1996: differenze tra le versioni

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== Cinema ennesimo, cent'anni dopo ==
== Cinema ennesimo, cent'anni dopo ==
Dopo molti (troppi) anni, infine non c'è completamente oscuro come il cinema indipendente che si impone all'attenzione (o che perfino si faccia amare con tensione e senza bisogno di intenzione) sia indipendente soprattutto da se stesso e dai propri autori. Non ci piace ammetterlo, perché la cosa ci porta vicino alla sostanza collettiva e politica di una comunicazione che non conosciamo e che ci eccede, misteriosamente più forte e intensa dei tentativi anche più accaniti folli, raffinati di orientarla cavalcarla mutarla. E non ci piace perché siamo invece costretti a attaccarci a nomi, progetti, stili precisi o in formazione, nella ricerca, nello studio, nel farsi di questo festival stesso, nel piacere. Con piacere si verifica quest'anno a Bellaria la congiunzione casuale e non voluta di due cinemi, di due diversissimi progetti di cinema in Italia, che nell'estate di un anno fa hanno segnato il dibattito politico culturale. Accettando e seguendo caparbiamente il criterio cronologico, il trentennale incontra quest'anno un grande film-problema, La battaglia di Algeri di Pontecorvo. Lo stesso Pontecorvo che dirige il maggior festival italiano di cinema, dove l'anno scorso era stato invitato solo a margine Lo zio di Brooklyn di Ciprì e Maresco. I quali rifiutarono l'invito, e si ritrovano oggi qui premiati come miglior film “indipendente” dell'anno (dopo esser stati bellamente e paradigmaticamente ignorati perfino nelle nomination del più ufficiale e ‘importante” premio italiano di cinema). Curiosamente, nella stessa estate scorsa, il cinema di Pontecorvo era stato evocato in occasione dell'uscita anche da noci di un libro postumo di Serge Daney, ossessivamente ritornante (come motivazione teorico biografica (non) casuale del suo fare critica) sul feticcio negativo del “carrello di Kapò”. Convinti come siamo che per il cinema e nel cinema siamo importanti come le immagini (insieme conservate e transeunti, fissate e passeggere, congelate e liquide) le parole prima e dopo film, i prolungamenti d'immagine nella memoria mutante, i rimpianti di futuro, i lapsus e le immagini più definitive e controllate e firmate, pensiamo che il confronto tra due film così distanti e eccentrici, e il planare di quel "carrello” come un fantasma retorico (giustamente Pontecorvo ha detto di non ricordarsene neanche, giustamente Daney e altri lo prendono come una perversione nascosta, forse "pericolosa” (!) proprio per la sua irrilevanza), possono sbatterci in faccia le incertezze del nostro accanimento intorno all'indipendenza e alla "libertà" del cinema (italiano). Italiano tra parentesi, da quando le retrospettive e le personali hanno spalancato un occhio apolide su esperienze di cinema libero in tutto il mondo, contaminando l'indipendenza italiana con il cinema living, o con autori (Ed Wood, Jack Hill) e generi nati intorno o dentro la fabbrica più costrittiva (quella hollywoodiana). Terzo cinema, quest'anno, che aldilà della contingenza storica della definizione ci consegna all'ipotesi di un terzo che non si dà ma è, oltre Lumière /Meliès, oltre Lang/Rossellini, oltre Kubrick /Vigo. Cinema della necessità e dell'assurdo, dell'indipendenza rispetto alle fabbriche dominanti, della volontà di moltiplicare fomi e fabbriche e sogni. Non lontano, nel luogo e nel tempo, dalla situazione oggi del cinema italiano. Trenta, venti, dieci anni dopo, il cinema geograficamente culturalmente politicamente esotico e diverso è diventato non più l'unica speranza ma la realtà necessaria dei festival internazionali intesi come circuito, anche mentre la battaglia per alcuni cinemi nazionali sembra a tratti persa (per esempio in America Latina). Da noi, con la televisione che per dieci anni ha sostituito e costituito il cinema italiano salvo schegge autoriali, esuli apolidi, e sopravvivenze auto conservative del piccolo sistema cinema assistito, i cineasti si trovano, svanita ora anche l'illusione barricadiera di resistenza e lunga marcia antiberlusconiana, a dover inventare il (proprio) cinema, a rendere fiammeggiante e necessaria la loro flagrante superfluità. Non è negativa, la nudità del cinema italiano. L'immagine opaca che continua a dare di sé anche nella vitalità, paragonato alla continuità brillante del cinema "giovane" francese inglese americano neozelandese giapponese portoghese kazakho. Come se tale opacità fosse autonomamente evidente rispetto all'interesse o all'eccezionalità di ormai numerosi "autori" e film nuovi (da Martone a Corsicato a Incerti a Ciprie Maresco, Capuano, Rezza, Misuraca, Scimeca, Infascelli, Benigni, Calogero, Fragasso a... De Bernardi, a Troisi), al proseguire di autori-guida riconosciuti anche all'estero dopo Bertolucci (Moretti e Tornatore, Amelio, Avati, Argento), al permanere attivo di alcuni anziani maestri, e di cineasti della generazione di mezzo (i Del Monte, Grifi, Giuseppe Bertolucci, Giordana, Faccini, Piscicelli, Paolo Benvenuti) ai giovani intelligenti rivitalizzatori di generi (Virzì, Baldoni, Piccioni, Verdone, De Lillo/Magliulo, Tognazzi e Risi), a altri seri percorsi d'autore (Archibugi, Segre, Soldini, Bigoni, Salvatores, Nichetti, Grimaldi, Alessandro Benvenuti, Mazzacurati, Ferrario) ai frutti del trapianto di cuore praticato da Moretti sul corpo del "cinema civile" (Luchetti, Calopresti)... e mi fermo senza pretese di esaustività (anzi affidando al caso del momento di memoria la (in)completezza del panorama, ricordando tra i molti visti a Bellaria almeno i nomi di Segatori e Gaudino, che ancora devono "chiudere" il primo lungometraggio dopo prove cache geniali). Per quanto insegua la realtà e proclami la propria, il cinema italiano