che gli è stato depositato - i diversi momenti della settimana vissuta sull'isola dagli invitati - , ma confisca per sempre ciò che è stato investito, cioè la vita stessa degli invitati. Macchina registratrice/riproduttrice - molto più che l'ingenua macchina-Moloch immaginata da Lang in Metropolis -, essa è l'immagine perfetta della megamacchina capitalistica. Nella figura del naufrago, approdato all'isola per sfuggire alla giustizia dei suoi contemporanei, e ben presto affascinato dalle rappresentazioni della macchina, ciò che bisogna vedere è allora la figura del proletario, così come nel suo desiderio ben presto irreprimibile di unirsi alle scene che si svolgono sotto i suoi occhi, che lo spinge a sottomettersi, a prezzo della vita, alla registrazione, bisogna vedere la situazione isterica dell'operaio accoppiato alla sua macchina, secondo un meccanismo in cui Faustina rappresenterebbe perfettamente l'immagine della prostituzione anonima del capitale, questa figura particolare del godimento continuamente differito che il capitale offre, sotto forma di ciò che non sarà mai altro che un eterno coitus reservatus. Solitario, affammato, che cosa può fare il naufrago se non lasciarsi morire ancora più solo, rifiutando le rappresentazioni della macchina, oppure morire con esse, dentro di esse e a causa loro? A questo proposito dice Lyotard: «Ma voi mi direte: era o così o la morte. Ma è sempre o così o la morte, è questa la legge dell'economia "libidinale", no, non la legge: è la definizione provvisoria, molto provvisoria, in forma di grido, delle intensità del desiderio; questo o morire, che vuol dire: questo e morire per questo; sempre la morte in questo, come la sua scorza interna, la sua sottile pelle di nocciola; non ancora come il suo prezzo; al contrario, come ciò che lo rende non pagabile. E voi credete forse che sia un'alternativa, questo o morire?! E che se si fa questo, se si diventa schiavi della propria macchina, macchina della macchina, fottitore fottuto, otto ore al giorno, dodici ore un secolo fa, è perchè vi si è costretti, perché si tiene alla vita? La morte non è un'alternativa a questo, ne è una parte, essa attesta che c'è in questo un godimento...» Ebbene, in modo iperbolico, l'eroe di Casares illustra un destino simile: «la bellezza di Faustina (intendiamo: la bellezza del corpo del capitale, come la presenta la macchina nelle sue ri-presentazioni) merita queste follie, questi omaggi, questi crimini (...). Mi si apre una via: vivere, essere il più felice dei mortali (...). Il vero vantaggio della mia soluzione è che essa fa della morte la condizione necessaria e la garanzia della contemplazione eterna di Faustina.(...) E così mi salvo da un interminabile morte senza Faustina». E allora si inserirà a sua volta sulla macchina e, così facendo, comincerà la sua decomposizione fisica: i capelli, la vista, il tatto... , secondo lo stesso processo di desensibilizzazione isterica delle parti del corpo che caratterizza il proletario inchiodato al suo strumento di lavoro. E questo per poter godere, nell'esaurimento masochistico, nella perdita totale della sua identità e nella rovina del suo per poter godere anche lui, come Faustina, come il corpo astratto del capitale, e godere di questo corpo, godere di Faustina, e del ritorno della settimana eterna: «godimento della ripetizione di ciò che è uguale, lo stesso gesto, lo stesso andare e venne, mai subite le stesse parti del corpo utilizzate, usate ... » secondo quello stesso effetto della follia isterica delle condizioni del lavoro capitalistico che i sociologi chiamano «parcellari», senza vedere ciò che le particelle, in quanto particelle, possono portare di intensità libidinale. A questo fanno eco le ultime righe del giornale del naufrago: «A colui che, basandosi su questo rapporto, inventerà una macchina capace di rimettere insieme le presenze disgregate, io rivolgerò una preghiera: che cerchi Faustina e me, che mi faccia entrare nel cielo della coscienza di Faustina ... ». Ma che cosa sarebbe allora quest'altra macchina, questa antimacchina capitalistica, capace di de-parcellizzare, di de-isterizzare, di riunire finalmente i corpi per sempre separati degli amanti? Perché, mi si intenda bene: per capitalismo, non si intende qui soltanto il sistema economico che infierisce da noi, ma, in modo molto più globale, qualsiasi sistema che guardi meno al prodotto che alla produzione e, più esattamente, qualsiasi sistema per cui il prodotto non sia mai altro che il mezzo di produzione; cioè tanto e allo stesso modo il capitalismo stricto sensu quanto il comunismo, quando esso, allontanandosi dal suo oggetto che è la rivoluzione, diventa «pretesto di apparato per