1994

Da Wiki - Archivio per il cinema indipendente italiano.

Le informazioni qui riportate sotto tratte dal catalogo dell'edizione.[1]

Ente promotore[modifica | modifica sorgente]

Comune di Bellaria Igea Marina - Assessorato alla cultura - Archivio del cinema indipendente italiano - Presidenza del Consiglio dei Ministri - Regione Emilia Romagna

Titolo[modifica | modifica sorgente]

Anteprima per il cinema indipendente italiano

Date[modifica | modifica sorgente]

3 - 8 Giugno 1994

Direzione[modifica | modifica sorgente]

  • Direzione artistica: Antonio Costa, Enrico Ghezzi, Morando Morandini, Roberto Silvestri
  • Direzione organizzativa: Gianfranco Miro Gori

Organizzazione[modifica | modifica sorgente]

  • Segreteria e catalogo: Andrea Menghi, Simona Fabbri, Paola Gori, Annamaria Gradara
  • Ufficio stampa: Marzia Milanesi
  • Amministrazione e servizi tecnici: Saverio Gori
  • Traduzioni simultanee: Sonia Sanviti
  • Anteprima News: Paolo Pagliarani, Mariachiara Pioppo
  • Hanno collaborato: Catia Donini, Mirko Ricci, Marco Tomasin
  • Living Pictures è a cura di: Antonio Costa, Cristina Valenti
  • Bad Girls è a cura di: Giulia D’Agnolo Vallan, Roberto Silvestri
  • Prima della rivoluzione... trent'anni dopo è a cura di: Morando Morandini

Un ringraziamento a: Pietro Ricciardelli, The Film Company, Angelo Libertini (Cineteca Nazionale), Mario Musumeci (Cineteca Nazionale), Cineteca Italiana, Osvaldo De Nunzio (ASAC), Telepiù, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, Fabrizio Pozzili (edizioni Socrates), Gianni Manzella, Roberto Cuppone, Elfi Reiter e Paolo Gandolfi (DAMS Bologna), Franco Quadri, Marco Maria Gazzano

Giuria[modifica | modifica sorgente]

La giuria del Concorso Anteprima: Lucilla Albano, Anna Bonaiuto, Marisa Fabbri, Sandra Lischi, Fabrizia Ramondino

Presentazione[modifica | modifica sorgente]

di Antonio Berardi (Assessore alla cultura)

«È affetto da grave malattia si non si sa che cosa sia. Si guarda i pollici a uno a uno e addolora che non ne ha ventuno». (Marcello Marchesi)

Il Cinema si avvia verso il centenario, mentre il video come forma espressiva sta abbandonando a fatica l’adolescenza; siamo pronti a tutto. In questa fase intrigante variamo la dodicesima edizione di Anteprima con occhi puntati al passato e al futuro, tentando sintesi possibili del presente. Se affiora il sospetto che tutto attorno a noi cambi perché nulla cambi, ci dedicheremo alla realtà come humus, non panacea. Ci sostiene un barlume di fede nel cinema come sperimentazione nonostante il mercato abbia ormai colpito al cuore, con la sperimentazione, anche la propria necessità di idee originali, di prototipi. Per rompere la gabbia del reiterato e della noia, dell’«ideologia dei conti», diamo ancora una volta visibilità al Cinema Indipendente; ancora novità a piene mani (d’opere e di sguardi, appunto) con i soli limiti dati alle nostre fantasie, dal carattere della rassegna e da un budget che lentamente lievita (mai abbastanza?). L’anticipo sulla data, da agosto a giugno, è una piccola audacia che riposiziona il festival anche rispetto ad un contesto locale ingiustamente parco d’attenzioni, peraltro notevoli a livello nazionale. L’omaggio a Bernardo Bertolucci di Prima della rivoluzione inaugura un modo diverso di creare l’evento, riaggregando una troupe dopo trent’anni per ritrovare il clima di rapporti e professionalità nati attorno alla creazione del film, bell'esempio di produzione indipendente. Il dilatare dai soliti cinque a sei giorni la rassegna, il potenziamento del Premio Casa Rossa ed il potenziamento delle strutture con la nuova sala al Palazzo del Turismo, le iniziative collaterali, sono concreti segni di maggior attenzione e di una crescita di Anteprima ponderata e costante. E, oltre al festival, si sviluppa l’ Archivio del Cinema Indipendente sia come emeroteca che come sistema di relazioni meno occasionali, attraverso la collaborazione a rassegne sull’intero territorio nazionale e il consolidamento di rapporti con archivi e cineteche in ambito regionale, senza nulla togliere alla propria funzione propulsiva della realtà locale. Verrebbe facile paragonare i festival del cinema, soprattutto i maggiori, all’equivalente di quel che nel passato erano i pellegrinaggi: riti collettivi fatti di viaggi, sacre liturgie e adunate ecumeniche; da Lourdes a Cannes il passo è breve. I moderni pellegrini del culto dell’immagine partono speranzosi ma tornano a casa con qualche «visione» in mente, un paio di souvenir e la valigia colma di inevitabili delusioni. Colpa delle Tv? del dominio delle cinematografie più forti? o di un prevalente conformismo che ha conquistato i responsabili dei festival? Anteprima è ancora (e sempre più) un laboratorio, si pone ancora il compito di scovare e far conoscere i talenti non a ciò ancora affermati e continua a dare spazio che per altri è banalmente marginale. Così facendo, armati della spavalderia dei piccoli, diamo un contributo ad allungare la vita al grande vecchio, ormai confuso dalla magia del totem a ventun pollici.

Introduzione[modifica | modifica sorgente]

