2004

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Enti Promotori[modifica | modifica sorgente]

Locandina Bellaria Film Festival, Anteprima per il cinema indipendente italiano, 2004
  • Comune di Bellaria Igea Marina Assessorato alla Cultura Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Dipartimento dello Spettacolo, Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini
  • Sindaco: Gianni Scenna
  • Assessore alla Cultura: Ugo Baldassarri
  • Dirigente Settore Cultura: Italo Cecchini

Direzione[modifica | modifica sorgente]

  • Direzione artistica: Antonio Costa, Morando Morandini, Daniele Segre
  • Direzione organizzativa: Antonio Tolo
  • Segreteria, ricerca film: Nicoletta Casali, Cristina Gori, Giorgia Lazzari
  • Catalogo, immagine: Antonio Tolo
  • Traduzioni: Giorgia Lazzari
  • Ufficio Stampa: Moira Miele, Diana Massarotto, Paolo Pagliarani (stampa locale)
  • Ufficio ospitalità: Giorgia Lazzari
  • Immagine di copertina: ElleKappa
  • Sigla: Donato Sansone
  • Proiezioni: Brenno Miselli, Angela Miselli, Ugo Baracchi, Marco Davolio
  • Proiezioni video: Zelig audiovisivi
  • Sottotitoli virtuali a cura di Zero in Condotta

Giurie[modifica | modifica sorgente]

  • Giuria del concorso anteprima: Sonia Bergamasco, Amedeo Fago, Franco Giraldi, Suzette Glenadel, Lorenzo Pellizzari
  • Segreteria di giuria: Francesca Airaudo
  • Giuria del Premio Casa Rossa: Mario Calderaie, Gianni Canova, Aldo Fittante, Bruno Fornara, Massimo Lastrucci, Roberto Nepoti, Cristiana Paternò, Alberto Pezzotta, Maurizio Porro, Adelina Preziosi

Presentazione[modifica | modifica sorgente]

di Gianni Scenna (Sindaco) e Ugo Baldassarri (L'Assessore alla Cultura)

Anteprima per il cinema indipendente italiano ritorna puntuale e fa di Bellaria Igea Marina, per quattro giorni, una delle più autorevoli cittadelle del cinema italiano. Non è semplice per una città come la nostra mettere in piedi da ventidue anni una manifestazione che ha saputo ritagliarsi un posto di primo piano nel panorama dei festival cinematografici. Ci aiutano e ci sostengono innanzitutto le altre Pubbliche Amministrazioni, il Ministero per i beni e le attività culturali, la Regione Emilia-Romagna e la Provincia di Rimini, cui va il nostro sentito ringraziamento. Ringraziamento che va esteso a tutte le ragazze della segreteria per il fondamentale, prezioso e sotterraneo lavoro dietro le quinte. Ma ci conforta soprattutto l'adesione al nostro progetto dei nostri cittadini, che hanno confermato, anno dopo anno, un affetto e un attaccamento a quello che sentono, sempre più, come il loro festival. Lo dimostra la partecipazione convinta dei ragazzi della Scuola Media, che già hanno avviato percorsi di approfondimento su alcuni dei temi che il programma del festival propone quest'anno: la straordinaria esperienza di Giuliano Scabia e dei suoi allievi e il fascino insospettato che ci trasmettono le immagini del matematico cineasta Michele Emmer. E lo ribadisce la pronta e indispensabile disponibilità che hanno dimostrato i giovani albergatori di Bellaria lgea Marina, artefici con i loro Volti, al pari del regista Daniele Segre, del bel ritratto della nostra città che aprirà Anteprima. Il programma si presenta molto ricco e interessante, a partire dalla festa di compleanno, dedicata a L'invenzione di More[ di Emidio Greco e per la quale apprezziamo la disponibilità e la collaborazione manifestate dalla Cineteca Nazionale. E poi, oltre ai già citati Scabia ed Emmer, Michel Chion, l'omaggio a Jean Rouch e i tradizionali Concorso Anteprima, 150 secondi a tema fisso e il Premio Casa Rossa. Ci sono tutti gli ingredienti, insomma, per una bella festa del cinema. Ci rattrista che non possa essere con noi la cara amica Laura Morandini, cui va il nostro pensiero e alla quale ci piacerebbe che venisse dedicato il festival di quest'anno. Buon'Anteprima.

Introduzione[modifica | modifica sorgente]

di Daniele Segre

Non mi ricordo cosa stavo facendo in quel momento e neanche dov'ero, probabilmente a casa, a Torino; presi il telefono che squillava ed ascoltai con stupore quello che la voce di Morando Morandini mi stava proponendo: diventare, con lui e Antonio Costa, uno dei tre direttori di Bellaria Film Festival. In quell'attimo sono ritornato con la mente al mio primo ed esaltante incontro con "Anteprima per il Cinema Indipendente" di Bellaria nel 1984: avevo vinto con Vite di Ballatoio; con me a Bellaria c'era mia figlia Marcella, due anni, sua madre Isabella, e c'erano pure mio fratello e mia madre che erano venuti in Italia a trovarmi da Hadera in Israele dove vivevano. La proposta di Morando mi emozionò e mi preoccupò, soprattutto per il fatto che non sapevo cosa potesse voler dire fare il direttore di un festival di cinema; mi confortò il fatto di non essere da solo e per di più di essere stato chiamato in scena dal padre fondatore del festival. Sono stati per me tre anni intensi e appassionanti. Nel ripercorrerli mi accompagna ora il ricordo delle persone care che ci hanno lasciato: Alberto Farassino e Laura Morandini. Quest'anno accendiamo la nostra terza candelina per una creatura che in realtà di anni ne festeggia ventidue; creatura davvero curiosa ed interessante, che è riuscita, in questi tre anni della nostra gestione, a sviluppare e rinnovare la propria identità distinguendosi, tra l'altro, a livello nazionale per un impegno rivolto in modo particolare al settore della Formazione Professionale e al "Cinema Utile". Queste sezioni integrano un Festival già ricco, che si muove da sempre a esplorare i territori del nuovo e che presenta anche in questi ultimi anni - grazie al diverso approccio dei tre direttori: un critico, un docente universitario e studioso di cinema, un regista - momenti importanti del cinema di ieri, gli sguardi di critici, di teorici, di autori di rilievo internazionale, la scoperta di punti di vista giovani, di nuove tendenze, di nuove visioni del mondo. Grazie alla preziosa ed indispensabile collaborazione del settore montaggio della Scuola Nazionale di Cinema, Centro Sperimentale per la Cinematografia, BellariaFilmFestival in questi tre anni ha inoltre potuto realizzare una vera e propria esperienza formativa con il coinvolgimento di studenti delle Università di Bologna, Pisa, Venezia - IAUV, Torino e Napoli per la realizzazione del "Videomagazine" quotidiano: quattro numeri per quattro giorni del Festival. Da quest'anno agli studenti delle università partecipanti all'esperienza del "Videomagazine" saranno riconosciuti crediti formativi quale espressione delle convenzioni firmate dai corsi di laurea in discipline dello spettacolo di questi atenei con il Comune di Bellaria Igea Marina. Un'esperienza interessante per gli studenti, ma anche per il Festival che in questi tre anni ha cercato, nei limiti del possibile, di lavorare per creare le potenziali condizioni per un reale radicamento sul territorio del Festival attraverso, anche, la prospettiva di attività permanenti quale la formazione professionale nel settore video digitale. Sono grato all'Amministrazione Comunale di Bellaria lgea Marina per l'occasione importante e molto stimolante che ha offerto alla Direzione del Festival di poter verificare le condizioni di fattibilità di un progetto che è certo e giustamente molto ambizioso, e che ha bisogno del sostegno concreto di tutte le forze politiche, economiche e istituzionali presenti nel territorio: comunali, provinciali e regionali. Il mio intervento, a nome della Direzione del Festival, nel Consiglio Comunale di Bellaria lgea Marina del 29 gennaio 2003 ha raccolto un significativo risultato (particolarmente segnalato dagli organi di stampa locali), cioè quello di unire le forze politiche nella loro quasi totalità per sostenere gli obbiettivi di un progetto culturale e di formazione professionale che oltre tutto può essere in grado di rappresentare un'offerta interessante e innovativa per lo stesso territorio. Grazie al radicamento dell'esperienza si potrebbe far diventare infatti il BellariaFilmFestival un'originale occasione, non sostitutiva di esperienze scolastiche ma stimolante punto d'incontro di realtà formative e non solo. Questo attraverso l'ideazione e la realizzazione di nuovi progetti, di esperienze come la Scuola Nazionale di Cinema, dei gruppi di lavoro degli atenei italiani, e di tutte quelle situazioni di cinema indi pendente presenti sul territorio italiano ed europeo. Ora c'è bisogno che il sostegno ideale di tutte le forze politiche presenti sul territorio si possa trasformare in azioni concrete e concertate dal Comune di Bellaria Igea Marina con la Provincia e la Regione Emilia Romagna per sostenere e sviluppare con convinzione un progetto non solo culturalmente e socialmente importante ma anche strategico per la ridefinizione delle priorità per uno sviluppo economico del territorio che non sia limitato alle risorse della stagione turistica. La luce delle tre candeline scintilla, sono disposte come giocatori di pallone: una fa lo stopper, una il mediano, e l'altra il centravanti. È un bel viaggio, speriamo che duri.

Concorso Anteprima[modifica | modifica sorgente]

Concorso 150 secondi a tema fisso: paura[modifica | modifica sorgente]

La giuria, composta da Nils Hartmann, Carlo Lucarelli, Antonio e Marco Manetti, tra i circa 50 lavori inviati, ha selezionato questi 18 video:

  • Al cinema di Edo Tagliavini
  • Blackout di Francesco Di Giorgio e Andrea Sanguigni
  • 150" di paura di Simona Meriggi
  • Centoventimetri di Giuseppe Gigliorosso
  • Esterno notte di Martina Lazzerini e Ilenia Pistolesi
  • Evasioni di Andrea Sanguigni e Francesco Di Giorgio
  • Già detta di Jacopo Zanon
  • Giacomo di Giulia Oriani
  • In. Te. di Marco Carlucci
  • Paura d'amare di Alessio Della Valle
  • Il pollo di Andrea Rovetta
  • Prematuro di Nicolò Andenna
  • Rear fear di Paolo Ceredi
  • Senza titolo di Fiatlvx
  • Il telefono di Alessandro Consoli
  • Toc toc di Luigi Fattore e Armando Festa
  • Trailer "Last blood" di Guglielmo Favilla e Alessandro Izzo
  • Ultimatum di Nello Calabrò

Premio Casa Rossa[modifica | modifica sorgente]

Media Totale Calderale Canova Fittante Fornara Lastrucci Nepoti Paternò Pezzotta Porro Preziosi
Al primo soffio di vento 3.56 32 5 4 2 4 4 3 1 4 5
Amorfù 1.71 12 1 2 1 3 2 1 2
Ballo a tre passi 3 30 3 3 4 4 3 3 4 2 2 2
Il dono 3.75 30 4 4 5 5 4 3 2 3
Il miracolo 2.7 27 2 3 4 3 2 2 2 2 3 4
Pater familias 3.33 30 3 3 5 4 3 5 2 3 2
Il ritorno di Cagliostro 3.6 36 2 5 2 5 4 4 5 3 3 3
Segreti di stato 2.3 23 3 3 3 3 2 3 1 1 2 2

Festa di compleanno: L'invenzione di Morel di Emidio Greco[modifica | modifica sorgente]

L'invenzione di Morel di Emidio Greco

Emidio Greco[modifica | modifica sorgente]

Emidio Greco nasce il 20 ottobre 1938 a Leporano (Taranto). Compie gli studi a Torino dove la famiglia si trasferisce nel 1952. Da ragazzo si interessa di teatro e pensa più alla regia teatrale che a quella cinematografica. Cambia idea e si converte definitivamente al cinema dopo aver ascoltato (intorno ai 18-19 anni) alcune conferenze di Mario Gromo, critico cinematografico de La Stampa. Si diploma in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma alla fine di giugno 1966 con un saggio d'esame di 27 minuti: Uno, due e tre. Al Centro Sperimentale insegna regia dal novembre 1968, prima in sostituzione di Nanni Loy e in seguito per incarico ricevuto. Ancora allievo del Centro Sperimentale nell'aprile maggio del'66, gira per la RAI, per la rubrica Cordialmente, il suo primo servizio, un "pezzo" sui costumi da bagno. Lavora per la RAI fino al 1984 con un'interruzione di quattro anni, 1970-74, impiegati per riuscire a realizzare il film di debutto, L'invenzione di Morel. È autore di numerosi programmi culturali, documentari e inchieste per la televisione, come: Da una guerra all'altra (1967 /77): sei ore sui rapporti tra economia e politica tra le due guerre; Madame Bovary sono io: una biografia di Flaubert (1977); Niente da vedere, niente da nascondere: documentario sull'artista e amico fraterno Alighiero Boetti; L'Italia del boom: programma in tre ore che vince il premio Saint Vincent per la migliore inchiesta televisiva (1979). Nel 1979-80 è ideatore e curatore di Uomini e idee del '900: una serie culturale di 14 puntate, di una delle quali, Nel labirinto di Borges, è anche regista. Debutta nel lungometraggio a soggetto nel 1974 con L'invenzione di More/, dal romanzo di Adolfo Bioy Casares. Il film partecipa al Festival di Cannes nella "Quinzaine des realisateurs" e a numerosi altri festival. Per due anni (1975-76) viene proiettato quotidianamente in 9 musei d'arte moderna tra i più importanti d'Europa nell'ambito della mostra "Le macchine celibi". Il secondo film è Ehrengard (1982), dal romanzo omonimo di Karen Blixen, presentato alla Mostra di Venezia '82. L'anno successivo ottiene il premio Cinema e Società per il miglior film tratto da opera lettera ria. Non viene distribuito perché la Gaumont Italia che l'aveva acquistato fallisce. In seguito avrà una distribuzione indipendente del tutto marginale. Terzo lungometraggio è Un caso d'incosdenza, soggetto originale dell'autore. Presentato a Venezia nel 1984, nella sezione Film per la tv, riceve ottime critiche e viene richiesto in distribuzione da diverse società, ma la RAI rifiuta di darlo in distribuzione e lo manda in onda a metà luglio in seconda serata. Solo qualche anno dopo la Mikado riuscirà ad averlo nel proprio listino. Realizza due programmi culturali per la televisione della Svizzera italiana: Vivere un'altra vita (1988), una riflessione sulla "crisi delle convenzioni cinematografiche", e Contrabbando d'idee (1989), sul "cinema di metafora". Del 1991 è Una storia semplice, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Il film viene presentato in concorso alla Mostra di Venezia e riceve il Leone d'Oro per l'interpretazione di Gianmaria Volonté. Proiettato in diversi festival ottiene premi e riconoscimenti tra cui: Grolla d'Oro per l'interpretazione a Gianmaria Volonté, Ennio Fantastichini, Ricky Tognazzi, Massimo Dapporto e Massimo Ghini; Nastro d'argento per la sceneggiatura; Globo d'Oro per la sceneggiatura e la musica; primo premio Antigone d'oro al Festival di Montpellier (1992). Nel 1998 gira Milonga, uscito nel '99, distribuito dalla Medusa. Presentato in diversi festival, ha avuto il "Globo d'oro" per l'interpretazione di Giancarlo Giannini. Nel 2001-2002 realizza Il Consiglio d'Egitto. In concorso al festival di Montreal. il film viene proiettato in diversi altri festival nazionali e internazionali. "Globo d'oro" della Presidenza al film; "Globo d'oro" per la musica; menzione speciale del "Globo d'oro" a Silvio Orlando; "Nastro d'argento" per la scenografia; "Capitello d'oro" (miglior film) al "Sannio film festival".