stenta a trovare un luogo nell'immaginario, da noi e altrove. Come se il suo ennesimo manifestarsi restasse sempre secondo rispetto a se stesso prima di tutto (il cinema che da Rossellini a Antonioni a Fellini, da De Sica a De Santis a Visconti ha cambiato il modo d'essere del cinema, prima che le nouvelles vagues mutassero il modo di percepirlo e -ancor più- di percepirsi), e incerto rispetto ai vari "nuovi cinemi" nazionali che di volta in volta si sono presentati e affermati. Divorata un'ipotetica nouvelle vague dalla formidabile generazione dei padri (si salva, e quindi muore, Pasolini; come muoiono al cinema Schifano e Bene; fugge in uno straordinario estremismo "filmico" Bertolucci, oggi quasi "non riconosciuto" in quanto definitivamente approdato a un territorio "altro", più che apolide: l'Italia fiabata che balla da sola), smangiato e ricoperto il territorio dalla pervasività televisiva, il cinema italiano è costretto ben oltre le volontà di isolamento e di rigore autoriale, e ben altrimenti rispetto alle buone (pessime?) intenzioni di radicamento e di rappresentazione, a essere (solo) se stesso, a farsi conico in modo radicale di una nudità che il cinema altrove maschera, ma che il cinema stesso, diffondendosi oltre la sala e oltre gli apparati e le macchine, nell'etere e infine nella nostra testa, ha additato per sempre. A suo modo, già la giuria di Bellaria 1996, compresa tra De Seta e Asia Argento, tra un affascinante cineasta dall'opera interrotta e una fascinosa giovanissima attrice che ha appena dichiarato di esser stanca del cinema, manifesta questa incertezza, questo esistere venendo meno. E noi siamo necessariamente ridicoli, dovendo non comprendere nell'elenco “tecnico” dei film indipendenti dell'anno L'amore molesto o La seconda volta a causa della forte partecipazione Rai. Ancora costretti a valutare la provenienza dei capitali, come se infine l'indipendenza non fosse anche e soprattutto quella dal proprio capitale/budget, infimo o enorme, comunque dubbio per circolare provenienza. Ma, constatati i tenaci ma rarefatti legami con la tradizione, il cinema italiano è quasi tutto nella invidiabile (0 poco) situazione di doversi considerare “indipendente”, se si esce dalla questione infine ristretta di quali siamo i soggetti (produttore o regista o sceneggiatore) da misurare nell'indipendenza. E insieme è tutto fortissimamente dipendente dalla propria mancanza di sicurezza, dalla propria scarsa legittimazione in sala, dalla modesta forza contrattuale nei confronti della produzione televisiva. In questo Anno uno (dopo Lumière) del cinema italiano, Anno uno come il sublime film politico di Rossellini, l'attesa verso rinascite per via legislativa è certo eccessiva. Quanto alla rappresentatività di questo cinema, al suo probabile proporsi futuro come unico plausibile resoconto  sociologico di questi giorni (lo afferma da tempo Mario Sesti), è lapalissianamente sicura. Ahimè o per fortuna in modo indipendente dagli autori, in pura virtù di cinema, di registrazione filmica in cui milioni di indizi e di tratti restano comunque impigliati, anche in assenza di virtù specifiche, in un testo unico e immenso in cui la più preziosa inquadratura di Ciprì e Maresco si trova contigua a quella del più piatto momento di un Salvatores, e entrambe hanno la stessa “portanza”, lo stesso “pieno* inevitabile. A noi, a Bellaria e altrove, interessa un cinema che non sia solo l'automatismo di questo pieno (magari aggravato da ridicole intenzioni d'autore o da più comprensibili e mediocri istanze di affermazione sociale), mail tentativo di trame dei vuoti, delle forme in negativo, delle traiettorie inattese di libertà dentro l'insopprimibile imprigionamento che è il fotogramma. Con l'arrivo tra un mese del festival Sacher di Nanni Moretti, sono ormai almeno cinque gli appuntamenti di un qualche peso stabilmente dedicati al cinema italiano giovane o indipendente o a piccolo budget o corto o “altro”. Un sotto circuito dentro il circuito dei festival maggiori nazionali e internazionali. Percorso e prodotto come sempre da aspirazioni almeno doppie: l'ansia di proporsi, di farsi conoscere e apprezzate (anche dai maneggiatori di capitali e dai soggetti situati in luoghi istituzionali della distribuzione) ai fini di un passaggio a circuiti
Dopo molti (troppi) anni, infine non c'è completamente oscuro come il cinema indipendente che si impone all'attenzione (o che perfino si faccia amare con tensione e senza bisogno di intenzione) sia indipendente soprattutto da se stesso e dai propri autori. Non ci piace ammetterlo, perché la cosa ci porta vicino alla sostanza collettiva e politica di una comunicazione che non conosciamo e che ci eccede, misteriosamente più forte e intensa dei tentativi anche più accaniti folli, raffinati di orientarla cavalcarla mutarla. E non ci piace perché siamo invece costretti a attaccarci a nomi, progetti, stili precisi o in formazione, nella ricerca, nello studio, nel farsi di questo festival stesso, nel piacere. Con piacere si verifica quest'anno a Bellaria la congiunzione casuale e non voluta di due cinemi, di due diversissimi progetti di cinema in Italia, che nell'estate di un anno fa hanno segnato il dibattito politico culturale. Accettando e seguendo caparbiamente il criterio cronologico, il trentennale incontra quest'anno un grande film-problema, La battaglia di Algeri di Pontecorvo. Lo stesso Pontecorvo che dirige il maggior festival italiano di cinema, dove l'anno scorso era stato invitato solo a margine Lo zio di Brooklyn di Ciprì e Maresco. I quali rifiutarono l'invito, e si ritrovano oggi qui premiati come miglior film “indipendente” dell'anno (dopo esser stati bellamente e paradigmaticamente ignorati perfino nelle nomination del più ufficiale e ‘importante” premio italiano di