capitalizzare il desiderio di rivoluzione». E allora Lenin, quando annuncia che il comunismo è i soviet più l'elettricità, evoca un fantasma poco diverso da quelli del romanzo di Casares e degli altri scrittori di cui discutiamo, lo stesso fantasma evocato da Villiers, per esempio nella sua Eva futura, quando anch'egli, molto chiaramente, dice che il godimento è il commercio con la donna reale più il commercio con la donna elettrica, la riunione del corpo reale di Alicia con il corpo artificiale di Hadaly, e che uno non potrebbe andare senza l'altro, se è questione di godere veramente: allo stesso modo come il soviet, la comunità dei corpi reali, l'universalità degli individui singolari non può andare senza questo agente capace di registrare i corpi tutti insieme, di riprodurli e di proiettarli all'infinito, cioè senza l'elettrificazione del paese... Per cui converrà all'epistemologo futuro di considerare la stretta affinità che nella mitologia contemporanea lega il concorso Lèpine, a cui non hanno cessato di attingere Duchamp, Roussel e alcuni altri fari della nostra modernità, e il concorso Lenin, a cui non hanno cessato di iscriversi i piccoli inventori della Rivoluzione. Come non vedere che il naufrago di Casares tende la mano, al di là dei secoli, all'eroe di Daniel Defoe? Che, nella società capitalistica, è l'ultimo rappresentante di una storia, di cui Robinson Crusoe è stato il primo? Che, nel discorso che definisce l'età industriale, L'invenzione di More[ sembra segnare l'istante di chiusura, come il romanzo di Defoe ne segnava la nascita e che perciò, insieme, essi ne definiscono i due limiti estremi? Ecco Robinson, fuggito dall'Inghilterra dell'inizio del XVIII secolo che si apre alla Rivoluzione Industriale: Adamo della genesi del capitalismo, eroe dell'epopea tecnica, assoggetta la terra, l'acqua, il fuoco, immagazzina, colonizza, estende il suo dominio sugli esseri e sulle cose; e «libera» Venerdì, ponendogli il piede sulla testa quasi prefigurasse quello che saranno le grandi imprese imperialistiche. Al termine della catena, ecco l'eroe di Casares. l'ultimo degli uomini. Il capitalismo ha compiuto la sua impresa: tutto è stato immagazzinato, registrato, capitalizzato, tutto è stato contabilizzato nel grande Museo delle immagini e il tempo stesso, tutto intero, investito, addizionato, sommato, può sboccare soltanto sull'eterna ripetizione di se stesso. Il naufrago non incontrerà alcun Venerdì; incontrerà soltanto le rappresentazioni della macchina; i suoni che sente, i passi che scopre sulla sabbia, le figure che percepisce non hanno alcuna realtà. Ciò che gli viene incontro, dal fondo della solitudine, non è più l'altro, ma saranno sempre le immagini degli altri, i simulacri di una società scomparsa. Come se, al termine del processo capitalizzatore, il valore d'uso si fosse interamente trasformato in valore di scambio, cioè in pura circolazione di energia, in trasporti astratti, in flussi di luce. Perché questi spettri, questi fantasmi di ciò che un tempo erano corpi reali e amanti sono i redditi disincarnati di un capitale trafugato per sempre. E questa trasformazione, dall'uso allo scambio, dal corpo reale al corpo registrato, dalla vita alla morte, come aveva detto Marx, è un inganno: questa scambiabilità generalizzata dei valori ormai astratti delle cose - pur portando le intensità al loro Massimo, in seguito al differimento costante della realizzazione dei desideri quando si parla di realizzare il proprio avere (ed è per questo, a causa di questa passione infinita, che L'invenzione di Morel è uno dei più bei romanzi d'amore folle che si siano mai scritti) - ci priva della loro realtà. Il naufrago non incontrerà mai Faustina. Per quanto si ingegni, come fa, per entrare come personaggio ex machina nella scena già registrata, per quanto cerchi di diventare a sua volta la piccola ruota dentata che venga a ingranarsi su quella già in posizione, non potrà mai «entrare nel cielo della coscienza di Faustina». Moderno lssione, non abbraccerà mai altro che nuvole. Non si fa l'amore con i fantasmi, scriveva già Kafka a Milena. Parliamo di cose più semplici e più serene. Nella sua prefazione al romanzo di Casares, Borges nomina alcune delle sue fonti possibili: Henry James, H.G. Wells (L'isola del Dott. Moreau). Noi citeremo altre filiazioni, insieme più lontane e più segrete, che del resto importa assai poco che Casares abbia conosciuto. Innanzi tutto, il Castello sui Carpazi di Jules Verne: la macchina elettrica costruita da Orfanik per il Barone di Gortz, e destinata a conservare eternamente il suono della voce e i tratti della Stilla, è simile a quella di Morel. Nell'uno come nell'altro caso, la conseguenza