1999

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Associazione Cinema dell’Adriatico[modifica | modifica sorgente]

Comuni di Bellaria Igea Marina,Cattolica, Rimini

  • Consiglio di amministrazione: Mauro Conti (Presidente), Mara Garattoni, Pierpaolo Parma
  • Direttore: Gianfranco Miro Gori
  • Segretario: Antonio Tolo

Adriaticocinema[modifica | modifica sorgente]

Festival di Bellaria Igea Marina, Cattolica, Rimini

4 - 12 giugno 1999 (Bellaria Igea Marina e Cattolica) autunno 1999 (Rimini)

Col contributo di: Ministero per i Beni e le Attività Culturali — Dipartimento dello spettacolo, Regione Emilia Romagna — Assessorato alla Cultura, Commissione Europea, Programma Media II, Coordinamento europeo dei festival

Curatori[modifica | modifica sorgente]

Locandina Adriatico Cinema, 1999
  • Cinema italiano: Mario Sesti e Dario Buzzolan
  • Cinema internazionale: Mario Sesti, Leonardo Gandini, Giacomo Martini
  • Mestieri del cinema: Antonio Costa
  • Consulente: Fabrizio Grosoli
  • Coordinamento organizzativo e relazioni esterne: Angela Leone
  • Segreteria, ricerca film, incontri: Alessandra Fontemaggi
  • Segreteria e amministrazione: Anna Lisa Fontana
  • Documentazione e catalogo: Giuseppe Ricci, Marco Leonetti
  • Segreteria a Cattolica: Simonetta Salvetti
  • Addetto Stampa: Studio Nobile-Scarafoni
  • Addetto stampa locale e regionale: Paolo Pagliarani
  • Servizi tecnici e allestimenti: Edo Zangheri, Nevio Semprini
  • Ospitalità: Rossana Ronconi
  • Servizi tecnici e allestimenti a Cattolica: Giovanni Ubalducci
  • Servizi tecnologici a Cattolica: Marino Ercoles
  • Grafica e immagine: Enzo Grassi — Colpo d’Occhio
  • Viaggi: Gran Tour, Stefano Cecchini
  • Trasporti internazionali: Massimo Toreti — International Movie Service
  • Consulente amministrativo: Monica Zanzani
  • Quotidiano di Adriaticocinema: Giuseppe Ricci, Catia Donini, Sergio Fant, Andrea Meneghelli, Rinaldo Censi, Carlo Durante, Silvia Fessia, Lorenza Pignatti
  • Interpreti: Emanuela Cotronei, Paola Paolini, Viviana Pozzolini, Mariachiara Russo, Maura Vecchietti
  • Proiezioni: Brenno Miselli, Angela Miselli, Mario Ferretti, Ugo Baracchi, Stefano Pini
  • Conduttore serate e incontri: Maria Pia Fusco, Carlo Gentile
  • Giuria Adriaticocinema: Claudio Bisoni, Carlotta Cabrini, Mirco Melanco, Simone Pellegrini, Vincenzo Cascone, Vanni Borghi (rappresentate Agis-Fice), Roberto Roversi (rappresentate Agis—Fice), Francesca Airaudo (segretaria)

Prefazione[modifica | modifica sorgente]

di Mauro Conti (presidente), Gianfranco Miro Gori (direttore)

Adriaticocinema è un festival nuovo e, allo stesso tempo, antico. Ha appena due anni di vita. Eppure se a questi si sommassero i diciotto anni del Mystfest, i quindici di Anteprima, i dieci di Riminicinema, Adriaticocinema avrebbe la veneranda età -intesa in senso festivaliero- di sette lustri: sarebbe insomma il più vecchio in Italia dopo Venezia. L'eredità dei tre festival precedenti, d'altra parte, non è inerte. Non resta solo nel ricordo. Ma si trasfonde, si è trasfusa viva in Adriaticocinema. A Marco Bellocchio, direttore della prima edizione, va l’indiscutibile merito di averimposto un nuovo “marchio” e aperto nuove “vie dei festival”: lui, autore famoso, cimentandosi con passione nel lavoro di organizzatore di cultura. Di tutto ciò -noi che abbiamo lavorato con lui- desideriamo rivolgergli un pubblico ringraziamento. Adriaticocinema 1999 risulta diviso, dal punto di vista temporale, in due parti. La prima si svolgerà tra Bellaria Igea Marina e Cattolica (4-12 giugno), esplorando rispettivamente il cinema italiano e quello internazionale. La seconda a Rimini, nel prossimo autunno, concentrandosi sui mestieri del cinema. Il nostro principale impegno è costruire un nuovo rapporto col pubblico: aprire la nostre porte anche ai non addetti ai lavori; e costituirci come istituzione formativa che lavori in permanenza (lo spiegano nelle pagine che seguono Mario Sesti e Antonio Costa). Augurandoci che i diversi pubblici ai quali ci rivolgiamo apprezzino il nostro sforzo, non ci resta che augurargli buon divertimento.

Bellaria Igea Marina: il cinema italiano[modifica | modifica sorgente]

Il cinema italiano[modifica | modifica sorgente]

di Mario Sesti

E’ possibile oggi ideare un festival intenzionato a battere in maniera non convenzionale il territorio del cinema italiano senza porsi un’altra domanda fondamentale: cos'è un festival, oggi? Questa riflessione è stata il punto di partenza che ha guidato la definizione della sezione italiana di Adriaticocinema che si svolge a Bellaria Igea Marina. L'edizione dell’anno precedente, guidata da Marco Bellocchio, ha avuto il merito di rimettere in questione l’assetto tradizionale di un modello di festival cresciuto e diffusosi in Italia negli ultimi anni. Quella di quest'anno intende mettere a frutto molte delle indicazioni che l’edizione precedente ha messo in luce. Esiste un pubblico dei festival di composizione più segmentata e molteplice di quella che tradizionalmente i festival sapevano di dover fronteggiare. Un festival è un luogo dove passa il cinema di nuova concezione ma anche dove è possibile incontrare chi fa il cinema. Dove si può essere spettatori specializzati ma anche spettatori alla ricerca di esperienze come incontri, seminari, pratiche di comunicazione, crescita culturale e formazione professionale che attualmente né le istituzioni, né il mercato, né la scuola sono in grado di fornire. Sulla scorta di queste riflessioni, l’idea di base è stata quella di ridisegnare Anteprima che si era costruito, soprattutto tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, una solida fama di vetrina e palco del cinema indipendente italiano, alla luce di una contesto assai mutato, sia al livello del mercato sia a quello dell’evoluzione dei festival in Italia. Come tutte le cinematografie europee, il cinema italiano sconta un handicap di partenza ed è soggetto ad una sorta di apartheid linguistica e commerciale che si trasforma in una diffidenza verso il prodotto italiano in sala che tutti conosciamo. D'altra parte, la proliferazione dei festival ha fatto sì che il cinema inedito a disposizione da far vedere in anteprima, si sia ridotto in termini che non consentono a tutti festival esistenti di potervi attingere. L'obiettivo è quello di affrontare e conoscere meglio questo paesaggio: tradizionalmente i festival si rivolgono a chi fa parte o del cinema o di coloro che ne scrivono, o lo studiano, o, più in generale, si occupano dell’informazione su di esso. Adriaticocinema, vorrebbe essere il primo festival che apre le porte ai non addetti ai lavori. Un luogo, dunque, che non sia soltanto una vetrina di ciò che la critica, da una postazione privilegiata, è in grado di avvistare e offrire all’attenzione di una platea specializzata, ma anche uno spazio d’incontro tra due etnie, il pubblico della sala e la comunità del cinema (autori, tecnici, giornalisti) che si frequentano di rado e malamente. Per queste ragioni, il lavoro è stato innanzitutto di inoltrarsi in un territorio quasi sconosciuto, quello degli spettatori, e attivare alcune sperimentali operazioni di reclutamento: attraverso le scuole (che sono state coinvolte dai primi mesi dell’anno con proiezioni di autori che saranno presenti nei giorni del festival), attraverso organi di comunicazione (abbiamo organizzato con un quotidiano una sorta di referendum invitando i lettori a esprimersi sull’oggetto del nostro festival per poi invitarli a partecipare), attraverso il coinvolgimento di registi, sceneggiatori, tecnici, che parteciperanno alla manifestazione e agli incontri che vi si terranno. Quale sarà la loro struttura? Una volta il cinema italiano era una capacità misteriosa di documentare l’evoluzione di un paese (dal neorealismo alla commedia all’italiana) ma anche una vocazione naturale a cercare un nuovo linguaggio del cinema (da Rossellini a Pasolini, da Antonioni a Bertolucci, da Moretti ad Amelio). Una naturale capacità di racconto - che ci veniva invidiata all’estero, anche in paesi come la Francia e gli Stati Uniti che hanno una tradizione cinematografica illustre almeno quanto la nostra e soprattutto un innato istinto per la commedia che ha reso il nostro humor inconfondibile ovunque. Gli incontri cercheranno di affrontare; ognuno di questi temi utilizzando lo strumento privilegiato di alcuni classici del cinema italiano e di autori contemporanei ché di essi parleranno: Francesca Archibugi, Paolo Virzì, Mimmo Calopresti, Marco Bellocchio, Mario Monicelli e altri anco saranno in sala a parlare di alcuni classici del cinema italiano ma anche dei loro film. Dialogheranno e leggeranno grandi film italiani che rappresentano in maniera sintomatica quegli aspetti fondamentali del cinema italiano cui abbiamo accennato: Rocco e i suoi fratelli di Visconti, L’avventura di Antonioni, La grande guerra di Monicelli, tutti film realizzati nel 1960, una stagione che oggi, a quaranta anni di distanza, non è più semplicemente una fase di correnti o tendenze da celebrare ma un patrimonio la cui memoria è fortemente indebolita da una congenita rimozione che la pressione mediatica e la debolezza dei processi di trasmissione della scuola, della cultura, dell’industria del cinema hanno ampiamente diffuso nelle nuovi generazioni. Che amano il cinema ma, a differenza delle generazioni che lo amavano in passato, conoscono poco del cinema che li ha preceduti. Questi registi parleranno del loro mestiere e della loro idea del cinema ma anche in che maniera l’identità italiana sul grande schermo sia racconto e testimonianza, incapacità di accettare le cose come sono, ricerca di forme sconosciute sul grande schermo, tendenza quasi genetica a ridere anche dei difetti più incorreggibili: la novità è che nonlo faranno più semplicemente di fronte a personalità o critici, colleghi o giornalisti che frequentano il festival, ma di fronte a un pubblico fatto anche di spettatori appassionati, studenti, insegnanti, colleghi e anche e soprattutto, speriamo, di semplici curiosi. Sappiamo che esiste una profonda e diffusa esigenza di conoscenza del cinema come mestiere e stile di comunicazione, tecnica ed estetica, ed è su questa domanda, perlopiù elusa, che vorremmo iniziare a lavorare facendo del festival il momento di maggiore luminosità di una attività permanente destinata a svolgersi nel corso dell’intero anno. Questa impostazione integrerà quelle che sono le tradizioni del festival e alle quali Adriaticocinema non intende rinunciare. La selezione di un cinema italiano di ogni forma e produzione, durata e formato, narrativo e documentario che da sempre ha trovato a Bellaria Igea Marina il suo spazio naturale di presentazione. Così come lo ha avuto, da sempre, l’attenzione critica che ha segnalato con il premio “Casa Rossa” il film italiano giudicato di maggiore interesse da una giuria di critici consultata nei mesi scorsi. La nostra idea di un festival capace di lavorare con la maggiore spregiudicatezza possibile sul cinema italiano oggi, è quella di una manifestazione in cui si possa passare dalla scoperta del corto inedito e sconosciuto alla riscoperta di un classico che il pubblico non rivedeva in sala da chissà quanti anni. Il cinema italiano di oggi ha un bisogno urgente di entrambe le cose.