L'invenzione di Morel[modifica | modifica sorgente]

di Francesco Savio

Il Parastato italiano scopre il decadentismo. Il fatto è tanto lieto e clamoroso che, potendone io dar conto per il primo, m'affretto ad avvalermi di questo privilegio. Dall'ltalnoleggio è uscito stavolta un film esangue e neoplatonico, tutto giocato sul piacere intellettuale, sul gusto insulare e raro della circolarità delle immagini. Il cinema è una sola immensa bobina che, montata ad anello e proiettata sempiternamente, ripete all'infinito se medesima. Un po' alla volta, ecco, l'anima infusa in quelle immagini surretizie comincia a fuggirne, a morire, mentre l'assurda giostra dei fantasmi continua a proiettarsi, oramai sterile, su uno spazio (...) dal tempo ma intatto ed intangibile. Per rompere l'incantesimo, il protagonista dell'Invenzione di Morel ( opera prima del regista Emidio Greco, dall'omonimo romanzo di Bioy Casares insigne sodale di Borges) manda in frantumi il complicato meccanismo che, ad insaputa degl'interessati, ha fissato memorizzato per sempre, nel lontano 1929, la vacanza di gruppo di amici, convenuti nell'isola di Morel per tracorrervi una settimana d'ozio e di svago. Sull'isola Morel ha edificato una villa-museo, dove l'arte e il razionalismo si disputano le ceneri di un gusto, già co dificato da Mallet-Stevens. E' un ambiente gelido che fa pensare al Mabuse di Lang e all'Argent di L'Herbier: marmi verdi e seggioline funzionali, grandi lampadari saturnini ed ampie superfici convesse in vetrocemento - levigato e sinistro reperto di un'epoca viziosa, presaga e insieme ignara della crisi che sta per annientarla. Nei sotterranei della costruzione c'è, appunto, il macchinario di Morel: grazie al quale, e secondo le maree, i fantasmi dei giovani gaudenti, dissipati e fitzgeraldiani, rinnovano in perpetuo gli atti le parole i comportamenti di quella settimana (allo spirar della quale, gl'involontari protagonisti dell'esperimento erano tornati in patria per morirvi, svuotati e disseccati dal perfido congegno che aveva catturato il simulacro delle loro sembianze). Adesso - 1974 - un naufrago, forse un perseguitato politico, approda casualmente all'isola. Vaga per gli ambulacri della villa, si familiarizza a grado a grado con quegli strani dandies che lo guardano senza vederlo, scopre infine il segreto di Morel: Morel che, per amore di Faustine, sognò un giorno di vincere il Tempo consegnandosi ad esso con lei. Anche il naufrago s'infatua di Faustine; ma Faustine, ma gli amici di Morel non hanno anima, "vivono" fuori della storia e della consapevolezza di sé: bisogna dunque distruggerne il seme perverso, esorcizzare i lemuri, metter fine a uno spettacolo illusivo per tornare ad esprimere, col cinema, lo spettacolo illusivo per tornare ad esprimere, col cinema, lo spettacolo in quanto verità. Addio alle voci dei cantanti "crooner" diffuse dai vecchi grammofoni, addio alle danze intorno la piscina sotto la luce dorata dell'obliquo crepuscolo o la tepida pioggia autunnale, addio alle cene in vestito da sera, alla blanda lettura delle riviste, addio alle passeggiate nel vento, a picco sul mare venato di rèfole. Greco resuscita ed evoca i suoi magici Finzi-Contini con un sentimento d'ambigua ripulsa, d'ambigua tenerezza. Quel '29 non era poi tanto male, anzi era dannatamente affascinante, tra la fredda geometria delle sue architetture e il morbido tepore dei suoi figurini di moda, quei gilé, quelle gonne, quei foulards. Quell'essere "belli e dannati", ma in abito da tennis: come silhouettes in controluce. Attente panoramiche, fondues, perfino dissolvenze incrociate: la compagine linguistica è antiquata, si tratta invece di una scelta rigorosa. Certo !.:'invenzione di Morel non sarebbe pensabile senza il Resnais di Marienbad. Ciò che infatti è più commovente, in questo film-oggetto, è l'assoluta mancanza di commozione (e peccato che Giulio Brogi - il naufrago - ceda qua e là alle lusinghe del naturalismo). Dalle inquadrature si sprigiona un acre sentore di celluloide, anche le scenografie hanno l'impropria eloquenza del cinema muto, quando si parlava - o si sparlava - di "materiale plastico". Duri, esatti nei loro contorni, i soprammobili gli arredi i paralumi corroborano il teorema di Bioy Casares con opaca e inflessibile iattanza. Nella loro scontrosa concretezza gli spessori, autentici e "riprodotti", non sono poi tanto diversi gli uni dagli altri. Per cui la dimensione immaginaria prevarica quella reale, ad onta della resistenza che, alla prima, oppongono le cose. Sulle quali la polvere degli anni depone un velo tenue, che subito svanisce a contatto con gl'inganni del verosimile: agli ectoplasmi non bisognano piumini. In un debutto così patinato e ambizioso non si vorrebbero, né smagliature, né scadimenti. Ottimo quand'è ripreso a distanza, il gruppo degli amici di Morel non ci guadagna ad essere visto da vicino. Piccole incertezze, marginali goffaggini bastano a far precipitare dal loro astratto e peculiare basamento queste statue pigramente immortali. Come appunto in Marienbad, non esistono qui generici e comparse, ma alte presenze oniriche, emblemi di un tempo perduto, ritrovato, perduto. A suo agio con le nature morte, Greco non lo è altrettanto con gli intepreti, specie quelli di contorno. Del resto l'imbarazzo è, a ben guardare, una delle componenti dello snobismo. Non si dà vero snobismo senza le remore, le ritrosie, le insofferenze della timidezza. A meno che, questo dell'incerto dominio sugli attori, sia lo scotto pagato dal regista a una naturale acerbità. Come una tunica grave e leggera, dai preordinati panneggi, il film riveste d'una forma composta e distesa (si veda per esempio il bell'inizio, con l'a solo del naufrago) lo specioso pretesto narrativo offerto dal racconto avveneristico dello scrittore argentino. Si può non restare coinvolti dal risultato un po' algido. Ma il termometro delle emozioni estetiche ha a vedere con la scelta Fahrenheit?[1]

L'invenzione di Morel[modifica | modifica sorgente]

di Mino Argentieri[2]

Un uomo che ha un conto aperto con le autorità del suo paese è in fuga e a bordo di una barca sbattuta dalle onde attracca in un'isola deserta. [sic] su scogliere e costoni: davanti gli si para un edificio a prima vista indefinibile, a metà tra un grande albergo abbandonato e un laboratorio. Incuriosito, lo esplora e scorgendovi tracce di una dimora che fu ospita le e adesso è coperta di polvere, torna all'aria aperta a cercare radici di cui cibarsi e protezione al riparo di madre natura. Quando meno se lo aspetta, le sue orecchie sono sfiorate da un motivo musicale, un ballabile, proveniente dal luogo da cui si era allontanato. E gli capita anche di distinguere, a distanza, alcune coppie che danzano allacciate. è una allucinazione provocata dalla stanchezza e dal deperimento delle energie fisiche? O le apparizioni non sono che esseri in carne e ossa abbigliati secondo la moda della fine degli anni venti e chissà come sperdute in una landa tutta sterpi e rocce? Novello Robinson, il rifugiato cerca di saperne di più e avvicinatosi alla comitiva ne ritaglia una componente, la fredda e stilizzata Faustine, dalla cui venustà è preso. Inutili saranno i suoi tentativi di approccio: la donna, passeggi da sola, si accompagni al petulante corteggiatore Morel o a qualcuno della congrega, si comporta come se dinanzi ai suoi occhi non fosse comparsa un'altra persona. È un mistero, e per decifrarlo non varrà neppure mescolarsi a questi convi tati che non hanno alcuna percezione all'infuori della loro cerchia. L'arcano, tuttavia, sarà violato dall'anfitrione del gruppo, il professor Morel, uno scienziato che parteggia per le teorie malthusiane e spiega ai suoi amici di qual incantesimo si tratta: è che Faustine, e la corte riunita, con la specie umana non hanno nulla più da spartire. Morel li aveva convocati in questo posto inaccessibile per sottoporli alla fase superiore di un esperimento. Grazie ad alcuni prodigiosi macchinari essi sono stati fotografati e fissati in un archivio mnemonico che li riproietta all'infinito tridimensionalmente. Faustine e i suoi compagni sono immagini del passato che invece di rianimarsi su una parete bianca tornano prowisoriamente nella vita. Morel, però. registrandoli li ha scissi dai propri trascorsi e dal proprio futuro e li ha costretti entro uno spazio e un tempo circoscritti. Ognuno rivive le parole dette, i sentimenti, le azioni compiute nella settimana in cui Morel li ha fermati per sempre. Gli ospiti di Morel hanno guadagnato l'immortalità, ma scontato la condanna a ripetersi, non diversamente da un disco che riprenda a suonare la stessa musica dopo aver esaurito le due facciate. E c'è di più. La chiarificazione di Morel, che lacera l'enigma, essa medesima è parte di una catena di eventi incisi e anche il palazzo popolato da Fausti ne e dagli altri della congrega mondana è un prodotto dei macchinari di Morel. Pazzamente innamorato di Faustine e, nel suo invaghimento, non meno infelice del professor Morel, il nostro Robinson è tentato di cambiar condizione e si avvede che l'accesso all'eternità abbrevia il tragitto verso la decomposizione fisiologica e la morte. Ormai non v'è scampo. Questa, in breve, la trama di L'invenzione di Morel, il romanzo di Adolfo Bioy Casares, lo scrittore argentino, da cui l'esordiente Emidio Greco ha estratto l'omonimo film che ha rappresentato l'italia in una delle molte sezioni in cui si suddivide il festival di Cannes. Il libro di Casares, giunto da noi con l'autorevole avvallo di Jorge Luis Borges, è di quei testi che sembrano allettanti ai fini di una eventuale versione cinematografica, ma pongono problemi. Il primo ostacolo che presenta è costituito da un racconto soggettivo, brulicante di incubi e di monologhi interiori, la cui suggestione viene dalla circostanza che s'insinuano nella mente del protagonista più che avere una plastica corposità. Viceversa, il linguaggio cinematografico, ancora sottomesso a una ricezione di tipo naturalistico, conferisce uno spessore all'immateriale e drammatizza in una forma plateale le ombre, i fantasmi, le ansie, le tribolazioni, i dilemmi, le paure della coscienza. Se a questa barriera generalmente invalicata si aggiunge che, per necessità spettacolari, il cinema traduce la soggettività in oggettività, il tranello di un descrittivismo che banalizza e impoverisce le vibrazioni della pagina scritta è difficilmente evitabile. Il pericolo che la sintassi della suspense abbia una tronfia, esteriore e risonante rivalsa deriva da un procedimento di trasformazione che non avviene senza colpo ferire. Premessi questi trabocchetti, c'è da constatare che Emidio Greco si è ingegnato con lode a travasare in un film una pièce letteraria fra le più ardue in quanto vi si svolge una immaginazione ragionata, il cui senso si offre a molteplici interpretazioni. Contrariamente a chi contesta che il libro di Casares e il film di Greco non abbiano altro valore ravvisabile se non nel governo di una pura fantasticheria, e siano perciò alieni da alcun intendimento metaforico, noi siamo propensi a leggervi una meditazione a doppio fondo. Accantonando, insieme con Casares e con Greco, il particolare che Morel è un seguace di Malthus e delle sue tesi, due elementi si impongono. L'invenzione del professore è la metafora di una civiltà che, in virtù della cinematografia, della fotografia, della Tv e dell'elettronica memorizza milioni di testimonianze da trasmettere ai posteri. Perché fermarsi a imprigionare le immagini in rettangoli di carta o in pizze di pellicola o in nastri magnetici, quando basterebbe evolvere lo stesso processo di riproduzione per ottenere tangibili prove di quel che andrà ad accrescere il bagaglio dell'esperienza consumata? Ma Casares e Greco non sollevano soltanto una ipotesi futuribile e sono risucchiati in una speculazione parafilosofica che involge l'anelito a vincere la finitezza umana. E' una illusione, ci ammonisce la favola, poiché il miracolo tecnologico di Morel assicura il viatico alla perpetua sopravvivenza, ma previa la reiterazione degli istanti e dei momenti captati dai registratori. E non differentemente che nelle credenze di taluni popoli primitivi, l'archiviazione visuale di Morel corrisponde all'orrore sentito per la macchina fotografica cui si addebita di spogliare i suoi soggetti dell'anima mentre li avvia a morire. Non c'è sviluppo nella riproducibilità dei progetti di Morel e, a essere annullati, sono l'ieri e il domani: sussiste soltanto il presente, sospeso in un limbo, con speranze, aspirazioni, gioie, attimi di felicità immobilizzati. A voler forzare il significato del film si potrebbero intravedere anche allusioni a una società fatua che si morde la coda nella sua indifferenza ed estraneità ai travagli del mondo; ma a noi pare che più congrua sia una lettura che non si allontani troppo dalle leve afferrabili. Dare una realtà permanente alla fantasia sentimentale è il rovello di Casares e di Greco, che approda a una rotatoria, tremenda per coloro che assistono alla ronde ma non sgradita ai protagonisti. Film che sarebbe un errore prospettico omologare ai tradizionali filoni della fantascienza, L'invenzione di Morel è un prodotto insolito nel panorama del cinema italiano. Accurato nella messa in scena, nella scelta dei costumi e degli ambienti, che evocano uno scorcio del decennio ruggente in procinto di estinguersi, patisce di difetti non attribuibili alla regia ma all'obiettiva difficoltà di trasferire sullo schermo una materia che ha molto da perdere nell'assumere contorni provvisti di una propria concretezza. Gli dona la presenza quasi silente di Anna Karina, una Faustine incantevole che conquista con ogni suo sguardo e con la sua fotogenia; ma non giovano alla pienezza del risultato complessivo gli altri attori, scarsamente plausibili a causa dell'aria filodrammatica di cui non riescono a sgravarsi. Né Giulio Brogi, costretto a esprimere il suo turbamento arrancando sui sentieri impervi e correndo in salita e in discesa, tiene testa alla sua partner nel raffronto.