Testi e contesto, di Antonio Costa

Lo spostamento di Anteprima dall’ultima decade di agosto all’inizio di giugno, per quanto previsto da tempo, ha certamente influito sul numero complessivo di opere presentate perla selezione: poco più di 150 contro le 220 dello scorso anno. I filmmakers abituali della nostra rassegna hanno avuto meno tempo per approntare l’edizione di nuove opere. Di conseguenza sono diminuiti i lavori ammessi in concorso: 25 contro i 34 della passata edizione, con una leggera diminuzione percentuale. La tradizionale cornice entro cui si colloca il concorso trova una conferma e, semmai, una più precisa articolazione. Tanto che è forse limitativo chiamarla cornice: al Premio Casa Rossa e al concorso a tema fisso, si affiancano la retrospettiva (Living Pictures), la sezione di mezzanotte (Bad Girls) e l’omaggio a Prima della rivoluzione. La sezione speciale, con la quale si individua tra le opere inviate una linea di tendenza degna di essere evidenziata, è stata mantenuta. Lo scorso anno si chiamava «Viaggi dentro lo spettacolo», dato l’alto numero di lavori dedicati al cinema, teatro, danza (tema ben rappresentato anche quest’anno, soprattutto per il cinema). Questa volta si è ripreso il titolo di una precedente edizione, «Viaggi in Italia». Non si tratta di un mero contenitore di documentari dove è più facile isolare o esaltare l’aspetto tematico: e, certo, sappiamo tutti quanta voglia ci sia di capire che tipo di Italia si senta, oggi, il bisogno di visitare, di riprendere!. Ma forse è possibile individuare quest'anno anche una maggior attenzione ad aspetti strutturali del testo audiovisivo, una certa tendenza a lavorare sulla dimensione temporale: non solo il tempo passato (e perduto), ma anche il tempo ripetitivo, seriale della mappa, del catalogo, della registrazione di eventi (penso in particolare a Simonetta Fadda e Gianluca Greco). La sezione retrospettiva, con la quale si è cominciato lo scorso anno (con la personale di Alberto Grifi) a ripercorrere il cinema alternativo degli anni sessanta settanta, propone un’altra rassegna di cinema e video del/e sul Living Theatre, vale a dire un momento forte di interazione tra teatro e cinema, tra pratiche specifiche e scelte di fondo. Dal cinema underground di Jonas Mekas ai flussi di memoria di Nam June Paik, si tratta di un percorso attraverso trent’anni di avanguardia, in cui tra l’altro, c’è da registrare una significativa presenza del nostro cinema: con Leonardi da una parte e Bertolucci dall’altra, il cinema italiano, attraverso l’esperienza del Living Theatre, si apriva a prospettive internazionali. Se a questo si aggiunge l’omaggio a Prima della rivoluzione di Bertolucci, non si potrà dire che manchino occasioni per contestualizzare, nel segno della continuità o della rottura a seconda delle opzioni personali o di gruppo, l’attuale ricerca di identità del cinema indipendente italiano. Forse è da questa articolazione, e soprattutto nell’uso non puramente celebrativo che se ne farà, che potranno emergere spunti per superare una situazione di impasse già segnalata da chi ci segue con attenzione: da una parte l’impressione accentuata di aria di famiglia, di déja vu, di una sorta di istituzionalizzazione di generi e linguaggi (Paola Brunetta); dall’altra l’in- capacità della rassegna di Bellaria di «produrre forme di ‘coscienza’ nei filmmakers dei quali si fa portavoce» (Causo & Gariazzo). La vivacità del contesto con l’apertura su prospettive più ampie forse non potrà «produrre», ma certo potrà favorire o incoraggiare quelle prese di coscienza di cui si lamenta la mancanza. D’altra parte, l’affermazione nel Premio Casa Rossa di nomi come quelli di Bruno Bigoni, Carlo Colnaghi, Renato Carpentieri, Luca Bigazzi (che qui sono stati variamente o ripetutamente presenti nelle passate edizioni) dimostra una possibile linea d’identità e di continuità con la (pur recente) tradizione di Anteprima.

Concorso Anteprima[modifica | modifica sorgente]

Casa Rossa[modifica | modifica sorgente]

Tre minuti a tema fisso[modifica | modifica sorgente]

Tema: Diavolo

  • Il risveglio di Carla Abbrescia, Pietro Balla, Giuseppe Selva
  • Le mille lire di Mirco Alboresi, Stefano Bisulli, Piero Gatto, Alessandro Torelli
  • Eretic line di Marco Alessandri
  • Giornata di lavoro di Paolo Ameli
  • Carrozza 666 di L. Artoni, L. Perrone
  • Non è normale di L. Artoni, L. Perrone
  • Perfavore mordimi sul collo di A. Azzaro
  • Simpatia per il ‘diavolo’ di M. Balducci
  • L’eterna dannazione di Matteo Bambi, Massimo Conti
  • Esercizi di Alberto Barbadoro
  • Dalla creazione del diavolino al suo mantenimento di Augusto Bastianini
  • Il diavolo di M. Bellini, D. Bersanetti
  • Sindiaballo di Giovanna Berti
  • Il castello di S. Bisulli, R.Buldrini
  • L'altra faccia di Streetman di Giorgio Bonecchi Borgazzi
  • Una tentazione per Candido di Licia Bonfatti Sabbioni
  • Quando il diavolo ci mette la coda di Fabrizio Bozzetti, Francesco Marino
  • Il riflesso della solitudine di Fabrizio Bozzetti, Francesco Marino
  • 005 XXX XXX di Marco Bragaglia
  • Necrospettiva di Paolo Bragaglia, Beniamino Catena
  • Totus di Giovanbattista Brambilla
  • Futuropoli di Gianni Bresciani
  • Anime cercansi di G. Cacace,G. Quercia
  • Interno giorno di Alberto Callari
  • Il pacco di C. Capone, M. Massaccesi
  • Perduto non mi pento di M. Capparella
  • Il diavolo di Massimo Cappelli
  • Il ponte di Paolo Caredda
  • L'ultima notte a Costellation di Benedetta Castagnoli
  • Untitled di Monica Castiglioni
  • Diavolo di Luigi Cecchetti
  • Stimmung di Renzo Cevro Vukovic
  • Fardello di Edo Chieregato
  • Zap di Agata Chiusano
  • Diavolo d'un Marco Civinelli di Marco Civinelli
  • Diabolica di F. Coglitore, A. Saterno
  • Diavolo di Alessandro Conte
  • Senti le parole uscire dalla bocca come vagoni merci di Dhani Coraucci
  • The Blackboard di Andrea Corridori
  • Versetti satanici di Simona Costanzo
  • Diavolo (1) di Antonella Cuttitta, Luca Guadagnino
  • Diavolo (2) di Antonella Cuttitta, Luca Guadagnino
  • Fradiavoli di A.D’ Amico, F. Ramundo
  • Diavle! di Paola D’Ignazi
  • Una stagione all'inferno? di L. D’Itri
  • Mr. Pemberton di A. Dallolio, F. Villa
  • Io sono il diavolo di Claudia Dattilo, Filippo Macelloni
  • La televisione di Giacomo De Bastiani
  • Dio è buono ma anche il diavolo non è male di Anna De Manincor
  • Il demone e la sfinge di Fabrice De Nola
  • Cau di Enrico Deotti
  • La cosa povera di Stefano Dongetti
  • L'occasione di Antonio Fabbri
  • Pollo alla diavola di Luigi Ferreri
  • Clair de lune di Massimiliano Flotta
  • Stop - Perché urlasti di gioia a Zabrinsky point? di F. Fossati, R. Rivarola
  • Uno strano problema di G. Ganino
  • Diavolo di Gianluca Gavelli
  • Diavolo di Vittorio Giorno
  • Il diavolo non è come si dipinge di Simone Grisolia
  • Creature del diavolo di Gianluca Guaitoli, Roberto Silvestri
  • Etrom di Giuseppe Guastella
  • Diavoli si diventa di Tommaso Isonzo
  • Bestie da soma di Gerardo Lamattina
  • Loro di Corrado Lannaioli
  • Stoppie di Pierpaolo Limone
  • Irene diabolica di Carlo Lo Giudice
  • Destinazione di Giovanni Lumini
  • Il distratto di Stefano Mavilio
  • Il diavolo zoppo di Manuele Mazza
  • Peyote di Gianluca Missero
  • Il ponte del diavolo di Natascia Mondaini
  • Scarti di Massimo Moni
  • Nos inter et in rebus di R. Montanari
  • Psyco II la bolletta di Francesco Montelli
  • Monito-Raggi Inferno di Luca Mori, Filippo Nicotra
  • Il diavolo è... in gamba di G. Moschella
  • EI diablo di Antonio Murgia
  • Rima Palpebralis di P. Nosari, L. Zanini
  • Meringhe di Roberto Ortolani
  • Que es mas diablo? di Martha Osorio, Nicola Podiguez
  • Virtual Devil di Vanni Perrone
  • Tragic Band di Sergio Porro
  • Il pescatore di Mauro Quattrina
  • È solo una questione di gusti di Danilo Ramirez
  • Le diable c’ est moi!!! di G. Rimont Lulli
  • Diavolo? di Andrea Romeo
  • Il diavolo di Elio Rosati
  • Azucena di Claudia Rossi
  • Trame di Stefano Roveda
  • Imbesse di Antonio Sanna
  • Il rito proibito di Lino Signorato
  • Povero diavolo di Umberto Siotto Cosseddu
  • La pena del danno di Marcello Siragusa
  • Un povero Cristo di Edo Tagliavini
  • Il diavolo ... la noia di A. e M. Vai
  • Il trillo del diavolo di Sandro Vasini
  • Diavolo! di Roberto Vergelli
  • Io il presidente di David Zamagni