Concorso Adriaticocinema - Banca Nazionale del Lavoro[modifica | modifica sorgente]

Fuori concorso[modifica | modifica sorgente]

Premio Casa rossa[modifica | modifica sorgente]

Il referendum del premio “Casa rossa” è una delle tradizioni del festival di Bellaria Igea marina che l’edizione di Adriaticocinema di quest'anno ha ripristinato. Nato come strumento per la segnalazione del cinema italiano indipendente, ha visto quest'anno un’ampia partecipazione della comunità della critica specializzata alla quale è stata sottoposta una rosa più eclettica e versatile di titoli, entro i quali la differenziazione tra cinema indipendente e non era assai più sfumata di quanto fosse accaduto nelle precedenti stagioni: la difficoltà di produzione e diffusione del cinema italiano negli ultimi anni rende spesso indipendenti (rispetto al mercato, alle rigide tendenze del cinema commerciale, alla debolezza industriale) film di normale produzione che non nascono scegliendo di esserlo. In questo senso, il premio è anche un modo per rispondere ad una domanda che la manifestazione di Bellaria Igea Marina si è sempre posta, sin dalla nascita: cos'è, oggi, l’indipendenza? I film che hanno vinto e che sono stati segnalati dal referendum sono una risposta concreta a tale domanda. L'indipendenza non si può più misurare soltanto sui modelli produttivi entro i quali la mancanza delle risorse necessarie e la ricerca di autonomia nella progettazione e distribuzione dei film tocca, anche se in misura diversa, autori affermati e giovani al loro esordio, film di genere e opere di sperimentazione. L’indipendenza, invece, sia nel film vincitore, Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni - che si è fatto strada presso il pubblico anche se veicolato da una distribuzione limitata - sia in quello che segnaliamo per le preferenze raccolte, Tre storie di Piergiorgio Gay (che ancora non ha raggiunto le sale), sembra intuitivamente essere uno. stile che coniuga, da un lato, la capacità di comunicazione di un racconto non convenzionale, la sensibilità e la precisione nel l’analisi dei personaggi e un linguaggio attento, capaci di trasmettere controllo è partecipazione; dall’altro, la rigorosa volontà, da parte degli autori, di non concedere ai loro film nulla di cui prima non siano riusciti a convincere gli spettatori. C’è, insomma, nelle due pellicole che segnaliamo, un’idea d'indipendenza che i film innanzitutto si guadagnano in sala: indipendenza dal gusto corrente, dalla scelta di personaggi e storie ammiccanti, dall’obbligo dell’autobiografismo, ma non indipendenza dal rispetto dell’attenzione di un pubblico, dalla ricerca di una forma non adagiata sui codici correnti - in una parola - dal cinema.

Film[modifica | modifica sorgente]

Premio tre minuti a tema: Rissa[modifica | modifica sorgente]

  • Alla guerra di Benedetto Parisi
  • Argine d’assenza di Luca Stringara
  • Basta ragiona’...! di Lauro Crociani
  • Chi lo fa lo aspetti di Gianni Gozzoli, Gabriele Turci
  • Dallas 22 nov. ND. 1963 di Nadia Ranocchi, David Zamagni
  • The Final Countdown di Sergio Martinelli, Leonardo Perrone
  • Il gioco favorito di Fabrizio Varesco
  • Il giudice di linea di Daniele Vital
  • Golden gol di Aniello Grieco
  • Homo homini lupus di Maddalena Papini, Melania Zucchi
  • L’immagine della Rissa di Alessio Fattori
  • Lost Vision di Matteo Massimo Valenti
  • Maastricht di Maria Rosa, Marino Rore
  • Me’ mo’ ie’ di Luca Michele Cirasola
  • N di Paolo Pisanelli
  • Neosituazionalismo di Alberto Di Cinto
  • Non è successo niente di Stefany Giovagnoni
  • Per Elisa di Norman Divovic
  • Per finta di Daniele F. Caporali
  • Il punto di vista di Francesco Pepe, Alessandro Pepe
  • La quiete dopo la tempesta di Alessandro Maggia
  • Respira di Maddalena Papini, Melania Zucchi
  • Rissa di Marco Vitali
  • La rissa di Mara Bartolomucci, Stefania Soellner
  • “Rissa” allo specchio di Luciano Galluz
  • ‘A sciarra di Alessandro Grimaldi
  • Scorie di Giovanni Raggi
  • Senso civico di Stefano Bon
  • Signori e signori gli sposi di Alessandro Cutolo, Maurizio Braucci
  • Spaghetti all’arrabbiata di Giovani Martinelli
  • Steack & Chips di David Zamaggi, Nadia Ranocchi
  • Violenza di Enrico Heriz Gorini
  • La violenza in diretta di Stefano Salvatori

Claustrofobia/ claustrofilia[modifica | modifica sorgente]