L'ultima macchina. Note sull' Invenzione di Morel[modifica | modifica sorgente]

di Jean Clair

Se qualcuno abbraccia appassionatamente il suo doppio attraverso il vetro, questo si anima in un punto e diviene sesso, e l'essere e /'immagine si amano attraverso la parete. (Jarry, Les jours et les nuits.)

L'uomo e il coito non sopportano intensità troppo lunghe. (Casares, L'invenzione di Morel)

Si dice che ancora oggi, nella regione delle Hurdes, in Spagna, gli abitanti rifiutano di lasciarsi fotografare, perché temono di perdere nella fotografia una parte dell'anima. Questa superstizione farà sorridere l'uomo colto. Tuttavia, non è lo stesso riflesso oscuro che continua ad agire in noi quando, a guardare la fotografia di persone care -anche se, e soprattutto se sono vive -proviamo la stretta furtiva della morte e come una specie di apprensione per la loro scomparsa? La registrazione dei tratti di una persona conterrebbe più di questo presagio o di questo presenti-mento: sarebbe quasi un prelievo nella vita di ciò che già appartiene alla morte, oppure la rivelazione, nel senso chimico del termine, di tutto ciò che, dall'eternità, sembra averle appartenuto. E, inoltre, nasconderebbe un potere capace di rivoltarsi contro i viventi di cui riproduce l'aspetto. «La paura di farsi ritrarre o fotografare, scrive Otto Rank nel suo saggio Don Giovanni e il suo doppio, è, secondo Frazer, diffusa in tutto il mondo. La si ritrova fra gli Eschimesi, come fra gli Indiani d'America, fra i popoli dell'Africa Centrale, in Asia, nelle Indie Orientali e in Europa. Giacché, per loro, l'anima dell'uomo è rappresentata dalla sua immagine, temono che il possessore estraneo di questa immagine possa operare su di essa malefici anche mortali»

E così si potrebbe vedere nella fotografia una versione modernizzata, adattata ad un ambiente tecnologico d vecchio mito di Dracula. Senza che lo sospettino coloro di cui essa è destinata a soddisfare il narcisismo, la fotografia si nutrirebbe in segreto della loro sostanza. La presa di visione sarebbe una presa di vita, e noi saremmo tutti, a nostra insaputa, in «deficit» di anima in ragione diretta delle rappresentazioni che ci circondano. Perché, con il continuo progresso tecnico, si può supporre che questo trasferimento della sostanza vitale dall'uomo alla macchina che la registra si farà sempre più imperioso. Se, a quanto sembra - a quanto sembra, perché si è poi tanto sicuri? - la fotografia non ha mai fatto vittime, il cinematografo, tecnica più evoluta, ha già avuto le sue martiri. Per antifrasi, come per esorcizzare la minaccia che pesa su di loro e per lo stesso capovolgimento di senso che fa chiamare Frankenstein non lo scienziato ma la sua creatura, le si è chiamate «Vamp». Donne fatali? No, al contrario, donne che non cessano di essere date in pasto al cinema-Nosferatu. Di tutte queste vittime, la più esemplare resta Marilyn, che si suiciderà per non essere capace di sostenere più a lungo la frattura fra quello che restava il suo proprio corpo e quello che, ogni giorno di più, diventava proiezione su uno schermo, polverizzazione effimera e continuamente ripetuta di un po' di bromuro attraverso un fascio luminoso. Come non vedere, in compenso, che La macchina filmica non cesserà di incarnare il suo mito, immaginando, con sempre maggior convinzione, da Metropolis fino a Westworld, dei meccanismi capaci di sostituirsi alla vita di cui si nutrono? Facciamo un'ipotesi: dai primi dagherrotipi e dalle prime registrazioni di Edison fino agli attuali ologrammi, La riproduzione dei fenomeni che caratterizzano La vita si è così affinata che si può chiedersi se non arriverà il momento in cui la macchina registratrice sarà divenuta così fedele a ciò che proietta che finirà per sostituirsi completamente all' oggetto riprodotto, distruggendolo. È questa l'ipotesi che prospetta Adolfo Bioy-Casares nella sua Invenzione di Morel .Si potrà dire anche che, in questo modo, Bioy-Casares non fa che riprendere, aiutato ormai da tutti gli apparecchi della tecnologia contemporanea, uno dei miti che hanno costantemente visitato il pensiero greco dalle sue origini: Achille, sognando Patroclo ucciso in battaglia, grida «O Dei, allora resta realmente agli Inferi una Psiche e un'ombra dell'uomo» (Odissea, libro XI, v. 22). Così, dopo la morte, la psiche, l'anima, che è identica allo spirito, diventa eidolon, un'immagine, un sogno; così Omero attribuiva all'uomo un'esistenza doppia: da una parte nella sua apparizione percettibile, dall'altra nella sua immagine invisibile, che si manifesta soltanto dopo la morte. Questo destino è quello degli invitati di Morel, e quello che conoscerà il naufrago dell'isola ...