Viaggi in Italia[modifica | modifica sorgente]

Videoresistenza[modifica | modifica sorgente]

Retrospettiva[modifica | modifica sorgente]

Bad girls. Le ragazze violentate[modifica | modifica sorgente]

di Roberto Silvestri

Dal 1954 al 1958, in piena esplosione del rock”n’roll e di disintegrazione delle gerarchie e delle simbologie sessuali vigenti, dopo il doppio shock delle guerre mondiali e l'epopea della «femme noir», marchio del più possente movimento di massa antagonista della civiltà occidentale avanzata, tra boom economico per la middle classe e peggioramento delle condizioni di vita e di lotta delle classi deboli e delle minoranze etniche, tra resistenza culturale ai miti consumisti capitanati dalla beat generation e guerra fredda e maccartismo fiorenti, nasce il consumo eversivo di immaginario indipendente. Cioè l’«exploitation film», il cinema capace di aggrapparsi ai bassi istinti del pubblico più curioso e attivo, più appassionato e visionario, per sfruttarlo commercialmente fino all’osso. Violenza, sesso, destrutturazione di ogni legge morale, religiosa e civile, spiritualità trash, umorismo nero, criminalità giovanile quasi esaltata, arditezze ai limiti del possibile e oltre i limiti del plausibile. La degenerazione del buon gusto classico si attesta tra impero sottoproletario del kitsch e raffinatissimi atteggiamenti metropolitani camp. Entrambi decostruiscono valori e certezze del buon americano e consorte, appiattiti dal clima miserabile della caccia alle streghe. Il consumo cinematografico si dimezza da 90 milioni del '45 ai 45 del '59. La tv ricaccia le famiglie in casa, le donne reagiscono alla prigione domestica con la pratica dell’elettrodomestico a tutti i costi e per tutti gli usi, e con la «cacciata» di casa dei loro bimbi e bimbe teenager: consumate il salario di papà, divertitevi almeno voi, che potete! Per conquistare i kids l’industria pachidermica si ingegna a accaparrarli con filmoni 3D o kolossal immensi e costosi. Niente da fare. Andrà molto meglio con film a basso costo dal sofisticatissimo design trash, che garantiscono altissimi profitti purché smantellino ogni pezzo del catechismo «codice Hays» e rendano così ancor più polpettose le proposte anchilosate e «arty» di Hollywood (che a forza di processi antirossi ha perduto i suoi migliori cineasti e creativi), ormai fatta a pezzi dopo l’applicazione delle leggi antitrust e dunque non più ras assoluta dell’immaginario. Fioriscono le piccole case di produzione indipendenti, l'American International Pictures, di Arkoff e Nicholson. È l’epopea dei vari dropout, cui Joe Dante ha reso omaggio in Matinée, Kroger Babb, Sam Katzman o Albert Zugsmith uno più agguerrito e veloce dell’altro nel produrre miscele esplosive di ribellione indocili ai vecchi generi dello studio system e al Sistema di Rappresentazione Istituzionale: commedia, melodramma, film in costume, horror, western, fantascienza, ecc... Mischiare tutte le suggestioni e le tonalità hard possibili diventa il nuovo cocktail espressivo del momento. Non horror ma gore, non solo nudies ma sesso pop, non solo killer ma serial killer. E altre combinazionazioni varie. In più un protagonismo inedito della donna. E un’estraneità più radicale al mondo maschile rispetto allo stesso film noir. Teoria e pratica della differenza diventano messa in scena perfino nei più fallocratici generi tradizionali. Si veda La donna che volevano linciare, western di Allan Dwan. O Sisters in Leathere She-Devils on Wheels in cui le gang di sole donne in moto vendicano tutte le loro sorelle attaccate, sfregiate, violentate o semplicemente molestate. Donna non solo oggetto inerme e inerte, ma alterità totale, autonomia e insubordinazione. Mai più vittima, mai più Johnny Belinda (il film di Negulescu con Jane Wyman capro espiatorio seviziato con sadismo non casuale a ribadire, nel 1948, che la donna in rivolta è stata sconfitta e dovrà tornare schiava...) ma maniaca sessuale, feroce gangwoman, fredda delinquente giovanile, killer professionista anche se creativa (Chesty Morgan insegna come), maligna e pericolosa creatura, mostro di tecnica capace di ogni virtuosismo di surf e di provocare terremoti sentimentali più tellurici nei beach movies e infine mostro vero e proprio, come Frankenstein, come il dottor Cyclops, capace di raggiungere i 15 metri d’altezza e di distruggere una metropoli, come King Kong, in fondo solo per amore... Per raccontare l’epopea della ribellione proletaria giovanile, l’isteria del rock, la pratica sovversiva ma autolimitata della gang, l’insorgenza della donna, la bestialità del sistema repressivo di stato (scuola, polizia, prigione, apparati del consenso). Robert Altman e Roger Corman partono proprio da questo punto, e ricominciano da zero. Le registe Barbara Peters e Stephanie Rothman, Roberta Findlay e Doris Wishman sono i loro partner. Magari invece di ispirarsi al conte Dracula ristudiano la biografia di Elizabeth Bathory l’aristocratica ungherese che per mantenersi giovane e bella uccise 600 ragazze vergini per riempire la sua vasca da bagno col loro sangue. Attenzione a questi film. Non vanno né in tv né in pay tv. E sul Maltin, quell’orrenda bibbia del cinefilo socialdemocratico, non li troverete. Così c’è tutto uno star system da rimettere in circolo e socializzare. Uno 007 donna di classe? È Cheri Caffaro (Ginger, The Abductors, Girls Are for Loving). E poi ancora, estreme propaggini di Jane Mansfield e Marylin Monroe, i più finti e imprendibili oggetti sessuali, veri soggetti di un dominio incontrollabile e totale: Lorna Maitland, Kitten Natividad, Hajie Tura Satana (Russ Meyer), Connie Mason (H.G. Lewis), Betty Page (Irving Klaw), Vampira (Ed Wood jr.) e Barbara Steel. E poi le B-girls più recenti che troviamo riverite nella rivista americana «Femme fatale», da Mary Woronow (Paul Bartel) a Yvette Vicker, da Margot Hope, regista, produttrice, sceneggiatrice e attrice di Femme Fontaine Killer Babe for the Cia (Troma 1994) a Brinke Stevens e Michelle Bauer. Identica la grinta dei pionieri degli anni dieci prima della omologazione e standardizzazione postbellica. Tra il 1900 e il 1919 esistevano già centinaia di registe donne, buone normali o pessime come gli uomini. Poi sparite, a parte Dorothy Arzer, Lois Weber, Ida Lupino. Rinascono proprio nel 1954 (Maya Deren, underground, loro pioniera). Ma non è solo questione di registe, di director. È l’intero tessuto simbolico a reagire, dopo la sconfitta del 1945-1947, la perdita di salario e la ricacciata in casa delle donne coinvolte nello sforzo bellico. E il film exploitation (in modo più radicale quello «mainstream», che riemergerà dalla cridi si di identità solo alla fine degli anni '60), rappresenta questa centralità nell'immaginario forte del paese. Dietro Thelma e Louise e Serial Mom, e prima della New World anni ’70 e dei film femministi di Jonathan Demme, Mark Lester, Joe Viola, Jack Hill, Jonathan Kaplan, Clinton Kimbro, Michael Miller e Steve Carver qualcosa di grosso successe proprio nel tempo e nello spazio più impensato. Nell’ America conservatrice degli anni ’50 e soprattutto in quelle gioconde e frivole spiagge di Malibù...