cinema). Curiosamente, nella stessa estate scorsa, il cinema di Pontecorvo era stato evocato in occasione dell'uscita anche da noci di un libro postumo di Serge Daney, ossessivamente ritornante (come motivazione teorico biografica (non) casuale del suo fare critica) sul feticcio negativo del “carrello di Kapò”. Convinti come siamo che per il cinema e nel cinema siamo importanti come le immagini (insieme conservate e transeunti, fissate e passeggere, congelate e liquide) le parole prima e dopo film, i prolungamenti d'immagine nella memoria mutante, i rimpianti di futuro, i lapsus e le immagini più definitive e controllate e firmate, pensiamo che il confronto tra due film così distanti e eccentrici, e il planare di quel "carrello” come un fantasma retorico (giustamente Pontecorvo ha detto di non ricordarsene neanche, giustamente Daney e altri lo prendono come una perversione nascosta, forse "pericolosa” (!) proprio per la sua irrilevanza), possono sbatterci in faccia le incertezze del nostro accanimento intorno all'indipendenza e alla "libertà" del cinema (italiano). Italiano tra parentesi, da quando le retrospettive e le personali hanno spalancato un occhio apolide su esperienze di cinema libero in tutto il mondo, contaminando l'indipendenza italiana con il cinema living, o con autori (Ed Wood, Jack Hill) e generi nati intorno o dentro la fabbrica più costrittiva (quella hollywoodiana). Terzo cinema, quest'anno, che aldilà della contingenza storica della definizione ci consegna all'ipotesi di un terzo che non si dà ma è, oltre Lumière /Meliès, oltre Lang/Rossellini, oltre Kubrick /Vigo. Cinema della necessità e dell'assurdo, dell'indipendenza rispetto alle fabbriche dominanti, della volontà di moltiplicare fomi e fabbriche e sogni. Non lontano, nel luogo e nel tempo, dalla situazione oggi del cinema italiano. Trenta, venti, dieci anni dopo, il cinema geograficamente culturalmente politicamente esotico e diverso è diventato non più l'unica speranza ma la realtà necessaria dei festival internazionali intesi come circuito, anche mentre la battaglia per alcuni cinemi nazionali sembra a tratti persa (per esempio in America Latina). Da noi, con la televisione che per dieci anni ha sostituito e costituito il cinema italiano salvo schegge autoriali, esuli apolidi, e sopravvivenze auto conservative del piccolo sistema cinema assistito, i cineasti si trovano, svanita ora anche l'illusione barricadiera di resistenza e lunga marcia antiberlusconiana, a dover inventare il (proprio) cinema, a rendere fiammeggiante e necessaria la loro flagrante superfluità. Non è negativa, la nudità del cinema italiano. L'immagine opaca che continua a dare di sé anche nella vitalità, paragonato alla continuità brillante del cinema "giovane" francese inglese americano neozelandese giapponese portoghese kazakho. Come se tale opacità fosse autonomamente evidente rispetto all'interesse o all'eccezionalità di ormai numerosi "autori" e film nuovi (da Martone a Corsicato a Incerti a Ciprie Maresco, Capuano, Rezza, Misuraca, Scimeca, Infascelli, Benigni, Calogero, Fragasso a... De Bernardi, a Troisi), al proseguire di autori-guida riconosciuti anche all'estero dopo Bertolucci (Moretti e Tornatore, Amelio, Avati, Argento), al permanere attivo di alcuni anziani maestri, e di cineasti della generazione di mezzo (i Del Monte, Grifi, Giuseppe Bertolucci, Giordana, Faccini, Piscicelli, Paolo Benvenuti) ai giovani intelligenti rivitalizzatori di generi (Virzì, Baldoni, Piccioni, Verdone, De Lillo/Magliulo, Tognazzi e Risi), a altri seri percorsi d'autore (Archibugi, Segre, Soldini, Bigoni, Salvatores, Nichetti, Grimaldi, Alessandro Benvenuti, Mazzacurati, Ferrario) ai frutti del trapianto di cuore praticato da Moretti sul corpo del "cinema civile" (Luchetti, Calopresti)... e mi fermo senza pretese di esaustività (anzi affidando al caso del momento di memoria la (in)completezza del panorama, ricordando tra i molti visti a Bellaria almeno i nomi di Segatori e Gaudino, che ancora devono "chiudere" il primo lungometraggio dopo prove cache geniali). Per quanto insegua la realtà e proclami la propria, il cinema italiano stenta a trovare un luogo nell'immaginario, da noi e altrove. Come se il suo ennesimo manifestarsi restasse sempre secondo rispetto a se stesso prima di tutto (il cinema che da Rossellini a Antonioni a Fellini, da De Sica a De Santis a Visconti ha cambiato il modo d'essere del cinema, prima che le nouvelles vagues mutassero il modo di percepirlo e -ancor più- di percepirsi), e incerto rispetto ai vari "nuovi cinemi" nazionali che di volta in volta si sono presentati e affermati. Divorata un'ipotetica nouvelle vague dalla formidabile generazione dei padri (si salva, e quindi muore, Pasolini; come muoiono al cinema Schifano e Bene; fugge in uno straordinario estremismo "filmico" Bertolucci, oggi quasi "non riconosciuto" in quanto definitivamente approdato a un territorio "altro", più che apolide: l'Italia fiabata che balla da sola), smangiato e ricoperto il territorio dalla pervasività televisiva, il cinema italiano è costretto ben oltre le volontà di isolamento e di rigore autoriale, e ben altrimenti rispetto alle buone (pessime?) intenzioni di radicamento e di rappresentazione, a essere (solo) se stesso, a farsi conico in modo radicale di una nudità che il cinema altrove maschera, ma che il cinema stesso, diffondendosi oltre la sala e oltre gli apparati e le macchine, nell'etere e infine nella nostra testa, ha additato per sempre. A suo modo, già la giuria di Bellaria 1996, compresa tra De Seta e Asia Argento, tra un affascinante cineasta dall'opera interrotta e una fascinosa giovanissima attrice che ha appena dichiarato di esser stanca del cinema, manifesta questa incertezza, questo esistere venendo meno. E noi siamo necessariamente ridicoli, dovendo