di Mario Sesti e Dario Buzzolan

Lo spazio chiuso attraversa la filmografia di alcuni tra i maggiori autori italiani: quella di Bertolucci, che da Ultimo tango all’Assedio ha dimostrato come si possa fare grande cinema in pochi metri quadrati delimitati da quattro mura; o quella di Tornatore, che con Nuovo cinema paradiso ha girato un film quasi completamente in un cinema, e in La leggenda sul pianista sull'oceano non è mai sceso dalla nave-universo del suo protagonista. Ma spazi chiusi affiorano in continuazione anche nella produzione d’esordio e nell’immaginazione dei registi che hanno iniziato a fare film negli anni Novanta. Se il più grande poeta dell’erramento urbano, Pasolini, scolpisce simbolicamente la fine del proprio cinema nella claustrofobia di Salò, tra gli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta l’idea di escludere con determinazione l’invasione del mondo esterno si salda con le ristrettezze produttive, in una sorta di irreparabile e sorda reazione all’onda lunghissima di un cinema che -dalle piazze del boogie woogie nel dopoguerra a quelle delle manifestazioni di piazza degli anni Settanta- aveva collocato la macchina da presa innanzitutto all’aria aperta: tutto il cinema italiano da più di quindici anni a questa parte, indipendente e non, pullula di film condominiali, arcipelaghi lontani dalla terra ferma, bicamere e cucina - ma anche di scorci urbani ridotti e opprimenti, tanto privi di vie di uscita da configurarsi immediatamente come tanti “dentro” contrapposti senza possibilità di comunicazione a irraggiungibili “fuori” -, unendo l’ossessione dell’isolamento, magmatico fantasma dell’inconscio collettivo, con il mito dello spazio chiuso, della “casa” come luogo protettivo e autosufficiente. Questa essenziale retrospettiva di corti, che si allunga su più di un decennio di produzione, dimostra come questa idiosincrasia possa essere radicata anche nell’immaginario occasionale, selvaggio, poliforme del cinema di breve durata, fatto di sperimentazione, latenza produttiva e libertà congenita. Anzi, proprio il fatto che appaia disseminata, sotto gli aspetti più disparati, anche nell’area del corto, priva di istituzioni o condizionamenti, dimostra quanto profonde possano essere le sue radici. E’ un’ossessione più forte della scelta di un genere (commedia o horror, dramma psicologico o apologo assurdo), si incarna in qualsiasi spazio (una casa come una metropolitana, un cortile come un quartiere), si adatta a qualsiasi linguaggio (a quello dell’incubo e del sogno come a quello documentario, al piccolo realismo domestico come alla fantasmagoria d’animazione). La reclusione, spesso volontaria, sembra perlopiù il mezzo per affermare una drammaturgia ambigua e a tratti sofferta attraverso cui porre un problema senza soluzione: le quattro mura (reali o metaforiche) sono un esclusione di tutto ciò che non si può accettare o modificare, o una condizione imposta da qualcuno o qualcosa contro cui è inutile opporsi? Lo spazio chiuso è un riparo o una prigione, l’unico luogo dell’onnipotenza dell’immaginazione o la tana in cui si rimane bloccati per sempre da un assedio perenne? L’ambiguità di questa scena è testimoniata dall’ambivalenza in cui essa spesso è collocata: un mondo che si rivela uno studio televisivo (Ketchup), un campo da gioco che è anche il cortile di un luogo kafkiano di detenzione (The Pit), una casa dell’infanzia che si trasforma nell’antro di una mamma-strega che condanna il figlio alla prigionia dell’oblio (No, mamma no), una rassicurante camera da letto che si rivela l’orlo di un baratro (Dimmi qualcosa di te); ma anche una periferia che risulta più soffocante e costrittiva della più angusta delle stanze (Rea! Falchera). Confinati tra una sala da pranzo e un balcone, esiliati in una villa o in un ascensore, gli sguardi e i personaggi di questo cinema frammentato, allusivo, ora sarcastico, ora minacciosamente allegorico, ripetono nelle inquadrature strette, nelle profondità limitate, nelle scenografie elementari e ricorrenti, questo mito di amore e terrore per gli spazi chiusi che scorre nelle profondità del cinema italiano delle ultime stagioni.

Film[modifica | modifica sorgente]

  • No, mamma no, da 80 metri quadri di Cecilia Calvi
  • Binari di Carlotta Cerquetti
  • La casa fuori misura di Giulia Ciniselli
  • Cani di Daniele Ciprì, Franco Maresco
  • Call Me di Emanuele Crialese
  • Claudia di Emanuele De Vincenti
  • The Pit di Gianluca Di Re
  • Real Falchera di Giacomo Ferrante, Renato Ricatto, EnricoVerra
  • Opinioni di un pirla di Agostino Ferrente
  • Nell’acqua di Dante Majorana
  • Doom di Marco Pozzi
  • Sell Your Body, Now di Marco Puccioni
  • La uccido? di Fabian Ribezzo
  • La parola ai morti di Cesare Romani
  • Ketchup di Carlo A. Sigon
  • Sotto le unghie di Stefano Sollima
  • Dimmi qualcosa di te di Gianluca Tavarelli
  • La sveglia di Marco Turco

L'identità italiana nel cinema[modifica | modifica sorgente]

di Mario Sesti

Francesca Archibugi e Paolo Virzì hanno scelto Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Cosa significa raccontare al cinema e in che modo è possibile con immagini e suoni dare voce ad un narratore sul grande schermo? Cosa significa dare una struttura ad una narrazione? E in che modo la sceneggiatura e la scelta e la direzione degli attori, il montaggio e lo stile visivo finiscono per darle una forma? Quando si scrive un film, di fronte al computer (o alla macchina da scrivere) o con la macchina da presa sul set? O in sala di montaggio? Come si fa a scegliere di mostrare qualcosa e di non farne vedere un’altra? Qual è il segreto di quel rapporto inconfondibile e impalpabile che si stabilisce tra una storia di finzione e la realtà di tutti i giorni, il mondo concreto che ci sembra spesso assai diverso da quello delle storie? E un film, può essere del tutto assimilato ad un romanzo? Grazie all’arte di uno degli autori più grandi del cinema italiano nella costruzione dei personaggi e nell’articolazione di un racconto, autore di celebri e personali trasposizioni della letteratura nel linguaggio del cinema, due registi che dal Grande cocomero a Ovosodo hanno mostrato di saper raccontare la nostra realtà contemporanea, proveranno ad affrontare, e a raccontare, la difficile, faticosa e insostituibile ricerca di una storia, di personaggi e della forma più giusta per dar loro vita sullo schermo. Marco Bellocchio e Mimmo Calopresti parleranno dell’Avventura di Michelangelo Antonioni. Si può riprendere con la macchina da presa ciò che non si può comunicare con le parole? E quali sono le armi e le tecniche di cui si deve essere provvisti per farlo? Fino a che punto è possibile provocare un’esperienza, l’azione o il movimento di un corpo, l’emozione di un personaggio per poterla trascrivere in un’immagine? Si può fare a meno di una storia chiusa e completa per realizzare un film? E in che modo la composizione di un’immagine, l’uso di un paesaggio, la successione di una serie di inquadrature, possono rivelare più di una analisi psicanalitica o di un saggio? E più importante conoscere profondamente la realtà di ciò che si racconta, aver previsto qualsiasi contrattempo prima di arrivare sul set o lasciare la porta aperta ad ogni evento imprevedibile? Bisogna lasciare gli attori nell’incertezza o assicurarsi che conoscano tutto del proprio personaggio? Grazie ad uno dei film più decisivi della modernità del cinema, girato in condizioni avventurose come il suo titolo, aperto all'ambiguità del malessere e degli stati d’animo come a quella del proprio finale, il regista che ha cercato negli ultimi anni di rappresentare con le immagini ciò che non ha raggiunto ancora la coscienza, Marco Bellocchio, e un giovane regista formatosi invece nel documentario, dialogheranno sul cinema come ricerca di uno spazio, di un’immagine o un evento da catturare e registrare per sempre.

Film[modifica | modifica sorgente]

Omaggio a Marco Bellocchio[modifica | modifica sorgente]

Anteprima[modifica | modifica sorgente]

Per Zavattini[modifica | modifica sorgente]

di Giacomo Gambetti

La figura di Cesare Zavattini (1902-1989) è una di quelle a cui si pensa nei momenti difficili della convivenza civile. Sono presenti, nella società contemporanea, uomini -non molti!- ai quali si ricorre come punti di riferimento sociali e culturali, uomini -da non confondere con gli attori cui viene richiesto di parlare di sport, con gli sportivi sollecitati a esprimere opinioni politiche, con cantanti che dovrebbero analizzare la crisi dei Balcani...- che per maturità, esperienze, ampiezza di vedute, prospettive umane e acutezza, originalità, vastità di pensiero sono in grado di aiutare a capire e a vivere. Altri, invece, non sono più fra noi, ma si continua a pensare a loro, ipotizzando le opinioni: “se oggi ci fosse... cosa direbbe di fronte a questo avvenimento? come si comporterebbe in presenza di quello che accade?”, e così via. Cesare Zavattini è uno di loro, uno di questi punti di riferimento. Nei dieci anni intercorsi dalla sua scomparsa (il 13 ottobre 1989) sono successe molte cose, nella nostra vita politica e culturale (e cinematografica), in presenza delle quali è venuto spesso spontaneo domandarsi “adesso che cosa direbbe Cesare, che cosa scriverebbe, farebbe...”. Le migliaia e migliaia di pagine, fra soggetti e sceneggiature realizzati e no, prefazioni, articoli, conferenze, pagine di diario, di libri, di interventi radiofonici e televisivi e di altro ancora autorizzano molte esigenze, molte curiosità, molti interrogativi destinati purtroppo a rimanere insoddisfatti. Interrogativi che si riferiscono non soltanto alle opere di cui si sarebbe potuto arricchire un catalogo già amplissimo, ma proprio al pensiero, a quel famoso “pensiero”, alla riflessione sulla crisi del pensiero che è stata una delle sue ultime e più originali: “[...] e allora, guarda, come ti ho già detto, la crisi che viviamo non è la crisi del cinema -ecco, questo mi fa delle volte sorridere- o la crisi della televisione o la crisi della pittura, è una crisi molto più profonda, complessiva, è la crisi del pensiero umano. Il pensiero ha di fronte dei mezzi che sono pronti a fare degli scatti, a bruciare i tempi, ma non li adopera, non li adopera perché c’è nella sua, diciamo così, costruzione di pensiero una impossibilità di servirsene, perché questo pensiero è sempre un pensiero dei pochi che infor: mano i molti. E nel cinema, se tu ci badi non c’è una vera forza di trasformazioni veramente tale quanto invece il mezzo ha — in sé [...]” (1980). Non a caso l’unico film cui Zavattini abbia posto la firma, nella regia, è intitolato La veritàaaa... con altre a dopo quella ufficiale. Adriaticocinema vuole rendere omaggio? una personalità internazionalmente nota? stimata, come quella di Zavattini, che onora il nostro paese, nella memoria delle grandi opere e delle opere meno note ma non meno significative che la sua intelligenza e le sue intuizioni hanno realizzato, in un continuo impegno a favore della dignità dell’uomo.