Scandali al sole. I Beach-Movies[modifica | modifica sorgente]

Il genere beach-movies fiorì e morì nei drivein tra il 1963 e il 1966, ma era nato nel 1959 con Sandra Dee ribelle, ma tutta rosa e sorridente, in due film major (Scandalo al sole e I cavalloni), e avrebbe avuto suggestivi strascichi fino agli anni ’90, con Point Break di Kate Bigelow. Un filone dal presentimento sessantottino (infatti nei campus i ragazzini americani già si scontravano con la polizia dal 1964, dopo l’omicidio Kennedy). In realtà di «ragazze passive» il genere beach non ne può vantare affatto. Per esempio in Beach Ball, di Lennie Weinrib, sembrano ingenue, occhialute, credulone e bruttarelle, ma arriveranno alla festa rock dei Wigglers, ben truccate, senza occhiali e con la ferma intenzione di non tornare a casa sole. Impregnati di ottimismo e di umorismo kennediani questi film fabbricavano, ai bordi dell’impero, sulla battigia del Pacifico, un’utopia di vita felice, collettiva, «qui e subito», apartheid non razziale (le colonne sonore sono tutte rock genuino) ma generazionale. Affetti da sindrome Peter Pan questi film sono liberatori, come spiegherà Matinée di Joe Dante, perché, a parte non gradire la visita dei maggiori di anni 18, questi invitano all’eguaglianza tra ragazzi più piccoli e più grandi e soprattutto tra ragazzini e ragazzine. Sono eccitanti fantasmagorie del «tutto e subito», al di là del totalitarismo e integralismo familiare puritano e bigotto. Fu dunque personaggio militante, femminista e rivoluzionaria, anche se in bikini, e pronta a scatenarsi nel twist più autarchico sia Deborah Walley (It's a Bikini World) che Annette Funicello (la prima eroina del genere Aip, reinvenzione di William Asher che vi fece confluire tutti i filoni subculturali esistenti, come la parodia delle motorcycle gang). Sia Sandra Dee (con Scandalo al sole conquistò il pubblico internazionale, ma sempre nel 1959 fu la prima vera, bionda, tenera, zuccherosa come l’acciaio, eroina beach, Gidget, in Italia I cavalloni, regia di Paul Wendkos) che Sally Fields, starlette tra il 1965 e il 1966 della sitcom tv della Abc ispirata a Gidget, e la legione di altre ragazze che sarebbero diventate miti sessuali di tipo nuovo (Pamela Tiffin, Linda Evans, Connie Stevens, Barbara Eden, Rachel Welch, Nancy Sinatra), capaci di rompere per sempre quel baricentro vittoriano che faceva di una ragazza una «cosa» e di un ragazzo (Frankie Avalon, Tab Hunter, Beau Bridges, Troy Donahue, Fabian) tutt’altra cosa. E viceversa. Iniziavano delle erotiche, mutanti contaminazioni... Mentre avanzava lo sperimentalismo lisergico e politico di «sex, drugs and rock’n’roll» dell'era Easy Rider che avrebbe sepolto il beach-movies. Tranne l’appendice di Stephanie Rothman. Infatti gli altri classici del filone sono tutti diretti da uomini: Beach Blanket Bingo ('65), Beach Party ('63), Bikini Beach (’64) con Steve Wonder, How to Stuff a Wild Bikini ('65), Muscle Beach Party('64) di William Asher; Beach Ball (’65) e Out of Sight (66) di Lennie Weinrib (nel soundtrack del primo Four Seasone Supremes); The Beach Girl and Monster (’65) di John Hall, Daytona Beach Weekend (’65) di Robert Welby, Feeling Good di James A. Pike (66), For Those Who Think Young (’64) di Leslie di Joe Martinson (pubblicitario della Pepsi Cola), Get Yourselfa College Girl (’64) di Sidney Miller, The Girl on the Beach (’65) di William Witney (coi Beach Boys), The Horror of Party Beach (’64) di Del Tenney, Hot Rod Hullabaloo (’63) di William T. Naud con Marsha Mason, The Lively Set ('64) di Jack Arnold, Pajama Party ('64) di Don Weis, Palm Spring Weekend ('63) di Norman Taurog, Ride the Wild Surf (’64) di Don Taylor, Surf Party ('64) e Wild on the Beach (’65) di Maury Dexter, A Swingin' Summer (’65) di Robert Sparr... Ma non mancano le sceneggiatrici: Joan Gardner (The Beach Girls and the Monster) o Mildred Maffei (Feelin’ Good).

Intervista a Jack Hill[modifica | modifica sorgente]

Non ho mai preso il cinema molto sul serio

a cura di Giulia D'Agnolo Vallan

Hai studiato cinema alla UCLA...