non comprendere nell'elenco “tecnico” dei film indipendenti dell'anno L'amore molesto o La seconda volta a causa della forte partecipazione Rai. Ancora costretti a valutare la provenienza dei capitali, come se infine l'indipendenza non fosse anche e soprattutto quella dal proprio capitale/budget, infimo o enorme, comunque dubbio per circolare provenienza. Ma, constatati i tenaci ma rarefatti legami con la tradizione, il cinema italiano è quasi tutto nella invidiabile (0 poco) situazione di doversi considerare “indipendente”, se si esce dalla questione infine ristretta di quali siamo i soggetti (produttore o regista o sceneggiatore) da misurare nell'indipendenza. E insieme è tutto fortissimamente dipendente dalla propria mancanza di sicurezza, dalla propria scarsa legittimazione in sala, dalla modesta forza contrattuale nei confronti della produzione televisiva. In questo Anno uno (dopo Lumière) del cinema italiano, Anno uno come il sublime film politico di Rossellini, l'attesa verso rinascite per via legislativa è certo eccessiva. Quanto alla rappresentatività di questo cinema, al suo probabile proporsi futuro come unico plausibile resoconto  sociologico di questi giorni (lo afferma da tempo Mario Sesti), è lapalissianamente sicura. Ahimè o per fortuna in modo indipendente dagli autori, in pura virtù di cinema, di registrazione filmica in cui milioni di indizi e di tratti restano comunque impigliati, anche in assenza di virtù specifiche, in un testo unico e immenso in cui la più preziosa inquadratura di Ciprì e Maresco si trova contigua a quella del più piatto momento di un Salvatores, e entrambe hanno la stessa “portanza”, lo stesso “pieno* inevitabile. A noi, a Bellaria e altrove, interessa un cinema che non sia solo l'automatismo di questo pieno (magari aggravato da ridicole intenzioni d'autore o da più comprensibili e mediocri istanze di affermazione sociale), mail tentativo di trame dei vuoti, delle forme in negativo, delle traiettorie inattese di libertà dentro l'insopprimibile imprigionamento che è il fotogramma. Con l'arrivo tra un mese del festival Sacher di Nanni Moretti, sono ormai almeno cinque gli appuntamenti di un qualche peso stabilmente dedicati al cinema italiano giovane o indipendente o a piccolo budget o corto o “altro”. Un sotto circuito dentro il circuito dei festival maggiori nazionali e internazionali. Percorso e prodotto come sempre da aspirazioni almeno doppie: l'ansia di proporsi, di farsi conoscere e apprezzate (anche dai maneggiatori di capitali e dai soggetti situati in luoghi istituzionali della distribuzione) ai fini di un passaggio a circuiti superiori; e quella di esprimersi e spremersi e imprimersi un po' (nel nastro o nella pellicola), a qualunque (non) costo. Più tutti i terzi e ennesimi cinemi (da Grifi a...) che avvertono e praticano l'urgenza di altro, del proprio o altrui "altro", fino all'immagine più personale e solipsistica o a quella ancora oltre, meta personale o impersonale fino a essere "spossessaria". Serpeggia comunque l'insoddisfazione (di chi vede e di chi propone, di chi cerca e di chi (non) trova, di chi giudica, di chi classifica), in un luogo come questo: il luogo di Bellaria, il luogo cinema indipendente. Da sempre disordinato e babelico (nel suo piccolo), Anteprima, che forse è stato indispensabile, è ora costretto a divenirlo, indispensabile, per non essere solo il confortante o sconfortante anello del circuito. Forzando l'autosufficienza di esso con le aperture apolidi, non parallele, ma oblique, tangenti, perfino stridenti. Con l'improvviso incontro cronologico e fatale con le apparizioni di quando il cinema si illudeva di essere più sicuro. Proponendo in futuro una selezione sempre più rigorosa e di ‘tendenza’, ma anche (mentre il senso della stessa parola “anteprima” si perde appunto nel circuito) una panoramica esaustiva, sia pur mostruosamente esaustiva, accompagnata da una sorta di mercato, con ospiti e esiti magari perfino antitetici rispetto alle proposte e alle scelte e ai desideri di chi al festival darà o continuerà a dare forma. La forma che oggi (ripeto, orgogliosamente, quasi per caso) propone insieme il verosimile simil vero del film capitale di Pontecorvo (una sorta di rovesciamento (post)rosselliniano), così amato dal cinema mondiale e mitizzato da noi, e il radicalismo vuoto dello Zio di Brooklyn, film sbiancante (o annerente) di tutto il cinema italiano, che ci riporta a zero. Pronti impensabilmente a apprezzare scogli e iceberg e emersioni più precise, perfino a disegnare itinerari manuali, come se invece di spruzzi e spume si trattasse ancora di essere fatalmente qui, cresta ennesima di un cinema tutto assommato nella propria profondità liquida, srotolio di una smemoria (compattamente gassosa?) cui partecipano le telecamere di controllo e il set di Scorsese, la testa di Kubrick che immagina film e il meno riuscito, il più presuntuoso, il meno ambizioso dei video da un minuto che però è qui (non si accontenta della beatitudine di non esserci), in questo momento svanito. P.S.: Il titolo di un bel film della retrospettiva “Terzo Cinema”, Les Dupes ("gli ingannati”, i presi in giro), mi fa di nuovo pensare all'illusione politica che forse ci anima e che mima il cinema forzatamente indipendente e anche quello indipendente per elezione (e quello che presto sarà indipendente dalla realtà grazie al virtual sintetico digitale). E un vecchio gioco di parole lacaniano. Les non-dupes errent. I non ingannati sbagliano. Che si può mutare all'ascolto in Le nom du père (il nome del padre). Ingannati dal cinema, nel nome dei padri, infine voi e noi dotati di una certa ottusità che, non si sa perché, sono liberi di (non) sbagliare. E di errare.
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Versione delle 09:15, 17 mar 2025