Ma evocare uno dei miti su cui si fonda il pensiero greco è evocare anche il mito che sta alla base del pensiero occidentale dalle sue origini. La macchina di Morel, in effetti, non è forse la realizzazione ultima di una techné ossessionata da sempre dall'idea della ri-presentarzione, che permetta rendendosi padrona della natura secondo il progetto voluto dal logos occidentale, di capitalizzare il tempo? Perché, ecco questa macchina, capace di registrare le apparenze degli esseri e delle cose e di riprodurli nei minimi particolari ed eternamente, questo strano meccanismo capace di investire sul tempo, con un investimento che costituirebbe insieme la sua riserva e la sua spesa anticipata. Ricordiamo l'abitazione principale di Morel sulla sua isola: egli la chiama il suo «Museo»: «La parola museo, egli dice, è una sopravvivenza del tempo in cui lavoravo ai progetti della mia invenzione, senza saperne lo scopo. Allora pensavo di erigere dei grandi album o «musei», familiari e pubblici, delle mie immagini»3 • Ma, che cos'è questo museo se non è rispetto al capitale umano - gli invitati di Morel - ciò che la banca è rispetto al capitale moneta? È il sistema che fa costantemente degli anticipi su ciò che gli è stato depositato - i diversi momenti della settimana vissuta sull'isola dagli invitati - , ma confisca per sempre ciò che è stato investito, cioè la vita stessa degli invitati. Macchina registratrice/riproduttrice - molto più che l'ingenua macchina-Moloch immaginata da Lang in Metropolis -, essa è l'immagine perfetta della megamacchina capitalistica. Nella figura del naufrago, approdato all'isola per sfuggire alla giustizia dei suoi contemporanei, e ben presto affascinato dalle rappresentazioni della macchina, ciò che bisogna vedere è allora la figura del proletario, così come nel suo desiderio ben presto irreprimibile di unirsi alle scene che si svolgono sotto i suoi occhi, che lo spinge a sottomettersi, a prezzo della vita, alla registrazione, bisogna vedere la situazione isterica dell'operaio accoppiato alla sua macchina, secondo un meccanismo in cui Faustina rappresenterebbe perfettamente l'immagine della prostituzione anonima del capitale, questa figura particolare del godimento continuamente differito che il capitale offre, sotto forma di ciò che non sarà mai altro che un eterno coitus reservatus. Solitario, affammato, che cosa può fare il naufrago se non lasciarsi morire ancora più solo, rifiutando le rappresentazioni della macchina, oppure morire con esse, dentro di esse e a causa loro? A questo proposito dice Lyotard: «Ma voi mi direte: era o così o la morte. Ma è sempre o così o la morte, è questa la legge dell'economia "libidinale", no, non la legge: è la definizione provvisoria, molto provvisoria, in forma di grido, delle intensità del desiderio; questo o morire, che vuol dire: questo e morire per questo; sempre la morte in questo, come la sua scorza interna, la sua sottile pelle di nocciola; non ancora come il suo prezzo; al contrario, come ciò che lo rende non pagabile. E voi credete forse che sia un'alternativa, questo o morire?! E che se si fa questo, se si diventa schiavi della propria macchina, macchina della macchina, fottitore fottuto, otto ore al giorno, dodici ore un secolo fa, è perchè vi si è costretti, perché si tiene alla vita? La morte non è un'alternativa a questo, ne è una parte, essa attesta che c'è in questo un godimento...» Ebbene, in modo iperbolico, l'eroe di Casares illustra un destino simile: «la bellezza di Faustina (intendiamo: la bellezza del corpo del capitale, come la presenta la macchina nelle sue ri-presentazioni) merita queste follie, questi omaggi, questi crimini (...). Mi si apre una via: vivere, essere il più felice dei mortali (...). Il vero vantaggio della mia soluzione è che essa fa della morte la condizione necessaria e la garanzia della contemplazione eterna di Faustina.(...) E così mi salvo da un interminabile morte senza Faustina». E allora si inserirà a sua volta sulla macchina e, così facendo, comincerà la sua decomposizione fisica: i capelli, la vista, il tatto... , secondo lo stesso processo di desensibilizzazione isterica delle parti del corpo che caratterizza il proletario inchiodato al suo strumento di lavoro. E questo per poter godere, nell'esaurimento masochistico, nella perdita totale della sua identità e nella rovina del suo per poter godere anche lui, come Faustina, come il corpo astratto del capitale, e godere di questo corpo, godere di Faustina, e del ritorno della settimana eterna: «godimento della ripetizione di ciò che è uguale, lo stesso gesto, lo stesso andare e venne, mai subite le stesse parti del corpo utilizzate, usate ... » secondo quello stesso effetto della follia isterica delle condizioni del lavoro capitalistico che i sociologi chiamano «parcellari», senza vedere ciò che le particelle, in quanto particelle, possono portare di intensità libidinale. A questo fanno eco le ultime righe del giornale del naufrago: «A colui che, basandosi su questo rapporto, inventerà una macchina capace di rimettere insieme le presenze disgregate, io rivolgerò una preghiera: che cerchi Faustina e me, che mi faccia entrare nel cielo della coscienza di Faustina ... ». Ma che cosa sarebbe allora quest'altra macchina, questa antimacchina capitalistica, capace di de-parcellizzare, di de-isterizzare, di riunire finalmente i corpi per sempre separati degli amanti? Perché, mi si intenda bene: per capitalismo, non si intende qui soltanto il sistema economico che infierisce da noi, ma, in modo molto più globale, qualsiasi sistema che guardi meno al prodotto che alla produzione e, più esattamente, qualsiasi sistema per cui il prodotto non sia mai altro che il mezzo di produzione; cioè tanto e allo stesso modo il capitalismo stricto sensu quanto il comunismo, quando esso, allontanandosi dal suo oggetto che è la rivoluzione, diventa «pretesto di apparato per capitalizzare il desiderio di rivoluzione». E allora Lenin, quando annuncia che il comunismo è i soviet più l'elettricità, evoca un fantasma poco diverso da quelli del romanzo di Casares e degli altri scrittori di cui discutiamo, lo stesso fantasma evocato da Villiers, per esempio nella sua Eva futura, quando anch'egli, molto chiaramente, dice che il godimento è il commercio con la donna reale più il commercio con la donna elettrica, la riunione del corpo reale di Alicia con il corpo artificiale di Hadaly, e che uno non potrebbe andare senza l'altro, se è questione di godere veramente: allo stesso modo come il soviet, la comunità dei corpi reali, l'universalità degli individui singolari non può andare senza questo agente capace di registrare i corpi tutti insieme, di riprodurli e di proiettarli all'infinito, cioè senza l'elettrificazione del paese... Per cui converrà all'epistemologo futuro di considerare la stretta affinità che nella mitologia contemporanea lega il concorso Lèpine, a cui non hanno cessato di attingere Duchamp, Roussel e alcuni altri fari della nostra modernità, e il concorso Lenin, a cui non hanno cessato di iscriversi i piccoli inventori della Rivoluzione. Come non vedere che il naufrago di Casares tende la mano, al di là dei secoli, all'eroe di Daniel Defoe? Che, nella società capitalistica, è l'ultimo rappresentante di una storia, di cui Robinson Crusoe è stato il primo? Che, nel discorso che definisce l'età industriale, L'invenzione di More[ sembra segnare l'istante di chiusura, come il romanzo di Defoe ne segnava la nascita e che perciò, insieme, essi ne definiscono i due limiti estremi? Ecco Robinson, fuggito dall'Inghilterra dell'inizio del XVIII secolo che si apre alla Rivoluzione Industriale: Adamo della genesi del capitalismo, eroe dell'epopea tecnica, assoggetta la terra, l'acqua, il fuoco, immagazzina, colonizza, estende il suo dominio sugli esseri e sulle cose; e «libera» Venerdì, ponendogli il piede sulla testa quasi prefigurasse quello che saranno le grandi imprese imperialistiche. Al termine della catena, ecco l'eroe di Casares. l'ultimo degli uomini. Il capitalismo ha compiuto la sua impresa: tutto è stato immagazzinato, registrato, capitalizzato, tutto è stato contabilizzato nel grande Museo delle immagini e il tempo stesso, tutto intero, investito, addizionato, sommato, può sboccare soltanto sull'eterna ripetizione di se stesso. Il naufrago non incontrerà alcun Venerdì; incontrerà soltanto le rappresentazioni della macchina; i suoni che sente, i passi che scopre sulla sabbia, le figure che percepisce non hanno alcuna realtà. Ciò che gli viene incontro, dal fondo della solitudine, non è più l'altro, ma saranno sempre le immagini degli altri, i simulacri di una società scomparsa. Come se, al termine del processo capitalizzatore, il valore d'uso si fosse interamente trasformato in valore di scambio, cioè in pura circolazione di energia, in trasporti astratti, in flussi di luce. Perché questi spettri, questi fantasmi di ciò che un tempo erano corpi reali e amanti sono i redditi disincarnati di un capitale trafugato per sempre. E questa trasformazione, dall'uso allo scambio, dal corpo reale al corpo registrato, dalla vita alla morte, come aveva detto Marx, è un inganno: questa scambiabilità generalizzata dei valori ormai astratti delle cose - pur portando le intensità al loro Massimo, in seguito al differimento costante della realizzazione dei desideri quando si parla di realizzare il proprio avere (ed è per questo, a causa di questa passione infinita, che L'invenzione di Morel è uno dei più bei romanzi d'amore folle che si siano mai scritti) - ci priva della loro realtà. Il naufrago non incontrerà mai Faustina. Per quanto si ingegni, come fa, per entrare come personaggio ex machina nella scena già registrata, per quanto cerchi di diventare a sua volta la piccola ruota dentata che venga a ingranarsi su quella già in posizione, non potrà mai «entrare nel cielo della coscienza di Faustina». Moderno lssione, non abbraccerà mai altro che nuvole. Non si fa l'amore con i fantasmi, scriveva già Kafka a Milena. Parliamo di cose più semplici e più serene. Nella sua prefazione al romanzo di Casares, Borges nomina alcune delle sue fonti possibili: Henry James, H.G. Wells (L'isola del Dott. Moreau). Noi citeremo altre filiazioni, insieme più lontane e più segrete, che del resto importa assai poco che Casares abbia conosciuto. Innanzi tutto, il Castello sui Carpazi di Jules Verne: la macchina elettrica costruita da Orfanik per il Barone di Gortz, e destinata a conservare eternamente il suono della voce e i tratti della Stilla, è simile a quella di Morel. Nell'uno come nell'altro caso, la conseguenza della registrazione è la morte della persona registrata. Si ricorderà anche l'Eva futura di Villiers: il corpo di Hadaly, l'androide elettrico, riproduce esattamente quello di Alida Clary, di cui Lord Ewald è innamorato, come Morel lo è di Faustina. Il problema resta quello di dargli un'anima. È anche il problema che ossessiona il naufrago: le immagini prodotte dalla macchina sono la sede, come gli esseri reali, di pensieri e di sensazioni? «L'.ipotesi che le immagini possiedano un'anima sembra esigere, come base, che gli emettitori la perdano quando sono ca prati dagli apparecchi». Anche Edison, per animare il suo robot, deve metterlo in relazione telefonica con la sonnambula Sowana; e questa, in effetti, morirà del suo dono. Quanto alla filosofia dello scienziato, essa è vicina ai pensieri di colui che, approdato alle sponde desolate di un'isola deserta, non può più prestar fede che alle rappresentazioni di una macchina. «Poiché i nostri dei e le nostre speranze, dice Edison, sono ormai soltanto scientifiche, perché non dovrebbero diventarlo anche i nostri amori?». Più curioso è l'accostamento fra Jarry e Roussel. In Les jours et les nuits, si incontra una macchina, analizzata peraltro da Michel Carrouges: l'isola della nereide. IL suo unico abitante è una donna, prigioniera entro un muro di vetro che fa il giro dell'isola. Questa muraglia vetrata ha il potere di creare un doppio sessuale della prigioniera e, «dove il vetro si anima in un punto e diventa sesso, l'essere e l'immagine si amano attraverso la parete». Questo strano potere del muro/specchio è ottenuto «dalla volontà degli dei immortali o dall'abilità di uno scienziato che ha costruito delle macchine simili ai viventi, che si muovono e oscillano alle onde dell'isola... ». Si ritrova qui il tema di Faustina e della registrazione della sua immagine; cosi pure l'idea di una macchina registratrice, voluta da un demiurgo o da uno scienziato, e mossa dall'energia delle maree. Questa tematica insulare è sempre presente sotto una forma o l'altra: che sia il castello quasi inaccessibile sui Carpazi, che sia il recinto protetto da sbarramenti elettrici di Menlo-Park nell'Eva Futura, che sia, come qui, l'isola con il suo muro; perchè si verifichi la capitalizzazione del tempo, è necessario un luogo isolato, sicuro e profondo come la cassaforte di una banca. Anche in Locus Solus si incontra questo «luogo solitario», quest'«insula»; anche qui si tratta di un'isola. Nel fatto che la principale abitante si chiami Faustina, si vedrà, più che una coincidenza, l'indicazione del carattere faustiano di tutte queste imprese. Gli invitati di Martial Canterei, si sa, sono spettatori di fenomeni strani, prodigi inventati dall'ospite; dei quali il senso sarà manifestato soltanto nella seconda parte del libro. Ai loro occhi si presenta una successione di scene e di personaggi, come i pezzi scompagnati di un puzzle di cui è impossibile cogliere l'immagine totale. Poi, progressivamente, tutto si chiarisce: i pezzi combaciano gli uni con gli altri e si scopre, stupefatti, che una logica imperiosa presiedeva a tutta la messa in scena. È lo stesso processo che si incontra nell'Invenzione di Morel: l'invitato involontario di Morel è testimonio di scene di cui non comprende il senso, frammenti di conversazione, briciole di situazioni, disiecta membra di un intreccio di cui egli non arriva a cogliere il filo conduttore. Poi, a poco a poco, la verità si manifesta, i pezzi si riuniscono, gli episodi si ricostituiscono, la cronologia della settimana eterna si riassesta e, di conseguenza, spiega il suo senso. Qui come là le scene sono scene di resurrezione artificiale: grazie al vitalium e alla resurretuna, Canterel ottiene la rianimazione del cranio di Danton: «In seguito a un curioso risveglio della memoria, quest'ultimo riproduceva subito, con rigida esattezza, i minimi movimenti da lui compiuti nei minuti mancanti della sua esistenza; poi, senza riposo, ripeteva indefinitamente la stessa invariabile serie di fatti e di gesti scelti una volta per tutte. E l'illusione della vita era assoluta: mobilità dello sguardo, giuoco continuo dei polmoni, parola, azioni diverse, cammino, nulla vi mancava». Descrizione che si può paragonare al discorso di Morel ai suoi invitati: «Coordinando armoniosamente i dati dei miei apparecchi, mi trovavo in presenza di persone ricostruite, che scomparivano se distaccavo l'apparecchio di proiezione; esse vivevano soltanto nei momenti che passavano mentre si riprendeva la scena e, finiti questi, li ricominciavano da capo, come se si trattasse di un disco o di un film che, arrivato in fondo, riattaccasse dal principio». Allo stesso modo i personaggi resuscitati da Canterel «vivono» soltanto del volere dello scienziato e secondo cicli sempre identici, come quelli della «settimana eterna» di Morel: «Lo si riportava al suo spunto di partenza dopo il compimento del suo ciclo di operazioni, che ricominciava indefinitamente, senza alcuna variante». Più inquietante è il fatto che in questo teatro d'ombre, dei personaggi reali tentano di introdursi e di mescolarsi ai fantasmi: l'eroe di Casares, per introdursi nella scena della settimana eterna, immagina la parte che desidererebbe avere accanto a Faustina; poi la ripete, episodio per episodio, prima di sottoporsi a sua volta alla registrazione della macchina. Allo stesso modo, in Locus Solus, Alban, innamorato pazzo di Ethelfleda, per godere della sua presenza artificiale durante «il breve spettacolo ripetibile offerto alla sua avidità» dalla scienza di Canterel, non esita a fare «lui stesso la sua parte in compagnia di due comparse, una molto vecchia, l'altra adolescente, che sostituiscono Casipagina mir e il groom ... ». Ma osserviamo questo fenomeno: il solo mezzo per l'eroe di Casares di insinuarsi nella registrazione senza disturbarne l'ordine è di giocare sui tempi morti della scena: di introdursi dove non avviene nulla, cioè dove il tempo non passa. I tempi morti: sono la pausa, il negativo del tempo che la macchina non può registrare, sono la «vasca» di comunicazione fra il corpo reale e la sua immagine, e indicano il principio stesso secondo cui la macchina funziona, trasformando gli istanti della vita vissuta in istanti di morte e i tempi morti in frammenti irriducibili di vita. E poi ecco l'ultima abilità della macchina registratrice: non solo essa ha registrato tutti gli oggetti che le sono stati presentati per farli rinascere eternamente secondo gli stessi gesti e le stesse parole, ma, per di più, ha registrato se stessa. Così si chiude il cerchio per cui ogni consumo si trasforma in produzione di energia, così la macchina diventa il perpetuum mobile che girerà per l'eternità. Come se, spinta al limite del suo funzionamento logico, la macchina non potesse che contraddire le leggi stesse che le permettono di funzionare .e come se il demone di Maxwell, come dice Alain Montesse, non cessasse di denunciare il principio di Carnot-Clausius. (Un indizio, nel libro, denota questa «aberrazione» fisica: il calore eccessivo che regna nell'isola e che, suppone il naufrago, è dovuto alla somma della temperatura reale e della temperatura registrata dalla macchina, perchè, dice, la settimana eterna è stata incisa d'estate). Ma alla fine, e alla fine di tutte le fini, che cosa significa tutto ciò se non che la macchina capitalizzante e riproduttrice è la rivincita di Chronos su Mnemosune, è il trionfo del tempo che non invecchia, del tempo immortale e imperituro delle rappresentazioni, del tempo implacabile degli dei freddi, dei demiurgi e degli scienziati, sul tempo umano, sul tempo dolce e vulnerabile della presenza, sul tempo minacciato dal ricordo e dall'amore? Della macchina capitalista, noi siamo così destinati a divenire un giorno i servi celibi. Tutte queste sono fantasie letterarie, diranno gli spiriti positivi. L'immagine che si rivolta contro il suo oggetto è favola, o fantascienza. E tuttavia, chi può saperlo? L'Invenzione di Morel, innegabilmente, prefigura, con singolare chiaroveggenza, l'invenzione assai curiosa dell'olografia, questa strana fotografia di un oggetto impressionato con luce laser che, illuminata dalla stessa luce, permette di vedere l'oggetto in rilievo, producendo un'allucinante sensazione di presenza. Se si distrugge questa fotografia, ogni frammento permette di vedere l'immagine intera, se è illuminato allo stesso modo. Ora, nel 1971, sulla rigorosa rivista Sdences, apparve un articolo di un certo Van Heerden, che stabilisce un parallelo impressionante fra il funzionamento del cervello umano e quello degli ologrammi. Da una parte, dice Van Heerden, la capacità che hanno gli ologrammi di registrare l'informazione e anche il modo in cui l'informazione è memorizzata sono in molti punti paragonabili al processo che si verifica nella memoria umana. Ma, ciò che è anche più sorprendente, l'autore dice di essere stato colpito dalle qualità pavloviane dell'immagine olografica; così, secondo lui, «quando si presenta alla lastra fotografica prima un campanello e un pezzo di carne, poi il campanello soltanto alla diapositiva della lastra esposta, la diapositiva si ricorda del peuo di carne e lo rimette nella scena». Gli uomini, un giorno, scompariranno, ma resteranno le loro immagini demoltiplicate, che si ricorderanno di loro. E piangeranno, senza più sapere perché.

Evento speciale: Giuliano Scabia e la grande avventura del Gorilla Quadrumàno[modifica | modifica sorgente]

Immagini del Gorilla Ouadrumàno di Andrea Landuzzi e Giuliano Scabia

La virtù del gorilla[modifica | modifica sorgente]