All’inizio pensavo di prendere una laurea in musica: da giovane ero musicista. Da bambino suonavo il pianoforte e il violino e, a scuola, il cembalo ungherese. Avevo un gruppo rock e - a volte - suonavo musica gitana in un ristorante ungherese... Mi piaceva comporre e volevo imparare a scrivere musica per film. Per questo mi sono iscritto al dipartimento di cinema. Quando però ho iniziato a frequentare un corso di sceneggiatura, i professori mi hanno incoraggiato in quella direzione. Così ho finito per dirigere un paio di cortometraggi.

Con te c'era anche Francis Coppola...

Sì, abbiamo lavorato uno per l’altro sui progetti universitari. In quel periodo succedeva spesso che Roger Corman telefonasse al dipartimento chiedendo se c’erano studenti di talento, perché lui aveva bisogno di qualcuno che lavorasse per poco. Io e Francis abbiamo cominciato così, più o meno nello stesso periodo.

Quali sono state le prime cose che hai fatto quando sei entrato alla Filmgroup di Roger Corman?

Montaggi, rimontaggi e aggiustamenti vari di Battle Beyond the Sun, The Terror e Dementia 13.

Qual'è stato iltuo ruolo inDementia 13?

Quando Francis Coppola è tornato dall’Irlanda, aveva solo sessanta minuti di film. Non era finito e non si capiva granché. Nel frattempo, però, lui era andato a lavorare per una Major. Così Roger mi diede Dementia 13 da finire. Scrissi e girai delle scene supplementari cercando di riempire i buchi della storia.

Com' è nato il tuo film seguente, Spider Baby?

È un’idea che mi è venuta in un momento di ispirazione... anche se non so se ispirazione è la parola adatta. Avevo scritto solo un abbozzo della storia. Un attore che conoscevo era in contatto con due uomini d’affari che volevano investire nel cinema: pensavano di cominciare con un horror. Quando il mio amico gli ha raccontato la storia di Spider Baby... non avevano mai sentito nulla di simile, così decisero di produrlo.

Quella del cinema di genere è stata una scelta economica o una passione?

Economica, direi. Facevo ciò per cui la gente mi assumeva, o quello per cui riuscivo a trovare dei soldi. Spider Baby, però, è stato il mio unico film non commissionato. In tutti gli altri casi c’era sempre un produttore che mi «ordinava» un preciso tipo di film.

Hai scritturato tu Lon Chaney Jr.?

Sì, ho scritto il film pensando proprio a lui.

l film ha avuto problemi di distribuzione...

La gente che lo aveva finanziato si occupava di proprietà immobiliari. Proprio in quel periodo il business ebbe un grosso collasso e loro si trovarono in gravi difficoltà economiche. Speravano che il film potesse salvarli, ma dopo che lo ebbero mostrato ad un esercente, si spaventarono ed iniziarono a pensare che non fosse un buon lavoro. Tagliarono così tutta la prima parte, riducendo il film a sessanta minuti. Ma nessuno capiva più nulla. Poi, siccome fecero bancarotta, il film rimase sigillato per circa quattro anni, cioè fino a quando il distributore originale, a cui era piaciuto, ne rientrò in possesso e lo restaurò così come lo avevo montato io. Anche il titolo, Spider Baby, è una sua idea. Molto buona devo dire. Con quel film fece ottimi affari.

Come mai la copia è scomparsa per tanto tempo?

Stiamo parlando di trent'anni fa... Il film è circolato nelle sale, poi basta: è stato dimenticato. Nessuno pensava al video allora. Negli ultimi dieci anni è circolata una videocassetta pirata, di qualità molto povera. Intanto io ho cominciato a ricevere telefonate da riviste specializzate, come «Psychotronic», che volevano farmi domande sul film. Così sono entrato in contatto con Johnny Legend, una figura ben nota nel mondo dei cult film, e abbiamo realizzato un master in cassetta dal negativo del film che sarà presto distribuito regolarmente... Trovare la copia in 35mm che ho portato in Italia è stata una pura fortuna.

Cos'è Pit Stop?

È un film sulle corse di stunt car. Le corse avvengono su una pista a forma di otto, con un incrocio in mezzo. Così ci sono degli incidenti spettacolari, che sono tutti veri. Nel film c’è anche Ellen Burnsty. Io l’ho prodotto e Corman l’ha finanziato.

Hai anche lavorato su quattro film con Boris Karloff...

Sì, e meli vorrei dimenticare. Purtroppo la gente continua a chiedermi di loro. Boris era piuttosto anziano ed aveva un enfisema. Quindi, per via dell’altitudine, il medico non gli permetteva di andare in Messico dove i film avrebbero dovuto essere girati. Così, il produttore messicano che aveva firmato un contratto per i quattro film, si trovò in difficoltà. Fu il suo avvocato che me lo presentò: scrivetti tre delle sceneggiature e affidai la quarta ad un altro sceneggiatore. Tutte le scene di Boris vennero girate a Hollywood, dopo di che io sarei dovuto andare in Messico a finire il resto. Ma emersero molti problemi... realizzare quattro film in un colpo solo era un’idea folle. Tutti pensavano che il produttore fosse pazzo... Comunque lui morì e io persi le tracce di quello che era successo. Mi ricordo poco... si intitolavano House of Evil, Isle ofthe Snake People, The Incredible Invasion e The Fear Chamber.

È stato allora che sei andato nelle Filippine a fare The Big Doll House e The Big Bird Cage?

Sì, The Big Doll House era una sceneggiatura cominciata da una donna che lavorava con Roger Corman. Così come l’aveva scitta lei era irrealizzabile, quindi l’ho praticamente riscritta quando eravamo già nelle Filippine. Pam Grier si è presentata ad un’audizione. La parte non era scritta per una donna nera ma la sua personalità mi colpì subito. L’unica cosa che aveva fatto prima era una breve apparizione in un film di Russ Meyer. Per me il suo talento era davvero sorprendente. Così l’ho scritturata. Con lei ho fatto i due film nelle Filippine e poi, in USA, Coffy e Foxy Brown, che furono due grossi successi. The Big Doll House e The Big Bird Cage hanno praticamente iniziato il successo del filone «donne in carcere»... The Big Doll House in particolare... le imitazioni hanno cominciato ad uscire lo stesso anno.

Come lavoravi con Pam Grier?

Dopo il primo film, scrivevo con lei già in mente. Per Foxy Brown abbiamo la-vorato insieme sulla sceneggiatura, nel senso che ormai conoscevo molto bene la sua personalità...

Molti dei tuoi film sono storie di donne forti e violente... Cosa ti piaceva di quel genere?

In realtà non ho mai preso il cinema molto sul serio. C'è gente per cui il cinema è la vita. A me, dopo un film, ne offrivano un altro. Per quello ho continuato a farne. Loro volevano fare i soldi, io cercavo di mettere in quello che mi veniva chiesto elementi che trovavo interessanti. È l’unica cosa che riesco a dire. The Big Doll House e The Big Bird Cage sono stati prodotti da Corman, Coffy e Foxy Brown da Sam Arkoff.