Locandina Anteprima per il cinema indipendente italiano, 1996

Enti promotore

Comune di Bellaria Marina, Assessorato alla Cultura, Archivio del cinema indipendente italiano. Con il contributo di: presidenza del consiglio dei ministri- dipartimento spettacolo regione Emilia Romagna.

Direzione artistica

Antonio Costa, Enrico Ghezzi, Morando Morandini, Roberto Silvestri

Direzione organizzativa

Gianfranco Miro Gori

Segreteria

Anna Gradara, Paola Gori, Antonio Tolo

Ufficio stampa

Mazzia Milesi

Amministrazione e servizi tecnici

Saverio Gori

Presentazione

L'Assessore alla Cultura Mara Garattoni

Anteprima è una manifestazione turistica o un evento culturale? È un interrogativo che ogni ogni anni si ripropone, a Bellaria, in varie sedi, da quelle del mondo associativo ed economico, ai banchi del Consiglio Comunale, qualche eco forse sfiora anche tanti bellariesi ormai presi dall'avvio a pieno ritmo della stagione turistica. È una domanda legittima dato l'investimento economico della Pubblica Amministrazione, tuttavia la riflessione dovrebbe essere intellettualmente onesta, libera da schieramenti pregiudiziali e soprattutto consapevole che la qualificazione culturale di una città percorre strade talvolta più accidentate di quelle volte al benessere economico. Losi può constatare ogni volta che si cerca di comparare questo dato con il grado di insoddisfazione psicologica, affettiva, spirituale, che assilla tanti individui delle aree più sviluppate del mondo. Dunque è certamente positivo mantenere la dialettica su temi legati alla promozione sociale e culturale di una città, come è avvenuto nel Consiglio Comunale del 20/5/96, che ha approvato una proposta di accordo di programma tra i Comuni di Bellaria Igea Marina e Rimini sui festival del cinema indipendente: Anteprima e Rimini cinema. Questa deliberazione esprime un indirizzo programmatico teso alla valorizzazione di forme espressive e produttive marginali in quanto sorte ed agite fuori dai circuiti della grande industria cinematografica. L'offerta di un luogo di emersione a idee e sensibilità innovative, la promozione di occasioni di contaminazione culturale fra autori provenienti da aree geografiche diverse e lontane, la formazione di operatori locali capaci di sviluppare una progettualità coerente ed organica in un fecondo rapporto con intellettuali di differente provenienza, contribuisce necessariamente alla crescita culturale della nostra città. La rassegna di film organizzata nei mesi di marzo-aprile (Periferie) in collaborazione con l'Archivio del Cinemalndipendente e la presenza, alle proiezioni, di un pubblico numeroso e attento, dimostra come l'interesse per il cinema si stia risvegliando nuovamente fra molti giovani che rifiutano la visione di opere ‘offese’ dalla mercificazione televisiva. L'obiettivo dell'accordo di programma fra Anteprima e Rimini cinema dovrebbe tendere a rafforzare la presenza delle due manifestazioni nel quadro delle proposte e degli eventi che segnano la stagione estiva della provincia riminese, salvaguardandone tutta via la rispettiva identità e specificità tematica. Una conseguenza implicita di questa scelta dovrebbe essere la realizzazione di un sistema integrato dell'offerta culturale a livello provinciale tesa alla razionalizzazione delle risorse, all'arricchimento della proposta culturale, ad una fruizione più articolata delle manifestazioni, al sostegno di relazioni dinamiche sempre feconde di incontri, di idee, di proposte. Il programma di questa 14“edizione propone il 30° compleanno de La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, un film sul Terzo Mondo e sul colonialismo che racconta sentimenti, emozioni, entusiasmi, sofferenze di tanti uomini che concentrarono i loro sforzi per liberarsi dal potere imperialistico per dar vita ad una nazione. Il film propone la storia vista dalla parte dei popoli coloniali che lottano contro l'oppressione, un'opera che offre l'occasione per parlare dei tanti drammi che affliggono il Terzo Mondo. L'Algeria di oggi, infatti, fornisce un esempio delle contraddizioni e delle lacerazioni interne, e ancora vive, di un popolo che ha vissuto l'esperienza del colonialismo. La retrospettiva, coerentemente con la scelta de La battaglia di Algeri è dedicata al cosiddetto Terzo Cinema, nato verso la metà degli anni ‘60. Esso si pone programmaticamente fra il cinema dipendente commerciale e quello d'autore, anch'esso influenzato da esigenze di mercato. Il Terzo Cinema, invece, è indipendente, politico, interculturale, è un cinema di frontiera che affronta tematiche internazionaliste, del Terzo Mondo, dei disoccupati, della droga, dell'antipsichiatria, della liberazione nazionale. I film proposti nella sezione ci introdurranno in geografie dell'immaginario poco frequentate, contribuendo ad accogliere nei nostri orizzonti emotivi e culturali il ’diverso da me”. In questa 14° edizione Anteprima, oltre al consueto Premio Casa Rossa, dedica un omaggio particolare atre esponenti significativi, ciascuno a proprio titolo, del panorama cinematografico italiano. Si tratta di Paolo Gobetti, figlio di Piero Gobetti, partigiano e responsabile per oltre trent'anni dell'Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, recentemente scomparso; di Vittorio De Seta, regista ‘scomodo’ che racconta l'estraniazione, il viaggio interiore alla ricerca di sé, quindi il disagio esistenziale di chi non sa conciliarsi col mondo; di Gianfranco Mingozzi, voce impegnata nella produzione italiana di documentari di impegno civile. Dunque Anteprima, attraverso le sue sezioni, propone un intenso viaggio in quel cinema indipendente che sa rivolgere uno sguardo criticamente attivo sulla storia, sul mondo e sulle intrinseche contraddizioni che dovrebbero sempre inquietarci per elevarci dalla palude dell'indifferenza.