della registrazione è la morte della persona registrata. Si ricorderà anche l'Eva futura di Villiers: il corpo di Hadaly, l'androide elettrico, riproduce esattamente quello di Alida Clary, di cui Lord Ewald è innamorato, come Morel lo è di Faustina. Il problema resta quello di dargli un'anima. È anche il problema che ossessiona il naufrago: le immagini prodotte dalla macchina sono la sede, come gli esseri reali, di pensieri e di sensazioni? «L'.ipotesi che le immagini possiedano un'anima sembra esigere, come base, che gli emettitori la perdano quando sono ca prati dagli apparecchi». Anche Edison, per animare il suo robot, deve metterlo in relazione telefonica con la sonnambula Sowana; e questa, in effetti, morirà del suo dono. Quanto alla filosofia dello scienziato, essa è vicina ai pensieri di colui che, approdato alle sponde desolate di un'isola deserta, non può più prestar fede che alle rappresentazioni di una macchina. «Poiché i nostri dei e le nostre speranze, dice Edison, sono ormai soltanto scientifiche, perché non dovrebbero diventarlo anche i nostri amori?». Più curioso è l'accostamento fra Jarry e Roussel. In Les jours et les nuits, si incontra una macchina, analizzata peraltro da Michel Carrouges: l'isola della nereide. IL suo unico abitante è una donna, prigioniera entro un muro di vetro che fa il giro dell'isola. Questa muraglia vetrata ha il potere di creare un doppio sessuale della prigioniera e, «dove il vetro si anima in un punto e diventa sesso, l'essere e l'immagine si amano attraverso la parete». Questo strano potere del muro/specchio è ottenuto «dalla volontà degli dei immortali o dall'abilità di uno scienziato che ha costruito delle macchine simili ai viventi, che si muovono e oscillano alle onde dell'isola... ». Si ritrova qui il tema di Faustina e della registrazione della sua immagine; cosi pure l'idea di una macchina registratrice, voluta da un demiurgo o da uno scienziato, e mossa dall'energia delle maree. Questa tematica insulare è sempre presente sotto una forma o l'altra: che sia il castello quasi inaccessibile sui Carpazi, che sia il recinto protetto da sbarramenti elettrici di Menlo-Park nell'Eva Futura, che sia, come qui, l'isola con il suo muro; perchè si verifichi la capitalizzazione del tempo, è necessario un luogo isolato, sicuro e profondo come la cassaforte di una banca. Anche in Locus Solus si incontra questo «luogo solitario», quest'«insula»; anche qui si tratta di un'isola. Nel fatto che la principale abitante si chiami Faustina, si vedrà, più che una coincidenza, l'indicazione del carattere faustiano di tutte queste imprese. Gli invitati di Martial Canterei, si sa, sono spettatori di fenomeni strani, prodigi inventati dall'ospite; dei quali il senso sarà manifestato soltanto nella seconda parte del libro. Ai loro occhi si presenta una successione di scene e di personaggi, come i pezzi scompagnati di un puzzle di cui è impossibile cogliere l'immagine totale. Poi, progressivamente, tutto si chiarisce: i pezzi combaciano gli uni con gli altri e si scopre, stupefatti, che una logica imperiosa presiedeva a tutta la messa in scena. È lo stesso processo che si incontra nell'Invenzione di Morel: l'invitato involontario di Morel è testimonio di scene di cui non comprende il senso, frammenti di conversazione, briciole di situazioni, disiecta membra di un intreccio di cui egli non arriva a cogliere il filo conduttore. Poi, a poco a poco, la verità si manifesta, i pezzi si riuniscono, gli episodi si ricostituiscono, la cronologia della settimana eterna si riassesta e, di conseguenza, spiega il suo senso. Qui come là le scene sono scene di resurrezione artificiale: grazie al vitalium e alla resurretuna, Canterel ottiene la rianimazione del cranio di Danton: «In seguito a un curioso risveglio della memoria, quest'ultimo riproduceva subito, con rigida esattezza, i minimi movimenti da lui compiuti nei minuti mancanti della sua esistenza; poi, senza riposo, ripeteva indefinitamente la stessa invariabile serie di fatti e di gesti scelti una volta per tutte. E l'illusione della vita era assoluta: mobilità dello sguardo, giuoco continuo dei polmoni, parola, azioni diverse, cammino, nulla vi mancava». Descrizione che si può paragonare al discorso di Morel ai suoi invitati: «Coordinando armoniosamente i dati dei miei apparecchi, mi trovavo in presenza di persone ricostruite, che scomparivano se distaccavo l'apparecchio di proiezione; esse vivevano soltanto nei momenti che passavano mentre si riprendeva la scena e, finiti questi, li ricominciavano da capo, come se si trattasse di un disco o di un film che, arrivato in fondo, riattaccasse dal principio». Allo stesso modo i personaggi resuscitati da