Che differenza c’era nel lavorare per l’uno o per l’altro?

Con Roger avevo molta libertà, potevo fare quello che volevo. Lavorare con la AIP significava avere a che fare con una compagnia, c'erano molte persone di mezzo.

Switchblade Sisters e The Swinging 31 Cheerleaders erano film di Corman?

No, del manager di Corman, Richard Moreno. Lui aveva scelto il titolo, The Swinging Cheerleaders. Con quello e il mio nome trovò i soldi. Fu un amico che scrisse la sceneggiatura. Girammo in dodici giorni e il film fu un grosso successo. La stessa cosa per Swifchblade. All’inizio doveva chiamarsi Jezebele poi cambiammo titolo. Non mi convinse mai e fu il mio primo e unico flop, anche se oggi alla gente piace.

Sorceress è stato il tuo ultimo film, però hai tolto il nome dai credits. Cos' è successo?

Un giorno mi chiamò Roger Corman chiedendomi se ero interessato a fare un film sulla stregoneria. In quel momento non volevo più fare film con piccoli budget: stavo scrivendo sceneggiature per film più grossi. Ma lui disse che su Sorceress avrebbe speso un sacco di soldi, aveva anche un officina per gli effetti speciali che stava facendo dell’ottimo lavoro. Accettai perché avevo bisogno di fare un film che fosse bello e sembrasse costoso: ormai ero lo stereotipo del regista di film a piccolo budget. Il film doveva essere realizzato in Portogallo. Poi non si poteva e andammo in Italia. Stavamo per iniziare a girare ma Roger mi chiamò e disse che costava meno farlo in Messico. Il fatto è che, in quel periodo, la compagnia di Roger stava fallendo. La New World stava perdendo soldi a velocità spaventosa e lui tagliava tutti i film a settantadue minuti per risparmiare sul costo della stampa. Finimmo Sorceress poco prima che Roger vendesse la New World. Così, invece di farne un grosso film, eliminò tutto: non volle realizzare gli effetti speciali, quelli sonori, le musiche... Per questo tolsi il mio nome dal film. E quella fu la mia ultima regia.

Perché hai smesso?

Non sono mai stato un regista molto ambizioso. Se vuoi avere una carriera vera e propria devi amministrarla, fare le cose giuste, avere l'agente giusto. Mi divertivo e basta. Facevo un film e poi me ne andavo in Europa per una lunga vacanza. Senza contare che realizzavo un certo tipo di film e, ad un certo punto, quei film sono passati di moda. È vero, ho cercato di vendere film più grossi e più seri, all’inizio degli anni ottanta... Ho anche scritto delle sceneggiature che sono state opzionate, materiale che poteva servire a raccogliere dei soldi. Ma quella è una storia complicata di cui non voglio parlare. Poi, nel 1980, io e mia moglie abbiamo incontrato una persona, il guru Swami Muktanamada, che ha cambiato la nostra vita, completamente. Quando è morto, il suo successore mi ha detto di scrivere romanzi. Così ho cominciato a lavorare ad una serie molto ambiziosa di romanzi che sto ancora scrivendo. Presenterò il primo ad un editore non appena finito. Per ora voglio che nessuno mi dica come e cosa scrivere. A questo punto, i romanzi sono l’unica cosa che voglio fare. A meno che qualcuno non mi chiami con un’idea veramente buona.

Intervista a Doris Wishman[modifica | modifica sorgente]

a cura di Andrea Juno, da <<Incredibly Strange Films>>, Re/Search 1986

Come dicevo... la mia vita non è molto interessante.

I suoi film però sono interessanti... Quando ha cominciato?

Circa vent'anni fa. I miei primi film erano film sui campi di nudisti. Poi sono passata ad altre cose, come commedie e drammi. Adesso sto facendo il mio primo «horror».

Come ha cominciato coi film sui nudisti?

Lavoravo nella distribuzione. Poi, quando mio marito è morto, ho deciso che avrei fatto qualcosa di totalmente diverso, che mi tenesse sempre occupata. Non sapevo cosa facevo quando ho cominciato a produrre. Certo, una volta finito il primo film, sapevo dove andare... ma realizzarlo è stato molto difficile.

Aveva una troupe?

Si, ma facevo praticamente tutto da sola. Eccetto che per le riprese e il montaggio, perché sono molto goffa quando uso le mani.

Come conosceva i nudisti? Li ha cercati? Era una nudista anche lei?

No, infatti ero piuttosto stupefatta la prima volta che sono andata in un campo, anche se la gente era meravigliosa. La donna che gestiva il posto disse che anche tutti quelli della troupe dovevano essere nudi. Io risposi che non se ne parlava nemmeno, Così noi rimanemmo gli unici vestiti. É stata un’esperienza interessante. Tutti erano molto gentili e collaboravano volentieri.

Come reagiva la gente davanti ad una donna che lavorava in un'industria in gran parte dominata dagli uomini?

All’inizio erano abbastanza sorpresi. Era una novità. Oggi, certo, le donne sono inserite come gli uomini. Personalmente trovavo la cosa molto eccitante, una sfida: sono un’attrice frustrata, il che aiuta. Però non posso dire altro, se non che ho lavorato molto duro. Non penso di il aver avuto successo, perché non ho fatto molti soldi e, a questo punto, quello è mio unico metro.

Quando è stato realizzato Bad Girls Go to Hell?

È piuttosto vecchio, sette anni fa.

Sa dove sono molti dei suoi film oggi?

No, perché ne ho venduti la maggior parte e, una volta venduti, non mi interessano più.

A chi li vende in genere?

A distributori.

Non ci ha guadagnato molto?

Andava bene fino a quando ho fatto una commedia. Quello è stato il bacio della morte. Basta con le commedie. Questo è sicuro.

Qual'è il genere che funziona di più per lei?

L’exploitation.

Le sceneggiature dei suoi film partono da lei?

Sì. Le scrivo, poi le dirigo, scelgo il cast, la troupe, il posto... Quasi tutto. Anche se non monto personalmente, so cosa voglio. Non posso solo usare la cinepresa, anche se mi piacerebbe.

Double Agent 73... C'era qualcosa di meraviglioso nell’idea...

Era molto difficile lavorare con Chesty Morgan. Grazie a questo film ha fatto un sacco di soldi: appare in locali notturni e guadagna moltissimo.

Perché il film l’ha fatta conoscere?

Certo! Quel film ha incassato bene. Infatti, se non fosse per quella commedia, adesso sarei OK.

Di che anno è la «commedia»?

Di circa cinque anni fa. Noi credevamo che fosse divertente. Ma eravamo gli unici e, ovviamente, ci sbagliavamo. È parte del gioco. Mi piacerebbe poterle dire qualcosa di più interessante.

Quanti film ha fatto Chesty Morgan?

Due, il secondo si chiamava Deadly Weapons. Ma non era buono come Double Agent 73.

Che storia era?