Cinema ennesimo, cent'anni dopo

Dopo molti (troppi) anni, infine non c'è completamente oscuro come il cinema indipendente che si impone all'attenzione (o che perfino si faccia amare con tensione e senza bisogno di intenzione) sia indipendente soprattutto da se stesso e dai propri autori. Non ci piace ammetterlo, perché la cosa ci porta vicino alla sostanza collettiva e politica di una comunicazione che non conosciamo e che ci eccede, misteriosamente più forte e intensa dei tentativi anche più accaniti folli, raffinati di orientarla cavalcarla mutarla. E non ci piace perché siamo invece costretti a attaccarci a nomi, progetti, stili precisi o in formazione, nella ricerca, nello studio, nel farsi di questo festival stesso, nel piacere. Con piacere si verifica quest'anno a Bellaria la congiunzione casuale e non voluta di due cinemi, di due diversissimi progetti di cinema in Italia, che nell'estate di un anno fa hanno segnato il dibattito politico culturale. Accettando e seguendo caparbiamente il criterio cronologico, il trentennale incontra quest'anno un grande film-problema, La battaglia di Algeri di Pontecorvo. Lo stesso Pontecorvo che dirige il maggior festival italiano di cinema, dove l'anno scorso era stato invitato solo a margine Lo zio di Brooklyn di Ciprì e Maresco. I quali rifiutarono l'invito, e si ritrovano oggi qui premiati come miglior film “indipendente” dell'anno (dopo esser stati bellamente e paradigmaticamente ignorati perfino nelle nomination del più ufficiale e ‘importante” premio italiano di cinema). Curiosamente, nella stessa estate scorsa, il cinema di Pontecorvo era stato evocato in occasione dell'uscita anche da noci di un libro postumo di Serge Daney, ossessivamente ritornante (come motivazione teorico biografica (non) casuale del suo fare critica) sul feticcio negativo del “carrello di Kapò”. Convinti come siamo che per il cinema e nel cinema siamo importanti come le immagini (insieme conservate e transeunti, fissate e passeggere, congelate e liquide) le parole prima e dopo film, i prolungamenti d'immagine nella memoria mutante, i rimpianti di futuro, i lapsus e le immagini più definitive e controllate e firmate, pensiamo che il confronto tra due film così distanti e eccentrici, e il planare di quel "carrello” come un fantasma retorico (giustamente Pontecorvo ha detto di non ricordarsene neanche, giustamente Daney e altri lo prendono come una perversione nascosta, forse "pericolosa” (!) proprio per la sua irrilevanza), possono sbatterci in faccia le incertezze del nostro accanimento intorno all'indipendenza e alla "libertà" del cinema (italiano). Italiano tra parentesi, da quando le retrospettive e le personali hanno spalancato un occhio apolide su esperienze di cinema libero in tutto il mondo, contaminando l'indipendenza italiana con il cinema living, o con autori (Ed Wood, Jack Hill) e generi nati intorno o dentro la fabbrica più costrittiva (quella hollywoodiana). Terzo cinema, quest'anno, che aldilà della contingenza storica della definizione ci consegna all'ipotesi di un terzo che non si dà ma è, oltre Lumière /Meliès, oltre Lang/Rossellini, oltre Kubrick /Vigo. Cinema della necessità e dell'assurdo, dell'indipendenza rispetto alle fabbriche dominanti, della volontà di moltiplicare fomi e fabbriche e sogni. Non lontano, nel luogo e nel tempo, dalla situazione oggi del cinema italiano. Trenta, venti, dieci anni dopo, il cinema geograficamente culturalmente politicamente esotico e diverso è diventato non più l'unica speranza ma la realtà necessaria dei festival internazionali intesi come circuito, anche mentre la battaglia per alcuni cinemi nazionali sembra a tratti persa (per esempio in America Latina). Da noi, con la televisione che per dieci anni ha sostituito e costituito il cinema italiano salvo schegge autoriali, esuli apolidi, e sopravvivenze auto conservative del piccolo sistema cinema assistito, i cineasti si trovano, svanita ora anche l'illusione barricadiera di resistenza e lunga marcia antiberlusconiana, a dover inventare il (proprio) cinema, a rendere fiammeggiante e necessaria la loro flagrante superfluità. Non è negativa, la nudità del cinema italiano. L'immagine opaca che continua a dare di sé anche nella vitalità, paragonato alla continuità brillante del cinema "giovane" francese inglese americano neozelandese giapponese portoghese