di Gianni Celati

[3]In un opuscolo intitolato Visita del Gorilla Quadrumano (teatro di stalla), un gruppo di studenti dell'Università di Bologna, organizzato da Giuliano Scabia, spiega la sua attività cominciata nel mese di maggio sulle montagne del reggiano, in paesi minuscoli come Ramiseto Busana, Ligonchio, Villaminozzo, ecc. «Abbiamo scoperto che da queste parti, fino a una trentina di anni fa, si facevano delle recite, che sono state definite (dai vecchi contadini che ce le hanno raccontate) rime e farse; queste recite si facevano durante il periodo di carnevale nelle stalle, dove i contadini passavano le serate d'inverno. Due fatti, come studenti che si occupano di teatro, ci hanno soprattutto colpiti: il modo in cui, col pretesto del teatro, questi contadini (che per alcuni di noi sono poi i nonni e bisnonni) stavano insieme; e come facevano "cultura" in modo autonomo, coi propri mezzi, anche molto poveri». Il ritrovamento di alcuni testi di teatro di stalla, compiuto dallo studente Remo Melloni, è all'origine dell'attività di questo gruppo: « Fra essi ne abbiamo scelto uno, per rappresentarlo: si chiama Il Gorilla Quadrumano, ovvero "un simmion alto e feroce", che fa tante cose e che è davvero straordinario: a volte è una scimmia, a volte un uomo, a volte è come un mago». In breve è la storia del re del Portogallo che per adornare il suo giardino di tutte le meraviglie manda i servitori Salam e Codghin a cercare il gorilla; poi lo chiude in gabbia e gli insegna a parlare e ragionare come un umano. Ma alla fine si scopre che questo gorilla è il personaggio più umano di tutti, perché punisce i vizi dei cortigiani, agisce, come nelle fiabe, da aiutante magico dell'eroe e fa finire lietamente la commedia. Nei tratti sommari direi che questa vicenda ha grandi analogie con un'altra rievocazione folklorica del mito del bestione, quella del film King Kong. Solo che pare che la civiltà americana non potesse permettersi un patto d'amicizia col bestione, e così il film finisce tragicamente; mentre qui la civiltà contadina concepisce il bestione come mediatore tra il desiderio umano e la necessità di natura, ovvero tra la società e il suo fondo originario. Questo motivo folkloristico, estremamente diffuso, ha tante interpretazioni quante sono le situazioni in cui viene ripreso; e per esempio, a parte Vico, anche Kafka lo rievoca paradossalmente nella storia d'un gorilla educato nella società degli uomini e trasformato in un accademico. Ma l'importanza di questo motivo, e la ragione per cui sto a parlarne, viene dal fatto che sempre quando è rievocato mette in gioco il giudizio della società sul suo passato, sulle possibilità o meno d'un accordo tra la socialità presente del gruppo e le sue radici originarie. E infatti viene rievocato ogni volta che c'è da riproporre il problema della socialità: per esempio da Rousseau, che trasforma il bestione in bambino secondo un processo noto ai mitologi, per cui il posto libero lasciato dall'antico gigante o bestione è occupato dal bambino, metafora moderna d'ogni vitalità creativa. Perché il bestione comporta questo discorso sulla socialità presente, che si può verificare solo attraverso l'identificazione del gruppo nel suo linguaggio originario. Ci si chiede ora che senso abbia riprendere e diffondere questa metafora, che è anche un po' l'emblema di questo teatro riscoperto, e del suo ruolo simbolico all'interno della civiltà contadina. Prima di tutto c'è da dire che la recitazione adottata da questo gruppo di studenti è estremamente semplice; quasi si tratta d'una lettura appena mossa da qualche tic comico inventato per ognuno dei personaggi. In sostanza non è una recitazione teatrale vera e propria, ma come la dimostrazione in piazza delle possibilità d'uso d'uno strumento: lo strumento è un testo elementare come Il Gorilla Quadrumano, e la dimostrazione è che questo strumento lo possono usare tutti, non c'è bisogno d'essere divi delle scene o controdivi dell'avanguardia. Di qui discende il risultato o la prima virtù del Gorilla, e di questo tipo di pratica teatrale: le attese spettacolari sono riportate ad un livello minimo, e perciò del tutto soddisfatte. In altre parole la gente ride, si dimena, commenta di rimando agli attori come fa al ciarlatano sulla pubblica piazza, c'è una specie di decongestione generale, di scioglimento dei reciproci riserbi che sfocia nella festa. Ora la socialità si verifica soprattutto nella festa, e perciò nella comicità: nella festa che segna le alternanze tra lavoro e non lavoro, e prima ancora l'alternanza stagionale e di regime economico, come il carnevale. E' dunque implicito in questo programma teatrale di puntare alla socialità, usando lo spettacolo come pretesto per fare una festa. (...) Gorilla, direi che la sua ipotesi va in questo senso, e non verso la riattivazione di fantasmi popolareschi evocati da vecchi testi del teatro di stalla. Ma poi bisogna distinguere i fantasmi dalle metafore sociali. E quella del gorilla o del bestione mi sembra la metafora più giusta per indicare questo orientamento. Perché qui si cercano i modi elementari della comunicazione in gruppo sociale; e chi lo fa sono degli studenti che sembrano aver capito che queste cose non si imparano nelle aule, macinandosi nella testa le parole dei libri, o in raffinati teatrini di élite, fingendo di andar nei matti. È il senso di questo diverso studio che voglio dire, se studio è ancora la parola giusta. I bestioni di Vico e i bambini di Rousseau parlano una stralingua, una lingua che precederebbe tutte le altre nel senso che sarebbe il fondamento che traspare attraverso tutte le altre. I linguisti dicono che questo è un errore ideologico, e col funzionamento delle lingue vere non centra niente. Ma a parte ciò, non è forse la metafora della comunicazione sociale elementare, la metafora o l'utopia d'una virtù comunicativa che passa attraverso le separazioni di codici dei gruppi? Non per nulla, come dicevo, questo mito salta fuori ogni volta che si rimette in questione il problema della socialità. La scelta del testo del Gorilla non viene per caso. Qui chiaramente il Gorilla è il «villano», chiamato esplicitamente nel testo «l'animal uomo selvatico », che è poi l'uomo selvatico degli antichi carnevali. La sua lingua d'elezione, e la lingua propria di chi ha composto e recitava questa commedia nelle stalle, è la lingua «snaturale» di Ruzante: un modo di parlare che qui resta un po' nei dialoghi di Salam e Codghin, ma che spunta tra le pieghe del testo, attraverso le rime e attraverso un italiano usato come lingua estranea, da parte di chi soffre d'un disadattamento all'italiano. La stralingua dei bestioni come lo «snaturale » di Ruzante non è una lingua in sé, ma il sintomo d'un disadattamento e il sogno d'una comunicazione che riesca ad esprimere i desideri degli uomini anche attraverso questo disadattamento alla lingua. Ed ecco il nodo politico di questa metafora e di questa operazione, per quanto ho imparato io. Se il linguaggio politico è, o dovrebbe essere, il veicolo delle necessità e dei desideri delle varie classi sociali, si fa presto a capire che queste necessità e desideri di solito debbano passare per un gergo standardizzato, attraverso linguaggi che non sono loro propri, come l'italiano burocratico letterario o trattatistico, o come la lingua che questo Gorilla deve imparare quando è messo in gabbia. Ma se necessità e desideri sono il discorso culturale per eccellenza, allora bisogna ammettere che esistano tante varietà regionali del discorso politico, dell'espressione di necessità e desiderio, quanti sono i dialetti, le parlate, i gerghi, le culture e i linguaggi originari delle diverse culture. E facendo la professione di studenti, cos'altro c'è da studiare oggi? I grandi sistemi di pensiero in questo non ci aiutano più. Il disadattamento all'italiano è un disadattamento alla società burocratica, cartacea, verbodelirante dove i medici molieriani sono diventati i guardiani del lager, e i cui figli sono educati fin dalla prima infanzia allo stesso vaneggiamento, che poi diventa simbolo d'uno stato sociale ambitissimo da tutti. Perciò benvenute queste visite del Gorilla che saltando oltre la persuasione verbale, ci danno l'idea che esistano gesti, modi specifici con cui una cultura locale esprime le proprie esigenze, ci riconducono ad altre cose che non sono il discorso generale sul mondo ma fatti invisibili a chi pensa sempre al discorso generale sul mondo: come ci si saluta, si fa ridere, si celebrano le feste, le mosse del consenso e del dissenso, il pudore della parola e la gioia dell'espressione, all'interno dei vari gruppi. Ci riconducono insomma al discorso sulla varietà sterminata dei linguaggi politici, e ancor di più, alle grandi metafore o significati profondi che le culture agitano e attraverso cui esprimono i loro desideri. Questa indicazione, che è la vera virtù del Gorilla, è qualcosa su cui vale la pena di riflettere, tra i tanti vaneggiamenti bislacchi con cui ogni giorno simuliamo la cosiddetta intelligenza.

Carnevale a Bologna[modifica | modifica sorgente]

di Marco Belpoliti

Giuliano Scabia arriva a Bologna per insegnare drammaturgia al Dams nel 1972. Appartiene alta stessa generazione letteraria di Celati e Vassalli, ed è stato loro compagno di strada in quel percorso variegato e ricco di sfumature che va sotto il nome di Gruppo 63. All'inizio degli anni Ses~nta ha debuttato come poeta e autort di teatro. Nel 1965 esce un suo libro di versi, Padrone e servo, che è un po' l'incunabolo del suo lavoro letterario e teatrale (la poesia è essenziale nella costruzione linguistica e nel mondo immaginario di Scabia), mentre nel '64, insieme al compositore Luigi Nono, ha realizzato l'opera La fabbrica illuminata, per voce e nastro magnetico, rappresentata alla Biennale di Venezia nel settembre dello stesso anno. Del 1965 è All'improvviso, testo sperimentale, neo-avanguardista, che viene pubblicato da Einaudi insieme a Zip, grande parabola sulla socieù dei consumi e degli oggetti che Carlo Quartucci, uno dei registi della avanguardia teatrale degli anni Sessanta, ha portato subito in scena. All'improvviso e Zip sono entrambi testi decisamente di ricerca, sia sul piano linguistico che scenico. Rivisitandoli a distanza di un decennio, lo storico del teatro e critico Marco De Marinis definisce lo spazio scenico progettato da Scabia per i due testi uno «spazio o-centrico, a prospettiva multipla, che mira ad annullare ogni rigida divisione tra scena e sala, tra punto da cui guardare e punto in cui essere guardati, cercando di immergere fisicamente lo spettatore nell'azione teatrale». Nel 1967 si tiene a Ivrea un convegno sul «nuovo teatro» italiano a cui Scabia partecipa con un contributo scritto che è la messa a punto del suo percorso di scrittore di teatro. In realtà, parlare di «scrittura teatrale» è molto limitativo poiché, come fa notare Marco De Marinis nel suo studio sul teatro di quel periodo, questo è un momento in cui le pratiche artistiche si confondono e si scambiano tra di loro. (...) Nel 1965 Scabia scrive Scontri Generali lavorando con un gruppo di attori che si è dato il nome di Comunità teatrale dell'Emilia. Romagna; il testo non viene rappresentato per l'opposizione e committente, l'Ater, l'ente teatrale della regione Emiliano-romagnola; l'opera anticipa quei testi che De Marinis definisce, usando un'espressione di Scabia stesso, «schemi vuoti», che saranno il principale strumento di lavoro del drammaturgo nel corso degli anni Settanta, sia nell'attività di animazione teatrale nei quartieri e nelle scuole sia nel suo Teatro Vagante. Si tratta infatti di testi scritti per essere modificati via via attraverso la discussione, l'intervento e gli incontri tra l'autore e gli attori, tra questi e il pubblico, coinvolto anticipatamente nel lavoro stesso e interessato a collaborare alla realizzazione dell' «opera». Scabia porta in scena una «macchina rigorosa», resa tale da una allegoria scenica molto precisa {De Marinis), che si fonda su quella scelta linguistica e poetica e che fa si che il suo lavoro non scada mai in pura animazione, in improvvisazione o, peggio ancora, in populismo. L'apertura del testo è, secondo i canoni della neo-avanguardia, un fatto programmatico e non una improvvisazione (si pensi alle partiture di John Cage). Semmai Scabia si rivela particolarmente efficace nel raccogliere e riorganizzare gli eventi casuali, gli aspetti stocastici che il lavoro collettivo comporta, bravo a condurre il lavoro seguendo linee che rimandano sempre ad archetipi e figure linguistiche della tradizione, che rivisita e riadatta secondo le situazioni e le occasioni. In questo modo maieutico gli riesce d'interpretare i moti profondi che sono nascosti nelle risposte degli attori, del pubblico, delle persone che partecipano alle sue messe in scena, senza tuttavia spegnere la risposta spontanea dei singoli, senza predeterminarla o limitarla. Per questo il teatro di Scabia è, sin dal suo inizio, un teatro sciamanico e insieme un teatro politico, volto a indagare le ragioni profonde della socialità, a ricercare i fondamenti del Linguaggio comune tra gli uomini, senza escludere a priori le radici cosmiche e persino «religiose» della socialità umana. C'è nel suo teatro, accanto a una matrice politica e persino materialistica, un animismo di fondo, la ricerca delle energie segrete che determinano le azioni degli uomini e delle donne, i loro destini individuali e collettivi. Come mostrerà all'inizio degli anni Ottanta uno scritto di Gianni Celati, dedicato a Fantastica visione, il teatro di Scabia è infatti un teatro mitico. De Marinis, nel saggio dedicato al teatro di Scabia, ricostruendo il periodo tra il 1965 e il 1975 (Scrittura e partecipazione), fa un'osservazione molto interessante, decisiva anche per leggerne il successivo lavoro letterario: i testi di Scabia sono scritti in forma teatrale e assomigliano più ad antichi trattati sui problemi della scena che non a scritture drammaturgiche tradizionali (sono divisi in atti e scene, invece che in capitoli): «sono più romanzi teatrali che testi per il teatro». E proprio partendo dal teatro, continua De Marinis, pongono al teatro stesso «domande cosi radicali (la funzione e la sopravvivenza del teatro) che non possono costituire (se non in un vertiginoso gioco di specchi) i materiali per uno spettacolo teatrale». Questa aspirazione al romanzo, che nasce dalla ricerca di una forma più appropriata per raccontare idee, ma anche da esperienze vissute e riflessioni, è quella che, seppur con le debite differenze, sembra avvicinare Scabia a Piero Camporesi e a Carlo Ginzburg, a un letterato e a uno storico che pongono alle loro stesse discipline domande radicali, e che sono sempre alla ricerca di una forma espressiva assai vicina al racconto, se non proprio al romanzo. Nel 1972, poco prima di iniziare il corso al Dams, Scabia è in Abruzzo, su invito di quel teatro stabile e delle amministrazioni locali; visita dodici paesi nel corso di una serie di azioni condotte con ragazzi e durate tre giorni. Di lavoro in lavoro Scabia appare attento a far tesoro degli elementi formali che emergono dall'attività comune, a cogliere tutte le occasioni che le situazioni gli forniscono (molti degli «oggetti» del suo teatro derivano da incontri casuali, da sollecitazioni come da risoluzioni pratiche). Dal laboratorio abruzzese derivano il carro contadino utilizzato successivamente in Commedia armoniosa del cielo e dell'inferno del 1972 (il testo è pubblicato da Einaudi nel medesimo anno), ma anche il Drago (Forse un drago nascerà esce da Emme Edizioni nel 1973), «il cui corpo è costituito da un lungo telone sorretto da centine e che nasconde sotto i ragazzi del laboratorio» (anche questo «oggetto» lo ritroveremo a Bologna, nel 1977). Nelle animazioni di Scabia vengono utilizzati «oggetti» di grandi dimensioni, traduzioni visive di «grandi immagini profonde». Scrive al riguardo Scabia: «la vastità e la grandezza dei pupazzi giganti, totem, draghi, eccetera (il "fare" gigante) è prima di tutto un bisogno narrativo, una proiezione esterna di archetipi (protettivi o distruttivi) allo scopo di renderli più forti nei confronti della scena esterna (la città, la campagna). Ma è anche un'astuzia per accrescere il rapporto fantasmatico di partecipazione. Il pupazzo gigante, il Drago, eccetera, accendono una serie di ricordi e di proiezioni, che mutano le relazioni esistenti tra il corpo e il mondo esterno». La citazione evidenzia quelli che sono gli aspetti salienti del lavoro di Scabia: la narrazione ( come nota la critica, egli è narratore del teatro e non solo nel teatro); il corpo: la corporeità è un elemento non abbastanza sottolineato nel suo lavoro, e questo a causa della sua scarsa tematizzazione da parte dello stesso Scabia, almeno nelle esperienze del Teatro Vagante e nelle animazioni, mentre è insistito nella scrittura teatrale vera e propria; lo spazio: l'oggetto gigante destruttura radicalmente lo spazio in cui immergersi, «lo fa mutare di segno»; la fantasia come costruzione collettiva. C'è anche da sottolineare che, nonostante l'appartenenza di Scabia al Gruppo 63, la ricerca linguistica e lo sperimentalismo della neo-avanguardia non sono gli unici elementi del suo percorso di drammaturgo e di scrittore; Scabia non è legato solo alle esperienze espressive della modernità novecentesca, ma anche alla tradizione dialettale, al plurilinguismo dell'età premoderna, al Folengo prima ancora che a Joyce (anzi, il Folengo è per lui perfettamente contemporaneo di Joyce). Nel sottofondo letterario di Scabia si sente la presenza di autori del secondo dopoguerra come Cesare Pavese, di una letteratura che è a metà strada tra mito e antropologia, e che si alimenta di Moby Oick come delle proprie radici contadine, una letteratura che rivisita i miti greci attraverso il riferimento alla propria terra e alle parlate locali; proprio per questo è in grado di cogliere il genius loci che è implicito in ogni singolare esperienza linguistica e antropologica. Scabia è attento più ai temi visivi e spaziali che a quelli linguistici e semiologici; perciò non è casuale che al suo lavoro poetico e teatrale, all'attività di scrittore, si accompagni un'attività disegnativa e pittorica che non è rivolta tanto alla realizzazione di opere visive (quadri, disegni, sculture, oggetti), bensì alla produzione di manufatti, immagini e forme che si inseriscono negli allestimenti teatrali e accompagnano l'attività di scrittura nel tentativo continuo di utilizzare tutte le forme espressive possibili. Nel 1972 Scabia è a Trieste, invitato dallo psichiatra Franco Basaglia che dirige il manicomio locale. Da luogo di detenzione e segregazione Basaglia lo sta trasformando in uno spazio di confronto tra follia e normalità. Anche qui la costruzione di un «grande oggetto» si rivela decisiva. Intorno al cavallo azzurro, cui verrà dato il nome di Marco Cavallo, si costruisce l'esperienza del laboratorio di scrittura, scultura e pittura, prima ancora che teatrale, che durerà diverso tempo con il contributo di operatori visivi e di psichiatri, e che culminerà in un corteo finale per le vie della città di Trieste. L'archetipo della Città è centrale: è lo spazio privilegiato del suo «teatro politico», la città come laboratorio, come luogo degli scontri e degli incontri. Il pupazzo azzurro di nome Marco Cavallo sfila alla testa del corteo seguito dagli uomini e dalle donne del Laboratorio P, dagli infermieri, i medici, gli ospiti, gli artisti (Scabia, Vittorio Basaglia e gli altri membri del gruppo autodefinirsi "artisti" per essere meglio accettati dai ricoverati). Attraversa i reparti dell'ospedale psichiatrico, esce dai cancelli e percorre la città, sale fino a San Giusto, per arrivare nel quartier, di San Vito, dove ha inizio la festa per l'apertura del manicomio. Riflettendo su questa esperienza, poco dopo la sua conclusione, scrive Scabia su una rivista di teatro: la follia è «la forma suprema di maschera" dietro cui si nasconde e si protegge il malato, per questo «farlo uscire e parlargli può anche significare teatro, perchè, per agire su quella maschera è necessario contrapporgliene provvisoriamente un'altra. L'appuntamento al dialogo reale è in terzo luogo, fuori da entrambe le maschere, dove siamo insieme e ci apparteniamo, nell'esclusione o comunque storicizzando la realtà del nostro corpo, (1973).