L’amante di Chesty Morgan viene ucciso da alcuni gangsters. Lei li scova e li uccide soffocandoli con il suo seno. Era un trucco, perché nel film non c’erano scene di sesso. Bisognava pur metterci qualcosa...

Adesso sta facendo A Night to Dismember...

Sì, lo sto finendo, ma cambierò il titolo. Lei come ne ha sentito parlare? Non è nemmeno finito e l’ho già cambiato quattro volte...

Quando lo ha cominciato?

Due anni fa... ma sono sorpresa che lei sappia il titolo.

Ha mai usato pseudonimi? È vero che ha scritto una sceneggiatura sotto il nome Dawn Whitman?

Che film era? Non mi ricordo.

The Amazing Transplant. E' uno script suo?

Sì, la sceneggiatura era mia, come la regia. Faccio così in tutti i film. Ma ho usato un altro nome perché si fa una figura migliore. Non è saggio firmare tutto.

Fa così anche Hershell Gordon Lewis...

Sì, tutti fanno così.

Quale pensa che sia oggi il ruolo delle donne nel cinema?

Un ruolo certamente eccitante anche se penso che le donne, in certi campi, siano meno capaci degli uomini.

In che campi?

Dipende. Non credo dovrei parlare in questo modo. Tutte le donne mi attaccheranno. Io credo però che gli uomini abbiano più iniziativa... Le donne sono molto più caute... devono esserlo... Suppongo di non credere per niente nella liberazione della donna.

Cosa significa per lei liberazione della donna?

Le donne diventano indipendenti se possono fare il lavoro di un uomo, e credo che debbano essere pagate nello stesso modo. Ma non penso che una donna possa sempre fare il lavoro di un uomo. D’altra parte, un uomo non sempre può fare il lavoro di una donna. Il che pareggia le cose.

Ma allora, come si sente rispetto al suo lavoro? Molti uomini sostengono che una donna non debba dirigere film di sexploitation?

Parla di sexploitation ma è scorretto: i miei film non erano considerati sexploitation. Double Agent e Deadly Weapons non hanno sesso. In The Amazing Transplant ce n’è molto poco. Comunque, per quanto riguarda il sesso, gli uomini e le donne sono alla pari. Quindi la sua affermazione non ha valore. Quello che io e altre donne facciamo lo può fare chiunque abbia talento. Il sesso non c’entra. Comunque io ho altri problemi e non sono interessata alla liberazione delle donne. Assolutamente.

È sposata?

Non in questo momento.

Dipende solo da lei?

Certo, e mi piace. Quali sono i suoi budget? Per esempio, quanto è Transplant?

Mi sembra solo 250.000 dollari. Una cifra ritenuta bassa, ma è perché faccio tutto da sola e non mi prendo una paga vera e propria. Solo quello di cui ho bisogno.

E A Night to Dismember?

Quello sarà un pò più costoso. Ma, non avendolo finito, non ne sono sicura.

Ci sono effetti speciali?

Sì, certo. Oggi bisogna averli. A meno che tu non faccia un film del terrore. Che è una cosa diversa. In questo film c’è molto sangue, ma è quello che il pubblico vuole e, se sei nel business, devi dargli quello che vuole. Sempre che tu ne abbia il coraggio.

Tutte le trame le inventa lei?

Sì, è solo immaginazione. E poi le sviluppi. A volte hai solo un titolo e gli lavori intorno. È una cosa che ho fatto spesso... ridicola, ma lavoro così.

Può dirci un titolo?

A Night to Dismember. Il titolo è arrivato prima. The Amazing Transplant... beh, la maggior parte dei miei film.

Crede che la gente possa dire se c'è una donna dietro ai suoi film?

No. Sanno se gli piace o meno, se è bello o no. Il resto, come potrebbero capirlo?

Adesso che si è aperto un mercato per l'hard core, qual è la commerciabilità della sexploitation soft core?

Francamente io credo che non ci sia nessun mercato per il soft core e io non so cosa farò dopo questo film. Non ne ho la più pallida idea e non penso al futuro. Ma non credo che ci sia più un mercato per quei film.

Farebbe hard core?

No. Non che disapprovi, ma non credo che sarei capace. Beh, potrei. All’inizio pensavo che fosse orribile, ma non lo è. Se non vuoi andare a vedere un film non andarci: nessuno ti obbliga. Se vuoi andare a vedere un hard core vacci. Ma io non faccio quei film.

Quindi se A Night to Dismember sarà un successo, potrebbe concentrarsi sull’horror?

Non lo so, non ne ho la più vaga idea. Normalmente starei pensando ad altri dieci film. Ma adesso mi concentro su uno fino a che non ho finito.

Quali sono i suoi interessi oltre al cinema?

Sto scrivendo un romanzo e adesso quello è il mio hobby. Ogni volta che ho un minuto libero scrivo. È una storia meravigliosa. La chiamerò In a Dark Corner.

E' gotico o horror?

Non è horror. Riguarda la vita di molte persone e ha un finale insolito, fantastico, molto diverso. È semplicemente... non posso descriverlo. Si piange un po’ eppure non è un dramma. C’è un po’ di love story. Naturalmente un pò di sesso (che mi riesce difficile scrivere, non so perché) ed è proprio bello. Almeno io lo penso, sennò non lo scriverei.

I film[modifica | modifica sorgente]

Living Pictures[modifica | modifica sorgente]