Canterel «vivono» soltanto del volere dello scienziato e secondo cicli sempre identici, come quelli della «settimana eterna» di Morel: «Lo si riportava al suo spunto di partenza dopo il compimento del suo ciclo di operazioni, che ricominciava indefinitamente, senza alcuna variante». Più inquietante è il fatto che in questo teatro d'ombre, dei personaggi reali tentano di introdursi e di mescolarsi ai fantasmi: l'eroe di Casares, per introdursi nella scena della settimana eterna, immagina la parte che desidererebbe avere accanto a Faustina; poi la ripete, episodio per episodio, prima di sottoporsi a sua volta alla registrazione della macchina. Allo stesso modo, in Locus Solus, Alban, innamorato pazzo di Ethelfleda, per godere della sua presenza artificiale durante «il breve spettacolo ripetibile offerto alla sua avidità» dalla scienza di Canterel, non esita a fare «lui stesso la sua parte in compagnia di due comparse, una molto vecchia, l'altra adolescente, che sostituiscono Casipagina mir e il groom ... ». Ma osserviamo questo fenomeno: il solo mezzo per l'eroe di Casares di insinuarsi nella registrazione senza disturbarne l'ordine è di giocare sui tempi morti della scena: di introdursi dove non avviene nulla, cioè dove il tempo non passa. I tempi morti: sono la pausa, il negativo del tempo che la macchina non può registrare, sono la «vasca» di comunicazione fra il corpo reale e la sua immagine, e indicano il principio stesso secondo cui la macchina funziona, trasformando gli istanti della vita vissuta in istanti di morte e i tempi morti in frammenti irriducibili di vita. E poi ecco l'ultima abilità della macchina registratrice: non solo essa ha registrato tutti gli oggetti che le sono stati presentati per farli rinascere eternamente secondo gli stessi gesti e le stesse parole, ma, per di più, ha registrato se stessa. Così si chiude il cerchio per cui ogni consumo si trasforma in produzione di energia, così la macchina diventa il perpetuum mobile che girerà per l'eternità. Come se, spinta al limite del suo funzionamento logico, la macchina non potesse che contraddire le leggi stesse che le permettono di funzionare .e come se il demone di Maxwell, come dice Alain Montesse, non cessasse di denunciare il principio di Carnot-Clausius. (Un indizio, nel libro, denota questa «aberrazione» fisica: il calore eccessivo che regna nell'isola e che, suppone il naufrago, è dovuto alla somma della temperatura reale e della temperatura registrata dalla macchina, perchè, dice, la settimana eterna è stata incisa d'estate). Ma alla fine, e alla fine di tutte le fini, che cosa significa tutto ciò se non che la macchina capitalizzante e riproduttrice è la rivincita di Chronos su Mnemosune, è il trionfo del tempo che non invecchia, del tempo immortale e imperituro delle rappresentazioni, del tempo implacabile degli dei freddi, dei demiurgi e degli scienziati, sul tempo umano, sul tempo dolce e vulnerabile della presenza, sul tempo minacciato dal ricordo e dall'amore? Della macchina capitalista, noi siamo così destinati a divenire un giorno i servi celibi. Tutte queste sono fantasie letterarie, diranno gli spiriti positivi. L'immagine che si rivolta contro il suo oggetto è favola, o fantascienza. E tuttavia, chi può saperlo? L'Invenzione di Morel, innegabilmente, prefigura, con singolare chiaroveggenza, l'invenzione assai curiosa dell'olografia, questa strana fotografia di un oggetto impressionato con luce laser che, illuminata dalla stessa luce, permette di vedere l'oggetto in rilievo, producendo un'allucinante sensazione di presenza. Se si distrugge questa fotografia, ogni frammento permette di vedere l'immagine intera, se è illuminato allo stesso modo. Ora, nel 1971, sulla rigorosa rivista Sdences, apparve un articolo di un certo Van Heerden, che stabilisce un parallelo impressionante fra il funzionamento del cervello umano e quello degli ologrammi. Da una parte, dice Van Heerden, la capacità che hanno gli ologrammi di registrare l'informazione e anche il modo in cui l'informazione è memorizzata sono in molti punti paragonabili al processo che si verifica nella memoria umana. Ma, ciò che è anche più sorprendente, l'autore dice di essere stato colpito dalle qualità pavloviane dell'immagine olografica; così, secondo lui, «quando si presenta alla lastra fotografica prima un campanello e un pezzo di carne, poi il campanello soltanto alla diapositiva della lastra esposta, la diapositiva si ricorda del peuo di carne e lo rimette nella scena». Gli uomini, un giorno, scompariranno, ma resteranno le loro immagini demoltiplicate, che si ricorderanno di loro. E piangeranno, senza più sapere perché.
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