(...)

La casa della scrittura di Maurizio Conca

La casa della scrittura: un documentario di Maurizio Conca[modifica | modifica sorgente]

di Antonio Costa

[4]La casa della scrittura è il primo piano di una fattoria, nella campagna di Tavernuzze, presso Firenze. Per oltre vent'anni è stata il laboratorio di Giuliano Scabia. Dividendosi tra Firenze, Venezia e Bologna (dove insegna drammaturgia dal '72), Scabia ha fatto di questo spazio il suo rifugio, la sua bottega artigianale e il suo teatro della memoria. Maurizio Conca, fotografo e filmaker di Dolo, ha da poco concluso il film dedicato a questa casa. [ ... ] («Ognuno di noi lega parti della sua vita a un luogo»): qui si è svolta la scrittura di romanzi, poesie, testi teatrali, tutto quanto egli ha fatto poi vivere con la sua voce, messo in scena con il proprio corpo, trasformato in "fantastiche visioni". Quando, qualche anno fa, si presentò la necessità di lasciare questa casa, Scabia dichiarò che il solo trasloco lo avrebbe impegnato per un paio d'anni. Non si trattava solo di trasportare manoscritti, disegni, pupazzi, bozzetti, locandine, appunti per spettacoli e seminari. Perché uno spazio del genere non è fatto solo di cose, magari fragili, ma anche del modo in cui un uomo lo ha "inventato" e lo ha vissuto giorno dopo giorno. Qualcosa che non si può traslocare. Da qui è nata l'idea di filmare, di conservare traccia di uno spazio che non sarebbe più esistito in quel modo. Se il trasloco è durato un paio d'anni, il montaggio dei filmati girati da Conca è durato ancor di più: ci vuole molto tempo, molto silenzio perché il montaggio porti alla giusta forma, al giusto ritmo quanto la videocamera digitale ha registrato. Senza contare che si è trattato di un'autoproduzione, come lo è stato tutto il teatro di Scabia, da sempre fuori dei circuiti sovvenzionati. Certo, nessun audiovisivo può restituire quel rapporto magico che conosce chiunque partecipi a una performance del poeta-attore-drammaturgo: «l'armonia del mondo - secondo Scabia- è nella voce di chi dice la parola». Ma La casa della scrittura tratta di un'altra cosa, della storia segreta di un'avventura creativa, del contatto quotidiano con la scrittura, i fogli, la cartapesta, il disegno, i colori della notte e la propria voce interiore. Una delle cose più difficili per il cinema è mostrare come lavora uno scrittore: forse perché Scabia sa "scrivere" con i gesti con la voce, con lo sguardo, La casa della scrittura è una scommessa vinta.

Giuliano Scabia[modifica | modifica sorgente]

Giuliano Scabia (Padova, 1935), poeta, drammaturgo e romanziere (dal 1973 docente di drammaturgia al DAMS di Bologna) .. è stato il protagonista di alcune tra le esperienze poetiche e teatrali più vive e visionarie degli ultimi venti anni" (Gianni Celati). Ha collaborato con Nono nella scrittura del Diario Italiano, è stato uno degli iniziatori del Nuovo Teatro (Zip, Biennale di Venezia, 1965, con Quartucci e Luzzati) e l'ideatore di situazioni teatrali e comunitarie memorabili, come quelle dell'Ospedale Psichiatrico di Trieste ( di cui parla nel libro Marco Cavallo, Einaudi, 1976), quella con un gruppo di attoristudenti attraverso l'Appennino emiliano (di cui parla nel libro Il Gorilla Quadrumàno, Feltrinelli, 1974), o quella de Il Diavolo e il suo Angelo (1979-1985) attraverso paesi e città. Negli ultimi tempi ha quasi completato i circa trenta testi (commedie, lettere, poemi, racconti) che costituiscono il ciclo del Teatro Vagante, un teatro raccontabile oltre che rappresentabile, che frequentemente va in giro a recitare da solo, in case di conoscenti e amici, in piccole comunità che si formano per ascoltare, seguendolo a volte in lunghe camminate nei boschi. Il lavoro sulla lingua compiuto attraverso la ricerca teatrale è confluito nei romanzi In capo al mondo (Einaudi, 1990), Nane Oca (Einaudi, 1992) e Lorenzo e Cedlia (Einaudi, 2000) che insieme alle Lettere a Dorothea configurano l'unicità di Scabia come narratore. Nel 1995 ha pubblicato Il poeta albero (Einaudi, 1995), poesie e disegni (a trent'anni di distanza dalla prima raccolta, Padrone & Servo, D'Urso Sciascia, 1964), e nel 2003 Opera della notte (Einaudi), libri di poesie in cui è racchiusa la forma più intensa del suo itinerario di scrittore, "uno dei pochi e dei migliori che sia dato di leggere." (Folco Portinari). Marginale e centrale nel panorama letterario, maestro segreto di molti, Scabia comincia a essere riconosciuto come uno dei grandi scrittori viventi, "forse il più grande drammaturgo oggi da noi" (Gianfranco Capitta), "uno dei pochi, forse l'unico scrittore mitico in circolazione" (Marco Belpoliti), "capace di pensare il teatro per quello che è nella sua istanza primitiva... cioè come visione di ciò che lega gli uomini agli dei, il cielo alla terra" (Gianni Celati), "viandante in un tempo sospeso dove si può ancora sperare di entrare in una foresta e trovarvi magari delle fate e poi discutere di comunismo" (Paolo Mauri), con "una prospettiva oggi del tutto controcorrente, ma che ha sempre perseguito nella sua lunga attività di narratore, poeta e uomo di teatro: il raccontare come farmaco necessario alla vita." (Giovanni Pacchiano).

Tra gli altri libri pubblicati: All'improvviso & Zip, Einaudi, 1967; Commedia armoniosa del cielo e dell'inferno, Einaudi, 1972; Forse un drago nascerà, Emme, 1973; Teatro nello spazio degli scontri, Bulzoni, 1973; L'animazione teatrale (con Eugenia Casini-Ropa), Guaraldi, 1978; Dfre fare badare (con Massimo Marino), La Casa Usher, 1981; Il Diavolo e il suo Angelo preceduto dalla Lettera a Dorothea, La Casa Usher, 1982; Scontri generali, Einaudi 1983; Teatro con bosco e animali, Einaudi, 1987; Fantastica visione, Feltrinelli, 1988; L'insurrezione dei semi, Ubulibri, 2000; Lettere a un lupo, Casagrande, 2001; Visioni di Gesù con Afrodite, Ubulibri, 2004

Evento speciale: Michele Emmer, un matematico cineasta[modifica | modifica sorgente]

Michele Emmer[modifica | modifica sorgente]

Michele Emmer è nato a Milano il 15 settembre 1945. Si è laureato in matematica con lode presso l'Università di Roma con una tesi su un lemma di Caccioppoli. È attualmente professore ordinario (dal 1986) presso l'università di Roma "La Sapienza". Da due anni tiene corsi al CCL in Disegno Industriale. è stato professore nelle università di Ca' Foscari e IUAV (6 anni) oltre ad avere insegnato a L'Aquila, Viterbo, Sassari, Ferrara, Trento. r stato visitatore tra l'altro a Paris Sud - Orsay. Princeton, Barcellona, Campinas. Ha tenuto conferenze e seminari in Europa, USA, Canada, Brasile, Australia, Giappone, India, Singapore. Da due anni tiene un master di secondo livello alla SISSA di Trieste sul tema "immagini". Fa parte da venti anni dell'Editorial Board della rivista Leonardo, Art, Science and Technology del MIT Press, della redazione del Bollettino unione Matematica Italiana, della commissione della European Math Society per la diffusione della cultura matematica. Collabora da venti anni alla pagina della cultura de l'Unità, inoltre a Diario, Sapere, Galileo. Regista ed autore di film e documentari per la RAI e per altre televisioni ed Istituzioni estere, ha vinto numerosi premi in festival del cinema scientifico. E' stato presidente per tre anni della Associazione Italiana di cinema scientifico. Ha esordito nel cinema come attore nel film di Luciano Emmer Camilla del 1954, con la sceneggiatura di Ennio Flaiano. Ha collaborato con l'aiuto regista nel film di Luciano Emmer La ragazzo in vetrina del 1961. I suoi film sono stati tradotti in francese, inglese, spagnolo e giapponese. Sono state organizzate diverse rassegne dei suoi film, tra le altre al Museo del cinema di Torino, al Pare de la Villette, in Giappone, in Francia. Nel 2003 il festival del cinema di Bergamo gli ha dedicato una serata. Organizza dal 1997 presso l'università Ca' Foscari di Venezia dove è stato professore per 5 anni, i convegni "Matematica e cultura" a cui negli anni hanno tra l'altro partecipato Peter Greenaway, Roman Vlad, Paolo Portoghesi, Simon Singh Apostolos Doxiadis, Mario Martone, John Barrow, Luca Ronconi, Sergio Escobar, Bustric, Claudio Ambrosini. I convegni sono organiuati in collaborazione con diverse istituzioni veneziane: ufficio cinema del Comune, collezione Guggenheim, Archivio di Stato. Nel 1998 vince il premio Galileo insieme con Franco Prattico e Piergiorio Odifreddi. Organizza nel 2000 a Bologna, nel 2001 a Venezia, nel 2002 a Roma e a Milano la rassegna di film legati alla matematica. Ha pubblicato nel 2002 il libro Matematica, arte, cinema, Springer Italia, Milano; ed. inglese ampliata Mathematics, Art and Cinema, Springer verlag, New York (2003)

Filmografia scelta (salvo altra indicazione durata 25 minuti):

Il nastro di Moebius (1979), Le bolle di sapone (1979), I solidi platonici (1979), Simmetria e tasse/lozione (1979), Dimensioni (1982), M.C.Escher: simmetria e spazio (1982), Spirali (1982), Eliche (1982), Ars Combinatoria (1984), M.C.Escher: geometrie e mondi impossibili (1984), Nodi (1984), Geometria (1984), Flatlandia (1987, 22 min.), Labirinti (1987), Computers (1987), L'avventura del quadrato (1987), Figure geometriche (1987), L'occhio di Horus (1989, 12 min.), Metamorfosi, di Fabrizio Clerid (1990, 7 min.), La Venezia perfetta, (1993, 20 min_), The Fantastic World of M.C.Escher (1994, 50 min .), SITE Architedures & Shopping centers, (1981, 22 min.), Matematici, in due parti, (1996, 35 e 30 min.), Ennio De Giorgi (1996, 75 min.)

In programma:

Bolle di sapone (beta, 27 min.), Clerid e Mozart (VHS, 7 min.), El Lissitsky (VHS, 3 min.), Il mondo fantastico di M. C. Escher (beta, 50 min.), Flatlandia (beta, 27 min.)