Film[modifica | modifica sorgente]

Regia mundi[modifica | modifica sorgente]

di Mario Sesti

Come i primi operatori Lumière, mandati ai quattro angoli del mondo per registrare le immagini che il nuovo dispositivo, il cinematografo, consentiva finalmente di riprodurre dopo averle catturate per sempre, Emanuele De Vincenti ha realizzato nel giro di poche stagioni dei video che tra l’India e Hong Kong, tra Asia e l'Europa, sembrano intenzionalmente riprodurre quel fenomeno che ha sostituito gran parte del fascino e della seduzione del cinema sin dai bagliori della sua storia: il segreto dello spettacolo li vedere persone completamente diverse da noi, in un luogo remoto ed estraneo, immersi in affari e culture che ci appaiono lontanissimi, eppure, come noi, oggetti alla stessa inesorabile legge dello scorrere del tempo, delle variazioni occidentali e incontrollabili della luce, aIlo spostamento o della quiete dei corpi che determinano la scena di uno sguardo. All’opposto di come sarebbe stato elaborato decenni dopo dalla critica cinematografica più ambiziosa, lo sguardo, all’inizio del cinema, annullava completamente l’idea che dietro di esso potesse annidarsi un soggetto, una mente, a coscienza o addirittura un autore o artista. De Vincenti sembra proprio voler riprodurre -con una radicalità che non ha molti rivali negli ultimi anni- quello sguardo che vanifica completamente il pronome “io” identificandosi semplicemente con una visione senza corpo. Una lettura provocatoria e quasi politica: e se fosse la reazione più pura all’autobiografismo che è stato da tantissime voci imputato al cinema italiano degli ultimi anni? AI posto di un autore, una lente. O, addirittura, un cavalletto: “Il modo stesso in cui impugno la telecamera — dice — mi porta ad una modificazione della respirazione, comprimo il diaframma e di conseguenza modifico il mio respiro che ne viene alterato”. La ripresa, costringendo l’operatore ad una immobilità prolungata e ad un respiro alterato, induce uno stato di trance. Nelle installazioni video che proponiamo quest’anno (e che immaginiamo possano essere colte come degli oblò su un pianeta sconosciuto, come se il festival fosse un mezzo mobile, un risciò, una metropolitana, un immenso scompartimento: sono le stesse situazioni in cui sono state realizzate), questa esperienza si presta ad essere seguita per un istante fugace o anche per tutta la durata ipnotica dello sguardo che le ha registrate. Ci si può passare davanti come di fronte al riflesso di una vetrina, oppure fissarsi di fronte ad esse a fantasticare come davanti al finestrino di un auto o di un treno in corsa. C’è dentro di esse un’idea, misteriosa e fortissima, che apparteneva al cinema delle origini: che basti mettere la macchina da presa di fronte ad uno spazio, per un certo periodo di tempo, perché lo spettatore avverta la regia incessante, casuale e muta del mondo, come se, esistesse una musica che tutti conosciamo da sempre, sin da piccoli, a qualsiasi latitudine, sotto qualsiasi religione, in qualsiasi lingua.

Film[modifica | modifica sorgente]

Le stanze di Alfredo[modifica | modifica sorgente]

di Marco Bertozzi

Nelle stanze di Alfredo, ci affacciamo con sguardi curiosi. Apriamo la Casa rossa, le diamo aria, ed ecco certe vedutine fin de siècle, venirci incontro. Forse affrescate dalla sua Donna Pittrice, ci conducono su uno sbuffante treno in arrivo (da fare invidia ai Lumière!) verso un Partenone bellariese eretto sull’ Acropoli di casa; poi ci consegnano un Dante in accigliata riflessione (stile réclame del Fosforil appeso dalla tabaccaia di Amarcord) e, ancora, qualche veliero in procinto di salutare Venezia, per un Petit Tour di rientro verso il Buen ritiro della Cagnona. Navigare necesse est, soprattutto a Bellaria. Dell’intimo campionario geografico del Professore Romagnolo, Claudio disvela il piccolo mondo antico, e lo fa rovesciando le finalità di leonardeschi strumenti “per vedere stando serrato in camera tutto quello che si fa fuori in piazza” (Egnazio Danti, 1573). Gettati nella selva oscura, smarriti rassicuranti orizzonti parietali e topografici riferimenti spaziali, miriamo nei monitor della notte i lucidi videosguardi donati al bosco. “Non dando esso l’entrata a niuno altro lume fuorché a quello della cosa che si vuol ritrarre”, il nostro sguardo percorre sentieri arcaici con tecniche moderne, sino a confermare le impressioni dell’Algarotti espresse nella sua Raccolta di lettere sopra la Pittura e l’Architettura: “niente vi ha di più dilettevole a vedere”...che le Piccole storie di Casa Panzini, l’hortus conclusus di un geografo sedentario, l’abitacolo paleo moderno di uno chauffeur lento e brontolone appena mosso dal Garbino. Il panzinesco umor vagabondo, illustrato nelle pareti della Casa rossa, è spiato da molteplici videocchi. Quali membri di una rinata “Società per l'esplorazione di casa nostra”, possiamo allor seguire il microcorso di Geografia per tutti, emerso a nuova luce dal raffinato intervento di un mago/conferenziere con lanterna. Claudio ci conduce al piacere dello sguardo riaprendo l’italico scarabattolo del vagar visionario: fra mitologia classicista (il tempio) e la cultura popolare (la casetta vicina), icona della modernità buona (il treno sbuffante) e dell’esotismo orientalista (i vasi egizi) la mediità iconografica di casa Panzini diparte per un sinfoniale, vesperale e niente affatto vittoriale, locus amenus. Nel bosco, quali animule tremule e vagabondule, miriamo il moderno respiro delle stanze di Alfredo.

Le stanze di Alfredo è un’installazione sperimentale dell’artista riminese Claudio Ballestracci, realizzata in collaborazione con il Comune di Bellaria Igea Marina e Adriaticocinema. Le luci sono di Nevio Cavina, le musiche e i suoni d'ambiente sono a cura di Andrea Longo e Monica Boschetti. Il trio Coatti Semprini Vasi accompagnerà le immagini e le rarefazioni del parco con musiche di provenienza jazz e improvvisazione radicale. In occasione dell’apertura sarà presentato l’omonimo quaderno (Maggioli editore) documento illustrato del progetto, con testo critico introduttivo di Maria Virginia Cardi e Marco Bertozzi. Nelle lontananze di un parco si staglia nel buio una casa. La casa è chiusa come sempre, murate le finestre del piano rialzato, sigillate le imposte al piano superiore. Nell’immemore giardino, supremi alberi ospitano le magiche scatole come sospesi quadri luminosi. Virtuali contenitori costellano il parco di luminose presenze. Suoni organici, fugaci musiche e parole disperdono la loro inconsistenza nella vastità del parco. Siamo nel bosco vecchio della “Casa Rossa” dello scrittore Alfredo Panzini, a Bellaria Igea Marina dove, in occasione del sessantesimo anno dalla morte, si assiste a una inconsueta commemorazione: dieci monitor sospesi ai rami nel parco della villa, trasmettono dal crepuscolo a notte fonda le immagini in tempo reale degli inaccessibili interni. Quindi, solamente per questa particolare occasione, casa Panzini sarà “aperta” al pubblico.