kazakho. Come se tale opacità fosse autonomamente evidente rispetto all'interesse o all'eccezionalità di ormai numerosi "autori" e film nuovi (da Martone a Corsicato a Incerti a Ciprie Maresco, Capuano, Rezza, Misuraca, Scimeca, Infascelli, Benigni, Calogero, Fragasso a... De Bernardi, a Troisi), al proseguire di autori-guida riconosciuti anche all'estero dopo Bertolucci (Moretti e Tornatore, Amelio, Avati, Argento), al permanere attivo di alcuni anziani maestri, e di cineasti della generazione di mezzo (i Del Monte, Grifi, Giuseppe Bertolucci, Giordana, Faccini, Piscicelli, Paolo Benvenuti) ai giovani intelligenti rivitalizzatori di generi (Virzì, Baldoni, Piccioni, Verdone, De Lillo/Magliulo, Tognazzi e Risi), a altri seri percorsi d'autore (Archibugi, Segre, Soldini, Bigoni, Salvatores, Nichetti, Grimaldi, Alessandro Benvenuti, Mazzacurati, Ferrario) ai frutti del trapianto di cuore praticato da Moretti sul corpo del "cinema civile" (Luchetti, Calopresti)... e mi fermo senza pretese di esaustività (anzi affidando al caso del momento di memoria la (in)completezza del panorama, ricordando tra i molti visti a Bellaria almeno i nomi di Segatori e Gaudino, che ancora devono "chiudere" il primo lungometraggio dopo prove cache geniali). Per quanto insegua la realtà e proclami la propria, il cinema italiano stenta a trovare un luogo nell'immaginario, da noi e altrove. Come se il suo ennesimo manifestarsi restasse sempre secondo rispetto a se stesso prima di tutto (il cinema che da Rossellini a Antonioni a Fellini, da De Sica a De Santis a Visconti ha cambiato il modo d'essere del cinema, prima che le nouvelles vagues mutassero il modo di percepirlo e -ancor più- di percepirsi), e incerto rispetto ai vari "nuovi cinemi" nazionali che di volta in volta si sono presentati e affermati. Divorata un'ipotetica nouvelle vague dalla formidabile generazione dei padri (si salva, e quindi muore, Pasolini; come muoiono al cinema Schifano e Bene; fugge in uno straordinario estremismo "filmico" Bertolucci, oggi quasi "non riconosciuto" in quanto definitivamente approdato a un territorio "altro", più che apolide: l'Italia fiabata che balla da sola), smangiato e ricoperto il territorio dalla pervasività televisiva, il cinema italiano è costretto ben oltre le volontà di isolamento e di rigore autoriale, e ben altrimenti rispetto alle buone (pessime?) intenzioni di radicamento e di rappresentazione, a essere (solo) se stesso, a farsi conico in modo radicale di una nudità che il cinema altrove maschera, ma che il cinema stesso, diffondendosi oltre la sala e oltre gli apparati e le macchine, nell'etere e infine nella nostra testa, ha additato per sempre. A suo modo, già la giuria di Bellaria 1996, compresa tra De Seta e Asia Argento, tra un affascinante cineasta dall'opera interrotta e una fascinosa giovanissima attrice che ha appena dichiarato di esser stanca del cinema, manifesta questa incertezza, questo esistere venendo meno. E noi siamo necessariamente ridicoli, dovendo non comprendere nell'elenco “tecnico” dei film indipendenti dell'anno L'amore molesto o La seconda volta a causa della forte partecipazione Rai. Ancora costretti a valutare la provenienza dei capitali, come se infine l'indipendenza non fosse anche e soprattutto quella dal proprio capitale/budget, infimo o enorme, comunque dubbio per circolare provenienza. Ma, constatati i tenaci ma rarefatti legami con la tradizione, il cinema italiano è quasi tutto nella invidiabile (0 poco) situazione di doversi considerare “indipendente”, se si esce dalla questione infine ristretta di quali siamo i soggetti (produttore o regista o sceneggiatore) da misurare nell'indipendenza. E insieme è tutto fortissimamente dipendente dalla propria mancanza di sicurezza, dalla propria scarsa legittimazione in sala, dalla modesta forza contrattuale nei confronti della produzione televisiva. In questo Anno uno (dopo Lumière) del cinema italiano, Anno uno come il sublime film politico di Rossellini, l'attesa verso rinascite per via legislativa è certo eccessiva. Quanto alla rappresentatività di questo cinema, al suo probabile proporsi futuro come unico plausibile resoconto sociologico di questi giorni (lo afferma da tempo Mario Sesti), è lapalissianamente sicura. Ahimè o per fortuna in modo indipendente dagli autori, in pura virtù di cinema, di registrazione filmica