Bolle di sapone di Michele Emmer

Il mondo fantastico di M. C. Escher di Michele Emmer

Escher e il cinema[modifica | modifica sorgente]

di Michele Emmer

[5]Profondi ed interessanti sono stati i legami tra l'opera del grafico olandese Maurist Cornelis Escher e scienziati di diversa formazione, primi fra tutti i matematici H.S.M. Coxeter e R. Penrose. E' lo stesso Escher ad aver suggerito di utilizzare le sue opere in un modo molto particolare. Parlando della sua opera Metamorfosi osservava che: "mostra gradualmente come una successione di figure che mutano gradualmente può dar luogo alla creazione di un racconto per immagini. In modo simile gli artisti del Medio Evo hanno raffigurato le vite dei Santi in una serie di tavole statiche ... Lo spettatore doveva guardare in sequenza ogni episodio. La serie delle rappresentazioni era statica ma acquistava un carattere dinamico per il tempo necessario a seguire l'intera vicenda.... Nel caso delle storie pittoriche medioevali e nello sviluppo di una divisione regolare del piano, le immagini sono l'una accanto all'altra ed il fattore tempo è dovuto ai movimenti che l'occhio di chi osserva fa per seguire la sequenza da un'immagine all'altra; è come guardare una striscia di pellicola cinematografica facendola scorrere tra le mani." In un famoso documentario realizzato da Luciano Emmer negli anni quaranta sulla Cappella degli Scrovegni a Padova e gli affreschi di Giotto gli angeli dipinti in posizioni diverse sono stati montati in successione come se fossero un solo angelo che vola nel cielo. Una animazione disegnata da Giotto! Era la prima volta che nel cinema si utilizzava questa tecnica per descrivere, o meglio far vivere, l'opera di un artista. Alcuni artisti in questo secolo hanno realizzato film dipingendo di rettamente sulla pellicola cinematografica. Tra gli altri Luigi Veronesi, a cui tra l'altro fornì la pellicola mio padre. Le parole di Escher suggeriscono di utilizzare la tecnica cinematografica, in particolare quella dell'animazione, per rendere esplicito quel movimento che era implicito nelle sue opere. In questo modo se ne accresce, in un certo senso, l'effetto, dato che la tecnica cinematografica costringe chi osserva ad entrare nel mondo di Escher e a non lasciarsi distrarre da alcun fattore esterno. Nel realizzare due film in animazione dedicati all'opera e i Escher ho cercato di coniugare insieme sia l'aspetto artistico che quello scientifico nel tentativo alla Escher di creare delle immagini che parlassero da sole. La macchina da presa amplifica ed aumenta rendendo esplicito ciò che Escher suggeriva: la trasformazione. Si realizza una delle idee visive di Escher. Scrivevo in occasione della mostra di Napoli del 1989 che "passeranno molti anni ancora prima che potremo fare a meno delle sue idee visive." Per realizzare il film, girato in 35 e 16 mm (in seguito è stato realizzato un master video digitale per la versione unica di 50 minuti per l'edizione negli USA) sono state fotografate le opere originali di Escher nel Gemeentemuseum dell'Aja; quindi sono state riprodotte delle stesse dimensioni originali e infine sono state ridisegnate per realizzare l'animazione con la tecnica del passo uno, utilizzando una truka (macchina da presa per effetti speciali) verticale. Se si tiene conto che un secondo di filmato è composto di 24 fotogrammi e che nella tecnica del passo uno, ogni fotogramma viene impressionato singolarmente (da cui il nome di passo uno), si può facilmente capire quanto lavoro comporti realizzare decine di minuti di animazioni. In pratica si fotografa ogni immagine realizzando un singolo fotogramma dell'animazione; con 24 fotogrammi si ha un secondo di animazione; per avere un movimento fluido dell'animazione ogni fotogramma viene ripetuto 4-8 volte. Senza tenere conto naturalmente della realizzazione dei disegni preparatori e dei tanti errori che si commettono durante la realizzazione delle animazioni. Sin dagli anni Sessanta alcune opere di Escher venivano viste come precorritrici della Optical Art; basta guardare il Balcone che in realtà era stato realizzato molti anni prima, nel 1945. Escher oltre ad aver suggerito una lettura cinematografica di alcune sue opere, aveva partecipato alla realizzazione di un breve film in cui alcune delle sue opere erano state animate con la tecnica del passo uno. Escher, scomparso nel 1972, non ha avuto il tempo di imbattersi nella grande diffusione della computer graphics. Tuttavia una delle prime animazioni al computer mai realizzate è quella della scala impossibile di Penrose che la Bell Laboratories realizzò negli anni Sessanta; la sequenza è stata inserita nel film, con l'autorizzazione degli autori.

Flatland di Michele Emmer

Omaggio a Jean Rouch[modifica | modifica sorgente]

Cinema verità e camera occhio[modifica | modifica sorgente]

di Georges Sadoul[6]

Cinema Utile[modifica | modifica sorgente]

AMREF[modifica | modifica sorgente]

CUAMM[modifica | modifica sorgente]

Emergency[modifica | modifica sorgente]

Medici senza frontiere[modifica | modifica sorgente]

Centro Sperimentale di Cinematografia Scuola Nazionale di Cinema[modifica | modifica sorgente]

di Caterina d'Amico (Preside del Centro Sperimentale di Cinematografia), Annalisa Forgiane (Docente di Montaggio del CSC)

Per questo terzo anno di collaborazione tra il Centro Sperimentale di Cinematografia/ Scuola Nazionale di Cinema e il Bellaria Film Festival, abbiamo individuato un nuovo modulo di partecipazione, di concerto con Daniele Segre: oltre all3collaudata presenza degli studenti del primo anno del corso di Montaggio, con i quali lo stesso Segre ha avuto modo di interagire didatticamente nell'ambito del suo corso Cinema e Realtà presso la nostra Scuola, è previsto anche il coinvolgi. mento di alcuni allievi del secondo e terzo anno dello stesso corso. Le ragioni di questa scelta per quanto riguarda gli studenti del primo anno vanno individuate nella possibilità di un'esperienza concreta che li veda attivamente coinvolti, insieme ad altri giovani provenienti da varie Università italiane, in un progetto di lavoro intenso che ha caratteristiche insieme di ricerca e di adeguamento a moduli professionali, attraverso le scadenze quotidiane di "messa in onda " di prodotti variegati destinati al pubblico del festival (i VIDEOMAGAZINES). Nei due precedenti anni, in modo diverso ma coincidente, abbiamo riscontrato esiti positivi per i ragazzi che tornavano esausti ma rafforzati anche umanamente, sia come singoli sia come gruppo, da questa esperienza fatta in un ambito diverso da quello consueto e protetto della scuola. Le ragioni della nuova scelta di coinvolgere anche allievi più "anziani" va nella direzione di un riconoscimento e di un segnale di crescita di ruolo e di responsabilità nei confronti di coloro che nelle precedenti esperienze si sono dimostrati maggiormente appassionati e che ora si sentono pronti e disponibili a una ulteriore messa in gioco di se stessi. Per quanto ci riguarda si tratta di un esperimento, in cui verificare da una parte il bagaglio effettivo che si è sedimentato in loro nelle passate esperienze e dall'altra i risultati, che ci auguriamo buoni, che può dare un lavoro di gruppo di studenti coordinato da altri studenti più "grandi", cioé più esperti nello specifico. Questo è lo spirito che da parte nostra anima il progetto al quale dunque diamo la nostra fiduciosa adesione, sperando che come in passato il bilancio finale possa essere estremamente positivo. Un ulteriore, gratificante sviluppo del rapporto tra la nostra Scuola e il Festival riguarda la partecipazione di Donato Sansone, allievo del terzo anno del corso di Animazione: a lui infatti è stato affidato il compito di realizzare la sigla del Festival. La committenza da parte del Festival di un incarico cosi delicato ci rende orgogliosi, perché testimonia in modo eloquente la fiducia che viene riposta nei nostri allievi.

Introduzione ai saggi di diploma triennio 2000-2002[modifica | modifica sorgente]

Chi ci ferma più, Il sostituto, Eserdzi di magia, Sole, In casa d'altri, Le mani in faccia, saggi di diploma degli allievi (triennio 2000 - 2002) del Centro Sperimentale di Cinematografia, rappresentano anche, tutti insieme, il progetto del Centro Sperimentale di Cinematografia e della Rai per la realiuazione di un lungometraggio. I sei cortometraggi sono stati girati a Roma, Chioggia, Capua, Giulianova e Monopoli e hanno una durata media di 16'. Le sei diverse troupe sono state composte dagli allievi di sceneggiatura, regia, fotografia, montaggio, suono, scenografia, costume, produzione e recitazione, affiancati da professionisti di grande esperienza dell'industria cinematografica. RAI Cinema, che ha tra i suoi intenti quello di individuare nuove energie per il cinema italiano, ha iniziato la collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia per offrire nuove opportunità alle promesse del cinema di domani.

Coppie[modifica | modifica sorgente]

Mestieri del cinema[modifica | modifica sorgente]

Giuseppe Cederna, attore[modifica | modifica sorgente]

Giuseppe (edema é nato a Roma nel 1957, è attore di cinema e teatro. In cinema ha lavorato, tra gli altri, con Bellocchio, Monicelli, Comencini, Scola, i fratelli Taviani e Gabriele Salvatores. Alcuni film: Marrakech Express e Mediterraneo, di Gabriele Salvatores, Italia Germanio 4-3 di Andrea Barzini, Il partigiano Johnny di Guido Chiesa, El Alamein di Enzo Monteleone. È apparso nell'ultima serie di Distretto di Polizia. In teatro ricordiamo Amodeus di P. Shaffer con Umberto Orsini, Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov regia di Gabriele Lavia, Lo Febbre di Wallace Shawn, Tocalabala! Il racconto del caldo, Il giro del mondo in settantasette minuti, Lennon & John. Da alcuni anni scrive storie di viaggi per diversi giornali e riviste tra cui l'Espresso, Gente Viaggi, la Repubblica, I meridiani. Ha da poco pubblicato da Feltrinelli il suo primo libro Il Grande Viaggio la storia di un pellegrinaggio alle sorgenti del Gange. Un viaggio di iniziazione alla bellezza, all'unicità della natura, alla condivisione della gioia, e al dolore.

Il cinema, il viaggio e la scrittura.[modifica | modifica sorgente]

È grazie al viaggio, alle strade, alle tournée teatrali e cinematografiche che ho iniziato a scrivere. Mi piace scrivere in movimento. Scrivo in treno, sugli autobus, sui treni, sulle navi e sugli aerei. Ho iniziato a viaggiare per lavoro. Poi è stato il viaggio a scegliere per me. Nel 1988 grazie a Marrakech Express ho sfiorato per la prima volta il deserto. Negli anni seguenti ho avuto la fortuna di conoscerlo meglio grazie ad un maestro: Pietro Laureano, inviato dell'Unesco, architetto, scrittore e studioso di oasi e zone aride. Con lui sono stato più volte in Algeria, nello Yemen fino all' Oceano Indiano. Poi è stata la volta del Mediterraneo, in cui sono tornato più volte per scrivere e raccogliere la memoria degli abitanti dell'isola di Kastellorizo nel dodecaneso orientale. Nel 1992 ho cominciato a collaborare con AMREF (African medical and research foundation) la più importante Ong dell'Africa orientale. Come testimone di AMREF ho viaggiato in Kenia, Sudan e Somalia realizzando un breve documentario. Un viaggio difficile e doloroso nella guerra civile, tra campi profughi e scorte armate. Un brutto viaggio che mi ha aperto gli occhi. Per i tre anni successivi ho portato in tournee La febbre, il monologo dello scrittore newyorkese Wallace Shawn. Grazie all'impatto emotivo dello spettacolo e al vasto pubblico di alcune apparizioni televisive abbiamo raccolto fondi per nuovi progetti di AMREF. Con La febbre è iniziata la mia collaborazione con Giuseppe Baresi che ne ha realizzato un video/film. Un giorno di giugno del 1995 il velista Giovanni Soldini di ritorno dal giro del mondo in solitaria mi ha raccolto nel porto di Fayal alle Azzorre e mi ha dato un passaggio fino a Cadice. Con il fotografo Alberto Novelli ho ripercorso le tracce di tre prigionieri italiani fuggiti nel 1941 da un campo di concentramento inglese per scalare il monte Kenia. Un impresa folle e magnifica, resa famosa dal libro Picnic on Mount Kenia. Forse per merito dei miei bisnonni originari della Valtellina, Himalaya e le sue alte vie di commerci, scambi e pellegrinaggi ha cominciato ad attrarmi sempre di più. Ho camminato in Nepal, in Ladakh, in Himachal Pradesh e in Garhwal tra gli Hills Himalayani. Il mio libro racconta uno di questi viaggi. Un viaggio "grande e terribile". Mentre salivo con alcuni amici tra le montagne dell'Himalaya, Paola Biocca, una carissima amica e compagna di viaggi, cadeva con un aereo dell'ONU sulle montagne del Kosovo. Era il portavoce italiano del World Food Programme e dopo la sua missione a Pristina avrebbe dovuto raggiungerci a Delhi. Senza saperlo siamo stati scelti per accompagnarla nel suo ultimo viaggio a Devprayag, "la confluenza del Dio", dove il Gange riceve il suo nome prima di affrontare le grandi pianure.

Giuseppe Baresi (Milano 1960) Filmaker-ricercatore-produttore indipendente. Di formazione artistica, lavora dal 1982 come regista e direttore della fotografia. I suoi film e video, spesso al confine tra documentario e videoarte, trattano poeticamente i temi dello spazio e del viaggio. Vanta una ricchissima filmografia, frutto di numerose collaborazioni: da quella con Studio Azzurro, a quella con la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Particolare importante l'incontro con Marco Paolini con cui collabora per le versioni video-televisive di molti suoi spettacoli. Nel 1994 l'incontro con Giuseppe (edema che dà vita al video-film La Febbre, dall'omonimo testo di Wallace Shawn. Collaborazione che prosegue ancora con la realizzazione di un video-reportage di viaggio. Insegna presso l'Accademia di Belle Arti di Brera- Dipartimento Arte e Media e tiene dei corsi e Master per la Scuola di Cinema Televisione e Nuovi Media di Milano.

Michel Chion[modifica | modifica sorgente]