Quarant'anni con La grande guerra[modifica | modifica sorgente]

di Mario Sesti

La commedia all’italiana è perlopiù nota per la sua proverbiale capacità d’aggressione satirica: mettendo in ridicolo vizi, velleità, debolezze e limiti culturali e antropologici della società contemporanea, esercitò una funzione di critica e analisi tanto più efficaci quanto più popolare fui il cinema cui diede vita. La grande guerra è considerata un momento imprevedibile di maturazione di questo genere che per la prima volta affrontava non l’esistente ma una mitologia sacra della retorica nazionale, la vittoria nella prima guerra mondiale, senza timore di dover rinunciare alla propria capacità di irrisione e demistificazione di fronte ai monumenti della memoria della patria. Oggi, forse, che la storiografia ha ampiamente acquisito e messo in luce i limiti e la realtà assai controversa di tale impresa, soprattutto per il modo in cui fu vissuta da coloro che dovettero innanzitutto subirla, ciò che appare in tutta evidenza è come la commedia all’italiana si basi non soltanto su un istintivo talento a mettere in ridicolo stereotipi culturali, sociologici, storici, ma su una ibridazione quasi fisiologica di dramma e comicità che si ritrova in tutte le grandi commedie di quel genere (da Divorzio all’italiana al Sorpasso) e che, forse, costituisce il suo segreto meglio custodito. Festeggiare oggi il compleanno del film e del suo autore, significa anche domandarsi come mai quella che è stata una formula ma anche un'estetica di grande successo ed originalità si sia quasi completamente persa nel nostro cinema che contempla perlopiù commedie di pura evasione o film d’autore di esclusiva impostazione drammatica. Come è maturato questo fenomeno così inconfondibile, anche all’estero, fondendo tradizioni molteplici e distanti come la letteratura umoristica, l’avanspettacolo, l’artigianato di genere, la grande letteratura, l’amore per gli attori, la passione politica? E in che modo la tecnica raffinatissima per far ridere il pubblico ha finito per alimentare e costruire un grande romanzo popolare italiano che era l’obiettivo che i teorici e gli autori del neorealismo non riuscirono mai a raggiungere? È quale inspiegabile fantasia proprio gli autori meno intellettualistici e avanguardistici riuscirono a mettere a punto un cinema dalla struttura creativa collettiva in cui i registi, gli sceneggiatori e gli attori sembrano contribuire nella stessa misura all’ideazione alla scrittura del film?

Testimonianze[modifica | modifica sorgente]

di Mario Monicelli [1][modifica | modifica sorgente]

[...] quando portai a De Laurentiis il soggetto de La grande guerra, scritto da Luciano Vincenzoni, lui, con la sua mania del gigantismo, s’innamorò del film. L'idea di mettere assieme Gassman, il nuovo comico del momento, e Sordi, che ormai era un grosso nome, lo eccitò enormemente. Lì combattei un’altra battaglia per avere Age e Scarpelli come sceneggiatori. De Laurentiis lo vedeva importante il film, già immaginava un grosso lancio, pensava di mandarlo a Venezia, però secondo lui Age e Scarpelli erano degli sceneggiatori non adatti a film di quella mole e di quell’impegno. Dovetti obbligarlo a prenderli assieme a Vincenzoni. Una volta deciso a fare il film, De Laurentiis ebbe da combattere lui stesso una grande battaglia: essendo un film molto costoso, che abbisognava di masse e di grandi mezzi, truppe, eccetera, lui voleva farlo con l’aiuto dell’esercito. Invece appena si seppe che questo gruppo di tre sciaguratelli, come eravamo considerati io, Age e Scarpelli, voleva addirittura fare un film sulla guerra del 15-18, coi suoi 600.000 morti, si scatenò una campagna di stampa contro questo presunto vilipendio delle forze armate. Articolo di fondo su “Il Giorno” scritto da Baldacci; articoli di fondo di Monelli, che era il depositario dei valori del sacro soldato italiano, e poi altri interventi. Perciò sparì immediatamente la possibilità di avere la collaborazione dell’esercito. Perdemmo così molti mesi: cercammo di andare a girare in Jugoslavia. Alla fine De Laurentiis decise di affrontare il film tutto da solo qui in Italia. Dell’evento della Grande Guerra volevo dare l’idea - in collaborazione con Mario Garbuglia, che era lo scenografo - di una specie di grossa pentola in ebollizione, da cui ogni tanto veniva fuori un personaggio; una massa amorfa di umanità, di soldati, di operai, di braccianti, sbattuti nelle trincee in mezzo al fango, lungo i tratturi, da cui uscissero fuori qua e là dei tipi, dei momenti. Alla fine la presenza di Sordi e di Gassman ha fatto sì che tutto questo non avvenisse, almeno nella misura in cui io lo volevo. Anche nello scrivere la sceneggiatura demmo ai due attori un’importanza maggiore di quella che avevamo preventivato. Ci fu poi una grossa diatriba con De Laurentiis e con i distributori, perché il film finiva in una maniera drammaticissima: la fucilazione dei due protagonisti, dei due comici! Volevano che finisse con la loro liberazione, col trionfo degli eroi. Già ne I soliti ignoti mi ero battuto per conservare quel momento drammatico della morte di Carotenuto - una cosa che sembrava rompesse tutti gli schemi del film comico. La grande guerra fu accolto alla Mostra di Venezia abbastanza tiepidamente alla proiezione per la critica; all’uscita alcuni di loro erano molto sfuggenti, sicché capii che non c'erano delle grandi probabilità di ottenere qualcosa. Invece alla proiezione serale di gala, e anche a quella per il pubblico, il film ottenne un successo talmente strepitoso che sbalordì tutti quanti: applausi a scena aperta, grida di gioia. Ci fu un ripensamento da parte dei critici, tra i quali Liverani (critico cinematografico allora del “Paese Sera”) che mi disse: “Ho rivisto il film, ci ho ripensato, avevo avuto un’impressione diversa...” Me lo disse anche Amidei, di cui ero amico, il quale però aggiunse che ormai era stabilito che il vincitore del Leone d’Oro fosse Il generale Della Rovere di Rossellini che lui aveva sceneggiato. Invece tutto si rovesciò nelle ultime 48 ore, grazie anche all’intervento di René Clair: mi abbracciò, mi disse che era un film straordinario, mi parlò anche di particolari tecnici che riguardano il mestiere del regista, cioè di certi movimenti di masse che avvenivano sullo sfondo (il film era girato in Cinemascope, perciò permetteva questi effetti); c’era come un secondo film che si svolgeva in background e che gli sembrava eccezionale. Alla fine, nonostante la poca voglia del presidente della giuria, Chiarini, furono costretti a dare il Leone d’Oro exaequo a Rossellini e a me. Luigi Chiarini aveva sempre avuto poca simpatia per me. Lo conobbi per la prima volta quando Cancogni, Cassola ed io ci presentammo, con un’aria un po' sfottente, al Centro Sperimentale nel °35 per vedere se ci accoglievano. Fummo ricevuti da Chiarini nel suo ufficio, lui vestito in un’impeccabile divisa da gerarca fascista, tutto nero, camicia, pantaloni, stivali neri, con la testa pelata alla Mussolini, e con una grande spocchia. Siccome Cassola e Cancogni avevano fatto un filmetto a 16mm abbastanza folle, un po’ surrealista, e io avevo fatto Il cuore rivelatore, Chiarini ci disse che eravamo degli asociali, che il cinema della nuova Italia non era quello, che insomma ci levassimo di torno! Ce ne andammo via sghignazzando, perché non avevamo poi delle grandi aspirazioni. Chiarini me lo ritrovai nelle sezioni cinema del Partito Socialista, nelle quali era diventato un pezzo importante, cosa che mi meravigliò e glielo dissi. Quando poi feci I compagni - che gli venne sottoposto da Cristaldi, perché io non mi sono mai occupato di andare a perorare i miei film - lui lo rifiutò per la Mostra di Venezia che dirigeva, perché secondo lui non ne ero degno! La grande guerra prese questo Leone a metà, ed era un grosso riconoscimento, perché allora essere affiancati a Rossellini era il massimo che si potesse preti Il film andò molto bene con il pubblico dalla critica “ufficiale” non fu accolto, bene; ci furono delle riserve: “l’eccessiva importanza data ai comici”; nessuno rilevò l’elemento rottura, cioé il capovolgimento dell’immagine di una guerra eroica. (...) Ebbero una reazione più o meno uguale a quella che avrebbero avuto in seguito, quando feci L'armata Brancaleone: nei dibattiti su questo film, gli studenti rimproveravano ai professori di avergli dato un'immagine del Medioevo tutta finta, fatta di paladini e di donzelle; mentre qui si trovavano di fronte ad un'immagine dissacrante, fatta di ferocia e di miseria, che gli era molto piaciuta. I professori ce l'avevano con me, invece gli studenti stavano dalla mia parte. Cominciammo a girare La grande guerra in Friuli, scavammo delle trincee e ricostruimmo le retrovie. Dopo alcuni giorni di riprese, mi telefonò De Laurentiis che aveva visto i giornalieri del film, e mi disse che si era spaventato: facevo vedere soldati e ufficiali tutti laceri e sporchi, smunti, privi di marzialità. Per telefono mi disse: “Non è possibile! sono troppo sudici, troppo trucibaldi. Il film diventa un ’altra cosa”. Io gli risposi: “No, io li vedo così”. Poi venne su a Udine per parlare con me, ed era accompagnato da Age. Una sera dopo cena uscimmo e facemmo una lunghissima camminata per le strade di Udine, in cui De Laurentiis fece di tutto per convincermi che non potevo far vedere l’esercito ridotto in quelle condizioni, perché il pubblico non l'avrebbe accettato. Io gli risposi punto per punto. Donati, il costumista, mi presentava ogni mattina dei soldati troppo ben messi; allora io facevo bagnare con delle pompe un largo tratto di terra, e poi dicevo alle comparse di rotolarsi nel fango. Loro erano tutti contenti, perché era estate e faceva caldo; venivano fuori trasformati. E De Laurentiis ne rimaneva esterrefatto! Alla fine di quella lunga camminata rientrammo verso mezzanotte all’albergo; De Laurentiis sosteneva le sue tesi, ma allo stesso tempo capiva gli argomenti altrui, intuiva che nel regista c’era un’idea che non era giusto contrastare eccessivamente; insomma mi dette ragione. Age, che non aveva detto una parola, nel salutarmi mi disse: “Chi desiste dalla lotta, è un gran fio de ‘na mignotta!” Fra le molte critiche rivoltemi per La grande guerra dai colleghi, ricordo che ci fu quella di Elio Petri; lo incontrai da Rosati dopo che il film era uscito con grande successo e lui già da lontano scuoteva la testa; mi disse: “Caro Mario, no, non ci siamo, non ci siamo”. Mi è rimasta impressa questa reazione (io non controbatto mai): era un po’ la reazione diffusa dei cineasti, critici o autori che fossero. Fu la stessa per I compagni. Adesso tutti negano naturalmente, ma allora rimasi molto amareggiato. Nell’euforia dei premi ricevuti, di sentirmi diventato un autore importante, mi era abbonato all’Eco della Stampa, che costava un sacco di soldi. Dopo soliti ignoti rimasi abbonato per due o tre anni, fino a I compagni, quindi ho letto decine e decine di critiche che venivano da tutte le parti; tutte con le stesse riserve, un po' sopraccigliose. Ad un certo momento decisi di risparmiare questi quattrini e cancellai l'abbonamento! In seguito mi sono occupato molto meno dell’opinione della critica ufficiale, perché sentivo che non eravamo mai d’accordo. C'era proprio un’incomprensione fra quello che io volevo dare e quello che loro volevano ottenere dal mio film. Leggo pochissimo la critica attualmente, solo sui giornali che compro, sempre meno. Ho fatto anche dei film molto brutti, beninteso; ma anche in quelli che ritengo riusciti non cerco che si gridi al capolavoro. Mi sono stufato di veder scambiata, nell’arco del racconto di un film, la minima nota divertente per un inevitabile cedimento di gusto.