di Antonio Costa

Cinema e teatro - scrive Julian Beck in Theandric - sono come l’acqua e l’olio: «They don't mix but co-exist». Una coesistenza, dunque, in cui ogni elemento conserva la sua identità. E tuttavia gli anni sessanta, quando avvengono i primi fondamentali incontri del cinema con l’esperienza del Living, sono anni di febbrile interazione tra arti visive, musica, cinema e teatro: come sempre nelle stagioni più vive dell’avanguardia, il superamento delle divisioni settoriali sembra imminente, a portata di mano, in un progetto di fuoriuscita dell’arte dalla sua separatezza, di fusione delle arti nell’immediatezza della vita. Scegliendo come sottotitolo per questa retrospettiva «Cinema & video per il Living Theatre» si è voluto mantenere chiara la distinzione tra mezzi differenti, facendo però affidamento sulla ambiguità, sulla pluralità di significati della preposizione «per». Il primo e più ovvio significato è quello della resa di un servizio, magari umilmente, onestamente riproduttivo. Cinema e video guardano al teatro come a un evento da riprendere. Sappiamo che il fatto teatrale, il testo-spettacolo - in tutta la complessità delle loro determinazioni e nell’unicità del loro accadere-manifestarsi - sono irriproducibili. Ma è appunto la coscienza dell’unicità e dell’irripetibilità dell’evento che costituisce una sfida per il cineasta. E proprio perché testimonia di uno sguardo coinvolto nell'evento (e questo sguardo non può non lasciare tracce nelle forme stesse della ripresa) che il cinema finisce per dirci qualcosa di se stesso nel momento in cui ci fa «sentire» lo sguardo filmico a ridosso del fatto teatrale. Per significa anche passaggio attraverso: l’espressione filmica passando coscientemente attraverso la rivoluzione teatrale del Living ne viene per così dire modificata, coinvolta in un processo di rinnovamento. Certo, non tutto il cinema che si è fatto sul/col Living è passato attraverso una conseguente e radicale rivoluzione linguistica. E tuttavia, da Shirley Clarke ai fratelli Mekas, da Leonardi a Bertolucci, nell'incontro del cinema con il Living, in questo passare attraverso, si prefigura il disegno (forse impraticabile, ma generosamente perseguito) di una fusione tra la corporeità dell’espressione teatrale e l’«ontologia» dell’immagine cinematografica. Un altro significato oscilla tra il vantaggio e l’uso strumentale. Certo alcuni tra più citati (se non visti) film dell’underground hanno contribuito a dilatare, a amplificare, a conservare il mito (e la memoria) del Living. D'altra parte, Hollywood ha saputo ornare «film commerciali di prestigio» (Quadri) con splendidi cammei di Julian e Judith, vere e proprie citazioni di una stagione ancor viva nel ricordo di molti, oltre che performance di grandissima presa. Nelle recensioni della stampa italiana non mancano certo testimonianze del perdurare di questa memoria: per esempio, a proposito di Cotton Club (1984) di Coppola si parla di un silenzioso Julian Beck che «si porta dietro tutta la storia del Living Theatre in un ‘cammeo’ da Oscar (ma non glielo daranno)» (Kezich); a proposito di Dog Day Afternoon (1975) di Lumet, non si trascura di segnalare quanto riesca a fare «in pochi attimi che le bastano, l’im- mensa Judith Malina» (Castellano). Reciproco - intendiamoci - è il gioco del dare e dell’avere, come nota Julian Beck nel suo diario quando a proposito delle sue ultime prestazioni cine-televisive scrive: «Faccio questi film e queste cose in televisione per raccogliere denaro per far partire un teatro». E quindi un rapporto complesso, problematico tra cinema e teatro, tra mezzi come il cinema e il video e la vicenda artistica e morale del Living, di Julian Becke di Judith Malina, che viene proposto in questa retrospettiva. Del resto è lo stesso contesto di Anteprima che induce a trasporre sul piano del presente ogni ricerca d’archivio (come già è av- venuto l’anno scorso con Alberto Grifi), magari per verificare sull’oggi la possi- bilità e la necessità di nuovi, più stretti rapporti tra diversi settori di espressio- ne. E de tuttavia, lo sguardo retrospettivo ten- fatalmente a essere istituzionale, celebrativo, «storico». Il pericolo si ac- centua oggi che siamo in prossimità del centenario (del cinema) e in pieno trentennale (degli anni sessanta). Ma perché rinunciare a percorsi alternativi? Dopotutto, in tempi recenti e proprio da un cinetecario (Dominique Paini), ci è venuta una riflessione sui rapporti tra la «mise en scène muséale» e alcuni dei punti di riferimento essenziali all’av- ventura artistica e teorica di questo se- colo (che coincide con il primo secolo del cinema): un’avventura in cui tro- viamo Jean-Luc Godard accanto a Marcel Duchamp, Henri Langlois ac canto a Roland Barthes e John Cage. Dai «teatri della memoria» di Joseph Comell ai flussi elettronici di Nam June Paik (con i suoi ritratti di John Cage, Allen Ginsberg, Julian Beck... ) e alle notti «immateriali», after hours, di En- rico Ghezzi, sono vari i modelli per praticare la soggettività dichiarata e esi- bita, il distacco ironico, le virtù insieme mitopoietiche e critiche di quella «mise en scène muséale» teorizzata da Paini, per cui il mostrare intrattiene relazioni con l’invenzione e con l’interpretazio- ne. Modi da non dimenticare nel ripercorrere la storia del Living, una storia che, come ci ricorda il saggio di Cristina Valenti che apre questo catalogo, dura da mezzo secolo. Una storia che certo non finisce con gli anni sessanta, ma che al tornante del suo decennio conclude sicuramente un ciclo. Lo aveva perfettamente compreso Pier Paolo Pasolini in una sua corrispondenza da New York dedicata al Living (aprile ’69). Si tratta di una pagina piena di affetto e tenerezza per Julian Beck, già interprete in Edipo re di uno «splendido» Tiresia, «dolente e immemore di fronte al mistero della sfinge» (Ferrero). Ma c’è anche in quel testo una lucida, dolorosa consapevo- lezza delle insormontabili difficoltà cui va ormai incontro un «rito estetico che vuol farsi pragmatico». AI di là di pos- sibili riferimenti alla propria scelta di un «teatro di parola» contro il teatro «del gesto e dell’urlo», Pasolini individua le cause dì queste difficoltà soprattutto nella «crescita smisurata dei destinatari». Questo certo significa che il messaggio è giunto a destinazione, che ormai una certa «rivoluzione» si è compiuta: nel teatro, nel costume, negli atteggiamenti I film della retrospettiva: The Brig (1964) di Jonas Mekas The Connection (1961) mentali. Ma significa anche che è co- minciato il tempo di una nuova ricerca, per mantenere vive e intatte le ragioni di un metodo e di un progetto. Questa retrospettiva di cinema e video per il Living Theatre allinea accanto a film «mitici» dell’underground ameri- cano e europeo riprese (a volte anonime in tutti i sensi) di spettacoli fatti in epo- che diverse. Si è cercato di raccogliere tutto ciò che è disponibile, compatibil- mente con la ristrettezza dei mezzi a disposizione. L’incuria delle cineteche e la dispersione-degrado dei materiali non sempre permettono di vedere tutto, e di quello che resta non tutto in condi- zioni ottimali. Alle carenze della pro- grammazione abbiamo cercato, almeno in parte, di supplire mettendo a disposi- zione perla consultazione tutti i materiali finorareperiti, un montaggio di citazioni curato da Enrico Ghezzi e, naturalmen- te, una filmografia/videografia assai più ampia di ciò che risulta attualmente vi- sibile.

da rivedere per errori e completare con la filmografia della rassegna

Premi[modifica | modifica sorgente]

  • Premi Casa Rossa regia del miglior film: Bruno Bigoni per Veleno; migliore attrice protagonista: Penelope Cruz per La ribelle di Aurelio Grimaldi; miglior attore protagonista ex aequo: Renato Carpentieri per 80 MQ di AAW e Carlo Colnaghi per Veleno di Bruno Bigoni;
  • Gabbiano d'oro a Oreste a Tor Bella Monaca di Carolos Zonars;
  • Gabbiano d'argento ex aequo a Tutti i giorni si di Daniela Bortignoni e Edi Liccioli e Poco più della metà di zero di Agostino Ferrente;
  • Concorso Tre minuti a tema fisso - Diavolo ex aequo a Tragic Band di Sergio Porro e 005-XXX-XXX di Marco Bragaglia

Note[modifica | modifica sorgente]

  1. E' possibile scaricare il catalogo da qui.