Incontro con Michel Chion di Sandra Lischi

A rendere unica, nel panorama internazionale degli studi sul cinema, la figura di Michel Chion è la compresenza, in lui, di competenze e creatività diverse: non tanto l'essere assieme autore e critico - questa, nella storia del gruppo raccolto intorno ai "Cahiers du Cinéma", non è una novità - quanto il fondere passione e conoscenza del cinema con competenze anche tecnico-scientifiche sulla musica e in generale sul suono; l'essere un teorico dell'audiovisione e un musicista, un critico cinematografico e uno studioso della musica nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, un film-maker e un osservatore delle metamorfosi del suono nelle forme attuali di cultura informatica diffusa, un "ascoltatore" e un artista. Michel Chion si è formato alla scuola della musica concreta di Pierre Schaeffer, a Parigi, negli anni immediatamente successivi al "maggio francese": anni densi di stimoli, di provocazioni intellettuali, di tentativi di dialoghi sociali e culturali prima impensabili. Musica concreta, musica che esiste solo "fissata su supporto", registrata. Acusmatica, secondo un termine che Chion più tardi applicherà alla voce (di cui non vediamo la fonte) nel cinema. Musica che considera i suoni come oggetti da modellare, oggetti concreti quindi, siano essi il brano di una sinfonia classica o uno dei tanti rumori della vita quotidiana. Questa formazione - che ne farà in seguito, e tuttora, un raffinato compositore - influisce beneficamente sul suo approccio, consapevole e competente, alle diverse problematiche dell'audio-visione. lo studio delle configurazioni della voce nel cinema; e poi del suono in generale; e della parola; fino alla "summa" di tutte queste ricerche, col fondamentale testo L'audiovisione. Suono e immagine nel cinema, una sorta di mappa del rapporto suono immagine che, partendo dalla constatazione che "non si sente la stessa cosa quando si vede; non si vede la stessa cosa quando si sente" va a stanare e a definire l'estesissima gamma di possibilità di relazioni fra la parte visiva del film e la parte sonora del film (Chion è contrario all'uso del termine "colonna sonora", allo stesso tempo troppo generico e troppo riduttivo, ma soprattutto viziato dall'idea di una possibile separatezza e autonomia del suono rispetto all'immagine e viceversa). Come musicista, Chion tiene a ribadire con grande fermezza la distanza che corre fra la scuola di Schaeffer e le provocazioni performative del "Fluxus", la teoriuazione dell'effimero e dell'opera aperta, anche l'eredità dei futuristi-rumoristi. C'è infatti nel suo approccio una impostazione classica (si pensi alla rivisitazione del Requiem, della Messa in latino), l'idea di costruzione di opere concluse e che aspirano alla durata, assolutamente non effimere; inserite nel contesto delle poetiche e dalle ricerche delle avanguardie musicali del Novecento, spesso mescolate felicemente con la classicità. Un'aspirazione di Chion musicista e cineasta è l'intelligenza del nuovo intrecciata alla capacità di suscitare emozioni, lucidità e pietas, distanza e vicinanza. Così, nel rivisitare oggi il rituale antico della Messa, compone nel video La Messe de terre un affresco potente della vita dell'uomo sul pianeta: una messa terrena, di terra appunto, fatta di transiti e incroci, di suoni mescolati, musiche, lingue antiche e moderne; e nel presentare il video al pubblico lo trasforma in una performance dal vivo, alterando o amplificando i suoni, aggiungendo interventi vocali. Questa libertà compositiva ispirata sempre a una "classicità moderna" permea anche l'approccio di Chion allo studio del cinema. Oltre ai libri specificamente incentrati sul rapporto suono-immagine, Chion ha dedicato importanti monografie a Lynch, Tati, Kubrick, alla sceneggiatura, ai mestieri e alle tecniche del cinema. Ma la sua bibliografia è ricchissima anche di interventi su riviste (fra cui la preziosa "Bref') o in volumi collettivi e cataloghi da cui scaturisce una curiosità e una passione profonda per tutto il cinema, così come per le forme nuove che il cinema va assumendo. Chion riesce ad amare contemporaneamente gli Straub e Titanic, Sergio Leone, Visconti, Chaplin, Fellini e Antonioni, La vita è bella, Hitchcock e Bresson ..... Sulla scia della "politica degli autori" dei Cahiers, e anche oltre, ama un cinema saggistico, di ricerca, come ama un cinema spettacolare e che sa commuovere, e le sue lezioni e conferenze sono straordinarie per questa capacità di spaziare, attraverso l'audiovisione, nella storia del cinema come un corpus unico e toccante. Chion è severo, casomai, verso le avanguardie autoreferenziali, concettuali e aride, che snobbano il cinema hollywoodiano da cui avrebbero tanto da imparare per quanto riguarda un uso avanzato, ricco, del tessuto sonoro .... e arriva anche a dire che in fondo le tanto celebrate nouvelles vagues (a parte Godard, che è sempre "a parte") non hanno innovato granché sul piano sonoro, con tutto quel parlare ... Anche la videoarte non viene risparmiata, salvo rarissimi casi: avanzata nell'elaborazione dell'immagine, ma pigra e arretrata nella ricerca sonora. Ricordiamo che Chion ha contribuito ad alcune delle "concezioni sonore" più riuscite di videoartisti come Robert Cahen, con cui lavora da decenni in stretta collaborazione; e ha fortemente influito su autori come Francisco Ruiz de Infante e Ermeline Le Mézo. Ha realizzato anche un brevissimo video ispirato a una poesia di Goethe: un mini-trattato delle sue teorie sull'audio-logo-visione. Da musicista e studioso del suono (anche in generale, come nel suo libro Le son, vero e proprio trattato interdisciplinare, con molti riferimenti letterari) guarda con curiosità ai fenomeni attuali, come l'introduzione del dolby stereo nelle sale, che consente una nuova dimensione acustica e la rivalutazione del rumore ("il cinema sonoro comincia ora"); o la videomusica, i videogiochi, l'animazione al computer, la stessa sonorità instaurata dall'uso dell'elaboratore. Pensatore e autore libero da preconcetti e schemi Chion attinge per la propria riflessione e la propria opera alla vita quotidiana, alle più diverse letture, alla poesia, all'attualità, alla memoria, allo sterminato e appassionante paesaggio dell'arte e della letteratura, ma anche a una precisa e lucida conoscenza del funzionamento della "macchina cinema" , alle sue componenti - altrettanto affascinanti - fisiche, materiali, concrete, insieme artificiali e naturali.

L'intervento a Bellaria: i film e i video[modifica | modifica sorgente]

Per il suo intervento a Bellaria, che sarà corredato dalla visione di opere (per estratti o intere) Chion ha scelto il tema · uneare/non lineareH, per cui propone questo sintetico itinerario: ·At di là della dicotomia cinema - o video - di finzione/cinema - o video - di creazione o sperimentale, non si potrebbe parlare di una scelta che alcuni fanno fra un racconto lineare, che presuppone una storia irreversibile nel tempo (pur incompiuta o lacunosa), e una costruzione non lineare che si concede la ripetizione infinita degli stessi momenti, che cessano così di essere momenti? Come compositore, ma anche occasionalmente cineasta e autore video, finora non ho scelto fra queste due direzioni, e vorrei riflettere pubblicamente su questo problema, mettendo a confronto opere diverse ...

Eponine (1984, 13 min.)[modifica | modifica sorgente]

Corto di finzione, scritto e realizzato da Miche! Chion, interpretato da Karine Sacco e Elisabeth Tamaris. "Eponine è il mio ultimo film di finzione compiuto. E' ambientato negli anni Cinquanta e racconta due giorni nell'esistenza di una donna che vive con la figlia in un ambiente umido, e che è intenta a stirare senza posa. Un giorno Eponine, la ragazzina, porta a casa una compagna di scuola, e niente sarà più come prima".

Variations sur Eponine (1997, 15 min.)[modifica | modifica sorgente]

Rimontaggio del film precedente, realizzato in occasione di una performance intitolata La maison du temps. "In questa occasione (Parigi, 1997) ho fatto un'esperienza che consisteva nello spezzare leggermente la linearità narrativa del cortometraggio Eponine, attraverso ripetizioni di inquadrature."

Introit de La Messe de terre, (1996, 12 min.)[modifica | modifica sorgente]

"Questa liturgia-video, rappresentata per la prima volta al Festival internazionale di Videoarte di Locarno nel 1996, è un "rituale del tempo che dura due ore e mezzo e che cerca in alcuni suoi momenti di materializzare il tempo nella sua durata, durata che è resa quasi intollerabile. L' introibo è costruito come i titoli di un film di finzione, anche se introduce un'opera non lineare e non narrativa."

Juste le temps (1983, 12 min.)[modifica | modifica sorgente]

di Robert Cahen, concezione sonora di Michel Chion. "L'opera contiene un 'nucleo narrativo' minimo, su quel che chiamo 'la storia delle storie': l'ipotesi di un incontro non ancora certo di due persone che forse saranno i genitori del narratore, raccontato dal punto di vista dell'essere umano che ne nascerà." (m.c.)

Amedeo Fago, regista e scenografo[modifica | modifica sorgente]

Laureato in architettura presso l'Università di Roma, ha compiuto le prime esperienze di spettacolo già negli anni del liceo e nei primi anni di università. Ha lavorato nel cinema come regista in Se ho un leone che mi mangia il cuor (1977); La donna del traghetto (1985) che ha partecipato a numerosi festival tra cui il Festival di Cannes, l'.Internationale Filmwoche Mannheim, Mostra di Valencia - Cinema del mediterrani, Filmfestival of Flanders di Ghent, Festival international d'Aix en Provence, Festival international du cinema di Bruxelles, International Istambul Filmdays; Tra due risvegli (1992} che ha partecipato tra gli altri al Festival cinematografico del Cairo, al Grolle d'oro Saint Vincent, al Festival du Film Iberique et Latino Americain di Arcachon e Giochi d'equilibrio (1997). Tra le sue regie teatrali La morte del dott. Faust (1976); Puzza di basilico (1982); Benvenuti in Italia (1984) e Cuori separati (1997). Per la televisione ha diretto La pizza (1990) e Risotto (1991). In teatro ha lavorato come autore, regista e attore in Auto-ritratt-azione (1978); Risotto (1978/79) che ha partecipato ai più importanti teatri nazionali e internazionali; Politekniade (1979}; Io, patria, famiglia (1981); Segreteria telefonica (1982/83) e Polaroid (1990). Come scenografo cinematografico ha lavorato con i maggiori registi italiani. Tra i suoi lavori: Barbablu barbablu (1987), L'amore necessario (1990), Le intermittenze del cuore (2003) per la regia di Fabio Carpi; O cangaceiro (1969), Fatevi vivi la polizia non interverrà (1974), Sulla spiaggia e di là dal molo (1999) e Pontormo (2002) per la regia di Govanni Fago; Nel nome del padre (1971), Marda trionfale (1975), Salto nel vuoto (1979), Il sogno della farfalla (1993) per la regia di Marco Bellocchio; L'invenzione di More/ (1974), Ehrengard (1981), Una storia semplice (1991) per la regia di Emidio Greco; Porte Aperte (1989) con Gianni Amelio; Mimì metallurgico ... (1971) e In una notte di chiaro di luna (1989) per la regia di Lina Wertmuller; La messa è finita (1985) di Nanni Moretti, La luna (1984) di Bernardo Bertolucci e tanti altri. Ha lavorato come scenografo teatrale di Kaddish per la regia di Giancarlo Sammartano e Il tubo e il cubo e per molti film televisivi. Amedeo Fago nel 1973 è ideatore e fondatore, a Roma, del centro culturale polivalente "Il politecnico" che organizza una serie di iniziative per la promozione del nuovo cinema italiano. Nel 1979 è ideatore e organizzatore della mostra "La città del cinema", al Palazzo delle Esposizioni di Roma.

Barbara Valmorin, attrice[modifica | modifica sorgente]

Nasce a Bari da dove, finiti gli studi regolari, si trasferisce in Francia. Nel 1961 si diploma presso l'Accademia d'Arte Drammatica di Parigi e nello stesso anno debutta in teatro. Nel 1963 ritorna in Italia e lavora, tra gli altri, in Il contratto di e con Eduardo de Filippo, Il desiderio preso per la coda di P. Ricasso, per la regia di Antonio Calenda. Sotto la direzione di Luca Ronconi lavora in Orlando furioso, La tragedia del venditore, Partita a scacchi, Orestea, XX secolo, Caterina di Meilbron, Opera, Peccato fosse puttana. Diretta da Giancarlo Corbelli lavora in La figlia di Iorio, Amore-potere-violenza. Con Lorenzo Salveti ha lavorato in Lulù, La veneziana, Macbeth, A caso, La cantatrice calva, Commedia delle parole, La figlia di Iorio. Diretta da P. Rossi Castaldi lavora in Lauben, Donne, Soro e la rosa. Diretta da Ugo Gregoretti lavora in Pamela, Il critico. Diretta d Cesare Lievi lavora in Donna Rosita nubile, Il nuovo inquilino, Festa d'anime. Con Renato Carpentieri lavora in Commedia delle parole e Medea. Ha inoltre lavorato con i seguenti registi: Franco Zeffirelli in Sei personaggi in cerca d'autore, con Carlo Cecchi ne Il bagno, con Werner Wass in Un uomo è un uomo, con Furio Bordon in Oblomov, e con tanti altri. Ha lavorato nel cinema in diverse occasioni tra cui Provvisorio quasi d'amore, Manila palma bianca e Vecchie per la regia di Daniele Segre. Con Vecchie vince il premio Miglior interprete femminile al Festival di Annecy. Tra i suoi lavori televisivi ha lavorato in Incantesimo 5, La squadra, Distretto di polizia 3.

Videomagazine[modifica | modifica sorgente]

di Lorenzo Cuccu (Presidente del corso di laurea in "Cinema, Musica, Teatro", Università di Pisa e Presidente della Consulta Universitaria del Cinema)

Per il secondo anno il Festival di Bellaria offre agli studenti del nostro corso di laurea in "Cinema, Musica, Teatro" (Facoltà di Lettere, Università di Pisa) l'opportunità di misurarsi con il lavoro appassionante e complesso di una manifestazione cinematografica ormai consolidata. Le studentesse e gli studenti selezionati partecipano infatti, con colleghi di altre università italiane, alla realizzazione del videomagazine quotidiano del festival, sotto la guida di Daniele Segre. Una "palestra" del tutto particolare, un'occasione preziosa di confrontare le competenze acquisite nei corsi e nei laboratori universitari con le urgenze e le necessità dettate da una realtà che richiede prontezza e precisione, che coniuga rigore e capacità inventiva. Gli studenti selezionati hanno già una preparazione in campo audiovisivo, anche di tipo realizzativo: a Bellaria sono chiamati a metterla alla prova, trasferendo un'attività e una passione individuali in un contesto lavorativo stimolante e insieme incalzante. Questa attività, formalizzata anche da una convenzione per tirocinio fra la Facoltà di Lettere e il Comune di Bellaria, si iscrive pienamente nel disegno dei nuovi corsi di laurea, che prevedono, a fianco delle discipline teoriche e storico-critiche, una prima formazione di carattere professionalizzante, nel nostro caso una sorta di alfabetizzazione al linguaggio audiovisivo. Quella di Bellaria è un'esperienza viva, che consente ai nostri studenti di conoscere anche la struttura e i problemi di un festival, il rapporto fra l'organizzazione del festival e il territorio; permette di conoscere da vicino registi affermati e giovani autori, critici e addetti stampa, attori e produttori, prendendo coscienza della vastità e varietà dei "mestieri del cinema". Un'immersione totale e intensiva, diversa dalla situazione di spettatore cinefilo come da quella di studente: un'esperienza destinata a lasciare un segno forte nell'itinerario formativo, sia per la ricchezza di contenuti che per il carattere del tutto particolare di questo impegno, che richiede lavoro di gruppo e capacità di rispettare esigenze e tempi di una committenza. Per concludere, voglio ricordare, in quanto Presidente della Consulta Universitaria del Cinema, che questo tipo di iniziative e di rapporti degli studi universitari con le realtà professionali con gli Enti e associazioni territoriali rientra pienamente nelle strategie di sviluppo e di radicamento che i docenti di cinema intendono perseguire.

(...)

Fuori Concorso[modifica | modifica sorgente]

Mestieri del cinema - Barbara Valmorin[modifica | modifica sorgente]

Evento speciale: Donato Sansone[modifica | modifica sorgente]

Cinema e dintorni[modifica | modifica sorgente]

Corpo a corpo[modifica | modifica sorgente]

Impressioni[modifica | modifica sorgente]

Incubi della storia[modifica | modifica sorgente]

  1. Il mondo, 28 marzo 1974
  2. Rinascita, 28 giugno 1974
  3. in Rinascita n.32, 9 agosto 1974, p.28
  4. Il Corriere del Veneto, suppl del Corriere della Sera, 19.9.2003
  5. pubblicato in "Matematica, arte, tecnologia, cinema", Springer, 2002
  6. G. Sadoul, Da Dziga Vertova Jean Rouch. "Cinema verità" e camera occhio", in V. Spinazzola (a cura di), Film 1963, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 132-134.