di Lorenzo Codelli [2][modifica | modifica sorgente]

Nella Grande guerra c’è, oltre alla demistificazione, una scrupolosa ricostruzione storica. MONICELLI: - Sì, molto importante, ma non fu molto difficile. C'è una documentazione fotografica sulla grande guerra molto ricca; la ricostruzione fu fatta bene, ma non fu difficile come per L’armata Brancaleone! La grande guerra era soprattutto un film corale, dove le masse avevano molta importanza. MONICELLI: - Volevo fare un film che fosse come una pentola di fagioli che bolle e ogni tanto ce ne è uno che viene in superficie. Ci sono riuscito in parte. Mi si accusa del contrario: che in fondo, sono stato troppo al servizio degli attori, soprattutto di Sordi e di Gassman. Ma ho fatto il film così e, se mi si accusa di aver scelto questo tono comico-amaro, è meglio non andarlo a vedere! Questo tono demistificatore e sorridente non piace alla critica che vuole che tutto venga preso sempre molto seriamente: non c’è niente da fare.

Critiche[modifica | modifica sorgente]

di Guido Aristarco[3]

Più formativo e “utile” di Il generale Della Rovere è di Sonatas, per non dire di Stalingrado, risulta La grande guerra: un utilità che va intesa proprio nell’accezione da Amidei sottolineata a Venezia, legata all’esigenza e al dovere morale di muovere quelle pietre con le quali si cerca di nascondere le pagine “proibite” della nostra storia e per far conoscere ai giovani anche quei “vermi” che esse pietre nascondono e nutrono. Monicelli, che non possiede il talento artistico di Rossellini, nell'ambito delle risorse e del “tono” di I soliti ignoti e sull’esempio del Lean di Il ponte sul fiume Kwai, ha costruito un rosso film spettacolare con alcune idee entro, volte appunto a rimuovere luoghi comuni e miti di una retorica dannunziana ufficiale, il concetto astratto di patria. E' interessante notare come anche qui i protagonisti siano due campioni dell' "arte di arrangiarsi" (Monicelli, del resto, è l’autore di Un eroe dei nostri tempi), come anch’essi vengano fucilati. L'idea di partenza è il Maupassant di Due amici: Morissot - orologiaio di condizione e pantofolaio d’occasione - e il merciaio Sauvage sono due pescatori fanatici; usciti on un salvacondotto dagli avamposti della Parigi “assediata, affamata e rantolante” per andare sul fiume a prendere ghiozzi, vengono sorpresi e scambiati per spie dai prussiani, i quali pretendono da loro la parola d’ordine per entrare nella città. In seguito al loro silenzio Morissot e Sauvage vengono fucilati. I due personaggi di Maupassant, che pure muoiono in un mutismo dignitoso (il che non esclude poco prima dell’esecuzione, il pianto e la paura della morte), non potrebbero anche volendo tradire: non conoscono quanto loro si chiede. La situazione si presenta meno chiara nell’Oreste e nel Giovanni di Monicelli: certo, comunque, anche in questa ambiguità la fine dei protagonisti è conseguente alla loro natura, ed esclude la pretesa di un presunto patriottismo a ogni costo. E’ evidente in Monicelli il ricordo del Chaplin di Charlot soldato, e non soltanto per certe “gags” e alcuni aspetti della vita in trincea che a quel film si rifanno, ma anche peri significati che l’opera vorrebbe assumere e in parte assume. D'altra parte, nel suo intento a spezzettare l’episodio, a fare la novella, il quadretto, in lui l’aneddoto diventa meno singolare e caratteristico che in Maupassant (e in Chaplin); ed egli cade, quando a esempio ci presenta quella che Turati avrebbe chiamato una “salariata dell’amore”, nel luogo comune della narrativa d’appendice.

Cattolica: il cinema internazionale[modifica | modifica sorgente]

Il cinema internazionale[modifica | modifica sorgente]

di Mario Sesti

La riduzione della versatilità di un mercato sempre più concentrato su un numero ridotto di titoli, i costi di promozioni e distribuzione del prodotto in sala, l’omologazione di un gusto che appare sempre meno disposto a curiosare e scoprire al di là del mainstream hollywoodiano hanno trasformato profondamente, come è noto, le possibilità di diversificazione del cinema in sala trasformando ciò che una volta era chiamata la censura del mercato in una insormontabile difficoltà di accesso che rischia di decimare la presenza nel circuito tradizionale di film indipendenti, di cinematografie di paesi stranieri, di autori dal linguaggio innovativo. Tra i film che si vedono ai festival e quelli che si vedono nei cinema delle nostra città c’è ormai un abisso che le lamentele di critici e cinefili di qualche anno fa, forse non prevedevano potesse diventare davvero così incolmabile. Ma mentre sono diminuite le presenze in sala di questo cinema, è aumentato il numero dei festival. Nati come rituale d'avanguardia in cui una comunità di autori, critici, giornalisti metteva in scena l’offerta del nuovo, del diverso, di ciò che era destinato a trasformare l’idea di spettacolo o di racconto o di indagine che il cinema aveva fino a quel momento metabolizzato, oggi i festival si vedono nella necessità di farsi carico di una forma alternativa di distribuzione, diffusione, promozione di film che altrimenti non avrebbero alcuna possibilità di incontrare un pubblico. Queste premesse sono alla base della struttura che Adriaticocinema ha messo a punto a Cattolica in questa edizione del 1999. Una selezione/ vetrina degli esordi più originali e di maggior talento e dei film di maggiore interesse che i festival internazionali hanno selezionato nelle loro recenti edizioni, grazie anche alla collaborazione della Fipresci, e una retrospettiva di film noir degli anni quaranta, classici del genere quasi sconosciuti in Italia che, non solo rinnova la tradizione di Cattolica che ha ospitato per molte stagioni uno dei primi festival dedicati al thriller e al poliziesco, ma intende sottolineare una presenza nel cinema contemporaneo: dai fratelli Coen a Lynch, da Stone a Helgeland (lo sceneggiatore premio oscar di L.A. Confidential e regista di Payback) il noir è una tonalità ricorrente, un effetto speciale di racconto e atmosfera, un patrimonio linguistico e simbolico decisivo della modernità del cinema. Il pubblico che frequenterà Cattolica quest'anno potrà conoscere preziosi classici del genere, impossibili da scoprire altrove, sia in tv che nella sala, ma avrà anche la possibilità, unica, di vedere ciò che critici e selezionatori professionisti hanno scovato ovunque, e potrà esso stesso costituirsi in giuria segnalando e premiando, con il proprio voto, la migliore opera prima in programmazione, Questo meccanismo, semplice e, a nostro avviso, efficace, intende innanzitutto dotare la presenza di Adriaticocinema (servizio che nessun festival ha finora stito. Al contrario del mercato, ha scelto film secondo un criterio di valore che mette a disposizione di chiunque il cinema interessante realizzato in tutto il mondo.