in cui milioni di indizi e di tratti restano comunque impigliati, anche in assenza di virtù specifiche, in un testo unico e immenso in cui la più preziosa inquadratura di Ciprì e Maresco si trova contigua a quella del più piatto momento di un Salvatores, e entrambe hanno la stessa “portanza”, lo stesso “pieno* inevitabile. A noi, a Bellaria e altrove, interessa un cinema che non sia solo l'automatismo di questo pieno (magari aggravato da ridicole intenzioni d'autore o da più comprensibili e mediocri istanze di affermazione sociale), mail tentativo di trame dei vuoti, delle forme in negativo, delle traiettorie inattese di libertà dentro l'insopprimibile imprigionamento che è il fotogramma. Con l'arrivo tra un mese del festival Sacher di Nanni Moretti, sono ormai almeno cinque gli appuntamenti di un qualche peso stabilmente dedicati al cinema italiano giovane o indipendente o a piccolo budget o corto o “altro”. Un sotto circuito dentro il circuito dei festival maggiori nazionali e internazionali. Percorso e prodotto come sempre da aspirazioni almeno doppie: l'ansia di proporsi, di farsi conoscere e apprezzate (anche dai maneggiatori di capitali e dai soggetti situati in luoghi istituzionali della distribuzione) ai fini di un passaggio a circuiti superiori; e quella di esprimersi e spremersi e imprimersi un po' (nel nastro o nella pellicola), a qualunque (non) costo. Più tutti i terzi e ennesimi cinemi (da Grifi a...) che avvertono e praticano l'urgenza di altro, del proprio o altrui "altro", fino all'immagine più personale e solipsistica o a quella ancora oltre, meta personale o impersonale fino a essere "spossessaria". Serpeggia comunque l'insoddisfazione (di chi vede e di chi propone, di chi cerca e di chi (non) trova, di chi giudica, di chi classifica), in un luogo come questo: il luogo di Bellaria, il luogo cinema indipendente. Da sempre disordinato e babelico (nel suo piccolo), Anteprima, che forse è stato indispensabile, è ora costretto a divenirlo, indispensabile, per non essere solo il confortante o sconfortante anello del circuito. Forzando l'autosufficienza di esso con le aperture apolidi, non parallele, ma oblique, tangenti, perfino stridenti. Con l'improvviso incontro cronologico e fatale con le apparizioni di quando il cinema si illudeva di essere più sicuro. Proponendo in futuro una selezione sempre più rigorosa e di ‘tendenza’, ma anche (mentre il senso della stessa parola “anteprima” si perde appunto nel circuito) una panoramica esaustiva, sia pur mostruosamente esaustiva, accompagnata da una sorta di mercato, con ospiti e esiti magari perfino antitetici rispetto alle proposte e alle scelte e ai desideri di chi al festival darà o continuerà a dare forma. La forma che oggi (ripeto, orgogliosamente, quasi per caso) propone insieme il verosimile simil vero del film capitale di Pontecorvo (una sorta di rovesciamento (post)rosselliniano), così amato dal cinema mondiale e mitizzato da noi, e il radicalismo vuoto dello Zio di Brooklyn, film sbiancante (o annerente) di tutto il cinema italiano, che ci riporta a zero. Pronti impensabilmente a apprezzare scogli e iceberg e emersioni più precise, perfino a disegnare itinerari manuali, come se invece di spruzzi e spume si trattasse ancora di essere fatalmente qui, cresta ennesima di un cinema tutto assommato nella propria profondità liquida, srotolio di una smemoria (compattamente gassosa?) cui partecipano le telecamere di controllo e il set di Scorsese, la testa di Kubrick che immagina film e il meno riuscito, il più presuntuoso, il meno ambizioso dei video da un minuto che però è qui (non si accontenta della beatitudine di non esserci), in questo momento svanito. P.S.: Il titolo di un bel film della retrospettiva “Terzo Cinema”, Les Dupes ("gli ingannati”, i presi in giro), mi fa di nuovo pensare all'illusione politica che forse ci anima e che mima il cinema forzatamente indipendente e anche quello indipendente per elezione (e quello che presto sarà indipendente dalla realtà grazie al virtual sintetico digitale). E un vecchio gioco di parole lacaniano. Les non-dupes errent. I non ingannati sbagliano. Che si può mutare all'ascolto in Le nom du père (il nome del padre). Ingannati dal cinema, nel nome dei padri, infine voi e noi dotati di una certa ottusità che, non si sa perché, sono liberi di (non) sbagliare. E di errare.