Premio Vela d’oro[modifica | modifica sorgente]

Festival dei festival[modifica | modifica sorgente]

Premi Fipresci[modifica | modifica sorgente]

Il premio Fipresci[modifica | modifica sorgente]

di Luca Pelusi

Il cinema è un mondo senza frontiere che muta di continuo, sempre diviso tra industria, artigianato ed arte, se gli autori vacillano tra il desiderio di raccontare una storia e il sogno del successo, i critici cinematografici sono oggi alla ricerca di una nuova identità sempre più compressa dalle esigenze dei media ubriachi di “colore”, presentazioni, interviste, anticipazioni, gossip, scandali, il tutto a scapito dello spazio critico che si riduce via via a piccoli trafiletti, box, spalle, flash, pallini. I punti di riferimento scarseggiano, le certezze crollano come celebri muri. Da qui l’urgenza di far parte di una comunità internazionale. Critici diversissimi tra loro per nazionalità, lingua, cultura, si trovano uniti da un’idea comune: portare alla luce il talento, lo stile, il nuovo, l’energia, l'impegno civile, il coraggio di una storia sincera. Ma l'esigenza di non sentirsi soli, di incontrarsi, di comunicare, di organizzarsi è antica. La Fipresci (Fédération International de la Presse Cinématographique / The International Film Critics Federation) nasce nel 1930 grazie all’impegno di un gruppo di critici francesi, belgi, italiani, che si incontrano al Congresso internazionale del cinema di Bruxelles. L’anno successivo viene scelta la dizione Fipresci e, in occasione della terza assemblea generale tenuta a Londra, viene approvato lo Statuto internazionale. Fino al dopoguerra la Federazione conta sette comitati nazionali più altre nove nazioni rappresentate da singoli critici. Al festival di Cannes del 1946 la Fipresci forma una giuria che assegna l'omonimo premio ex aequo a Breve incontro (Brief Encounter) di David Lean e Farrebique (id.) di Georges Rouquier. Da allora la Federazione convoca ogni anno un’ Assemblea generale, che negli ultimi sette anni si è tenuta in Italia, a Saint Vincent. Qui vengono eletti il presidente, quattro vice presidenti e i membri dell’ Assemblea generale votati dai delegati presenti. La Fipresci rappresenta oggi quarantasei nazioni cha vanno dall’ Argentina alla Corea ed è presente in trentacinque festival internazionali dove assegna il premio omonimo con la possibilità di una menzione speciale per giovani talenti. Il premio Fipresci si è ormai affermato in tutto il mondo come un riconoscimento di qualità e prestigio assai ambito a livello internazionale. Le varie giurie nella scorsa stagione hanno premiato film espressione di nuovi stili e tendenze, che affrontano temi e argomenti di forte impatto: guerre, pedofilia, abissi familiari, disintegrazione di universi morali. Presentati in festival importanti come Cannes (The Hole di Tsai Ming-Liang e Happiness di Todd Solondz), Venezia (Bure baruta - La polveriera di Goran Paskalievic e Train de vie di Radu Mihaileanu), Berlino (Ca commence aujourd’hui di Bertrand Tavernier) questi titoli hanno conosciuto in seguito un successo internazionale di critica e di pubblico favorito anche dal riconoscimento assegnato dai critici. Nel caso di festival più aperti alla sperimentazione, le “nuove miniere” del panorama cinematografico come Pusan, Valladolid, Cottbus, Thessaloniki, Riga, Sochi, Singapore, Oberhausen, il premio Fipresci ha segnalato soprattutto giovani autori di opere prime o seconde, talenti emergenti, rivelazioni. Su un totale di quasi quaranta film (considerando anche gli ex aequo) premiati dalle giurie Fipresci dal gennaio 1998 al febbraio 1999, Adriaticocinema ha individuato alcuni titoli tra i più rappresentativi. Dalle storie quotidiane di giovani scozzesi in salsa allucinata e surreale di Acid Hous di Paul McGuigan (Gran Bretagna) alla poesia delle immagini e dei tormenti dell'adolescenza in Fishes in August di Yoichiro Takahashi (Giappone). Dallo stile espressionista utilizzato in Pi di Darren Aronofsky (Usa) per rappresentare la paranoia del protagonista nei confronti del mondo, al rigoroso bianco e nero utilizzati in Kasaba da Nuri Bilge Ceylan (Turchia), fino al semiautobiografico La vida es silbar di Fernando Pérez sull’impossibilità di vivere nell’ Avana di oggi e la necessità di continuare, salvati da uno humor poetico dagli accenti felliniani. Che si vada per accumulazione o sottrazione, per e nere o contaminazione non conta. L'idea, è la scoperta di una narrazione altra, mai omologata alle sole logiche di mercato. Altri percorsi, saliscendi continui, sinuosi tornanti dell’immaginazione, della fantasia, dell’urgenza di raccontare una storia attraverso i linguaggi più diversi. Unico peccato imperdonabile: la noia. La speranza è rimessa per l’ennesima volta nelle mani delle nuove generazioni, dei giovani cineasti di tutto il mondo che, superando il muro della tradizione, riescono a trasportare sul grande schermo il dolore, la gioia, l' ironia, l’illusione, il sogno, portando con sé testimonianza di uno stile, un tratto cinematografico puro, segno inconfutabile di un ricerca continua, instancabile.

Scuole di cinema[modifica | modifica sorgente]

di Leo Gandini

Succede, a volte, che le cose prendano in modo autonomo, per proprio conto - una fisionomia ben definita quanto inattesa, non preventivata all’inizio. La rassegna dedicata alle scuole di cinema propone, come ogni anno, una selezione di cortometraggi di aIta qualità, un programma, nella precedente edizione, di circa due ore, che si prefigge l’obiettivo di gettare uno sguardo a queIli che potrebbero diventare, domani cineasti di primo piano. Tuttavia, una volta compiuta la selezione, ci siamo resi conto come essa proponga anche, se non soprattutto, un incontro fra le due grandi tendenze che dominano questo settore. Da una parte le scuole dotate di notevoli risorse tecniche ed economiche, che permettono agli studenti di declinare il proprio talento ed amore per la narrazione a mezzi adeguati; a queste caratteristiche possiamo ricondurre le accademie di cinema in lingua inglese, ovvero quelle che hanno sede in Gran Bretagna, in Australia e negli Stati Uniti, che vengono qui rappresentate da ben cinque film. Dall’altra, le scuole dell’Europa orientale, meno facoltose, e dunque più inclini a sollecitare i propri studenti a lavorare con maggior rigore ed economia di mezzi, supplendo alle carenze con l'immaginazione e l’uso di un linguaggio ellittico: ne escono film fatti più di atmosfera che di narrazione, più lirici e meno concreti. Come rappresentanti di questa tendenza, abbiamo scelto due cortometraggi provenienti da scuole di grande prestigio, che hanno sede a Mosca e a Lodz, in Polonia, a cui va idealmente associato anche un altro film, realizzato sì in Svizzera, in una scuola di Zurigo, ma da un allievo di origine jugoslava. Completano la rassegna due film che rappresentano una sorta di felice contaminazione tra la vocazione lirica e quella narrativa, sul piano però dell’intreccio e della caratterizzazione dei personaggi. Il primo è proveniente dal Belgio, il secondo dalla Francia.

Film[modifica | modifica sorgente]

Il noir oltre i classici[modifica | modifica sorgente]

di Leo Gandini

Parlare del film noir è una faccenda spinosa, posto che anche fra studiosi e storici del cinema, non esiste un sostanziale accordo sul modo di definire questo strano fenomeno. Alcuni lo ritengono un genere, altri un’opzione estetica che attraversa i generi, incupendoli, ottenebrandoli, venandoli di pessimismo; alcuni lo ritengono storicamente riconducibile ad un breve periodo della storia del cinema americano (dalla metà degli anni quaranta fino alla metà del decennio successivo), altri si dichiarano convinti che la sua eredità arrivi fino ad oggi, sia pure attraverso i dovuti aggiornamenti tematici e stilistici, il primo e più importante dei quali sarebbe senz'altro rappresentato dalla scomparsa del bianco e nero e dall’affermazione del colore. Personalmente, concordiamo in pieno con uno studioso americano, James Naremore, che in un recente libro sull’argomento afferma che il film noir è “sia un’importante eredità cinematografica che un’idea che abbiamo proiettato nel passato”. Dunque il modo in cui lo si considera e lo si esamina rivela nella stessa misura qualcosa sull’oggetto e sul soggetto dell’analisi, posto che di quest’ultimo possiamo facilmente individuare i punti di riferimento estetici e culturali. Che sono, nel caso specifico, davvero molteplici: in diversi momenti storici, il film noir è stato analizzato in rapporto all’esistenzialismo, al periodo maccartista, al surrealismo, all’espressionismo, al neorealismo, alla dissoluzione del linguaggio classico hollywoodiano, al modernismo, alla sindrome da bomba atomica, alla nuova autonomia della donna, alla guerra fredda. Di fronte ad un oggetto così sfaccettato ed ambiguo, che sembra offrire il fianco a letture fra loro molto diverse, eppure in qualche modo sempre legittime, converrà innanzitutto ripartire dai testi. Che sono, qui veniamo al punto, molti di più di quelli che solitamente vengono, in ambito italiano, citati e utilizzati a mo’ di supporto del discorso critico. Scopo di questa rassegna è appunto quello di allargare l’orizzonte proponendo una serie di film noir degli anni quaranta (il prossimo anno ci si occuperà del decennio successivo) considerati dagli specialisti come fondamentali, ma in gran parte sconosciuti o inediti in Italia, transitati tutt'al più all’interno di qualche rassegna monografica su un autore, o programmati in tv in epoca antidiluviana, quando i videoregistratori erano ancora una bizzarra ipotesi. Se, sul piano della critica il film noir sembra riguardare tutto, su quello della pratica pare riguardare tutti. Non c’è quasi resta o grande attore, nel cinema americano degli anni quaranta e cinquanta, che non ci si sia, presto o tardi, cimentato. Questa rassegna lo dimostra ampiamente, vi troviamo film diretti da cineasti che sono entrati nei manuali di storia del cinema come maestri del western (Anthony Mann), del melodramma (Douglas Sirk), della fantascienza e dell’horror (Robert Wise); interpretati da attrici che comunemente associamo alla commedia (Claudette Colbert), al melodramma (Susan Hayward), al western (Claire Trevor, la prostituta di Ombre Rosse). E anche nel campo della scrittura, accanto a nomi affermatisi in quest'ambito quali sono quelli di Cornell Woolrich e Jonathan Latimer, troviamo uno specialista della commedia come Ben Hecht. Anche sotto questo profilo, insomma, il film noir sembra confermare la propria tendenza a espandersi in lungo e in largo, a resistere ad ogni tentativo di circoscriverne i limiti. Per provare a ridisegnare una mappa attendibile di questo territorio così frastagliato, che al contempo ci permetta anche di comprendere meglio il senso e l’utilità di un termine che oggi, parlando di film contemporanei, viene utilizzato con sin troppa frequenza e disinvoltura, proviamo dunque a tornare al punto di partenza di ogni analisi rigorosa: i film, e la loro visione.

Film[modifica | modifica sorgente]

Ben-Hur[modifica | modifica sorgente]

Le mani femminili sulla commedia[modifica | modifica sorgente]

di Mario Sesti

Gaia De Laurentiis, Lorenza Indovina, Teresa Saponangelo. Tre attrici dirette da tre giovani registe in tre film italiani: Cecilia Calvi (Mi sei entrata nel cuore come un colpo di coltello), Emanuela Giordano (Due volte nella vita), Anna Negri (In principio erano le mutande). Adriaticocinema le ha riunite a Cattolica in un incontro che intende esplorare un'ipotesi ancora tenue e nascosta ma di cui il cinema italiano potrebbe fare tesoro: esistono delle mani femminili al lavoro sulla commedia oggi? Benché, nel cinema classico, si racconti quasi sempre di come nella guerra dei sessi le donne sono destinate a conquistare, dominare ed educare alla famiglia e alla coppia il maschio, la commedia è stata sempre il territorio di grandi registi di sesso maschile: da Lubitsch a Wilder, da Germi a Monicelli. Perché le donne potessero iniziare a raccontare tale guerra, e i suoi multiformi e controversi rovesci, dal loro punto di vista, ci sono voluti molti decenni, e la strada è tutt'altro che sicura e avviata. Negli anni ottanta, ad esempio, registe come la francese Colin Serrau o la tedesca Doris Dòrrie, sembravano aver iniziato a porre le basi di una nuova commedia, non meno satirica e graffiante di quella maschile, al centro della quale c’era una soggettività femminile in grado sia di mettere in ridicolo i tabù e le certezze del maschio tradizionale, sia i costumi, le vanità e le debolezze di sesso femminile: ma quel processo si è quasi completamente arenato. Sembrava la nascita di una commedia europea di stampo femminile, arguta e sottile, erano invece fenomeni isolati e occasionali. In Italia, se si esclude il cinema della Wertmiiller e, più di recente, Matrimoni di Cristina Comencini, non è facile rinvenire nel cinema del passato elementi di comicità scritti, diretti o interpretati al femminile. Gli esempi classici, Stefania Sandrelli, Monica Vitti, Mariangela Melato, non si distaccano da quella linea classica che vede il pensiero maschile di sceneggiatori e autori come il più ossessivamente attento e curioso alla sensibilità femminile. Ci sono oggi storie e registe e interpreti che sembrano avventurarsi in direzioni nuove e diverse? Forse. Una fidanzata frustrata che si inventa un amante per scuotere un partner abulico (Mi sei entrata nel cuore come un colpo di coltello per la regia di Cecilia Calvi), una sfigata cronica che sogna Caruso e si innamora di tutte le persone sbagliate che incontra (In principio erano le mutande di Anna Negri), quattro assortiti outsider rinchiusi in un obitorio che scoprono ben presto di essere cadaveri (Due volte nella vita di Emanuela Giordano). Mentre la comicità pieraccionesca celebra il vitellone maschile, ingenuo e ammaliatore, fa capolino una commedia di mano femminile che tenta la via dell’intreccio e della satira. Il suo personaggio tipico: una donna giovane, instabile e intraprendente che va incontro alle più sonore fregature con un impegno encomiabile e un’allegria immotivata. Gaia De Laurentiis nel film della Calvi e la notevole Teresa Saponangelo nel film della Negri (che è stato proiettato al Festival di Berlino) ne indossano i panni. Mentre Lorenza Indovina, nel film della Giordano, sembra esplorare una sorta di dolce follia, di trasognata isteria, che coniuga al femminile un disagio diffuso e impalpabile. Forse ci vorrebbe più follia e delirio, più cattiveria (anche al femminile) in questi film che offrono per la prima volta in Italia la testimonianza di una passione comica vissuta da soggetti dell’altra parte del cielo. O, forse, le fregature sono ancora troppe per abbandonarsi senza freni a tale passione.

Film[modifica | modifica sorgente]

Festival: un mercato parallelo[modifica | modifica sorgente]

di Bruno Torri (presidente SNCCI)

I festival cinematografici possono svolgere tante funzioni: di scoperta, di aggiornamento, di informazione, di documentazione, di promozione e altre ancora. Sono tutte funzioni utili che vanno a vantaggio dei registi, dei critici, dei produttori e, più in generale, degli altri addetti ai lavori cinematografici, ma che interessano meno il pubblico cinematografico. Da alcuni anni una (relativamente) nuova funzione è via via emersa con sempre maggiore consapevolezza e anche con sempre maggiore incidenza. E' la funzione conseguente, anche in connessione con le altre sopra accennate, al costituirsi dei festival stessi in una sorta di mercato parallelo. Un mercato dove le merci (i film) non solo non sono vendute al pubblico, pur venendo consumate subito e gratuitamente (o quasi), non solo sono presentate anche per favorire la loro eventuale distribuzione nei mercati tradizionali (del cinema, della televisione, dell’home video, della pay tv), ma -ecco la novità- vengono anche dapprima selezionate e poi mostrate in vista di una loro successiva diffusione in altri mercati, anch'essi paralleli, o meglio, alternativi (cineclub, circoli di cinema, istituzioni culturali, ecc.), interessando quindi più direttamente, e più estensivamente, il pubblico, che a volte è anche un nuovo pubblico. Riprendendo una dizione un tempo molto usuale, i festival, almeno alcuni, cercano di contrastare, di aggirare, la “censura di mercato”, per istituirsi, appunto, come un mercato parallelo che può alimentare altri mercati paralleli o alternativi, e che pertanto può anche incrementare quel fenomeno positivo che vede il pubblico (questa astratta nozione sociologica, questo mero dato statistico) scomporsi e differenziarsi in tanti “pubblici”, che, proprio in quanto tali, hanno una valenza, oltre che sociologica e statistica, realmente culturale. L’ incontro” che il Sindacato nazionale critici italiani, assieme ad Adriaticocinema, organizza a Cattolica si propone di proseguire la riflessione su questa funzione festivaliera, che direttamente o indirettamente implica anche altri problemi, come, ad esempio, quello dei nuovi rapporti che si possono stabilire tra i responsabili dei festival, gli organizzatori culturali e gli aventi diritto dei film, o quelli concernenti il restauro delle pellicole, cioè la valorizzazione sociale e culturale delle copie restaurate, che non si esaurisce con quella pur indispensabile, della loro salvaguardia e conservazione, ma deve, ancora una volta, coinvolgere il pubblico (i “pubblici”). Tanto più l’ ’incontro” avrà un senso, quanto più la discussione terrà conto che si tratta di problemi molto concreti, di problemi la cui conoscenza deve servire soprattutto alla loro pratica soluzione. Il che significa, per, tanti film artisticamente e cultural. mente validi, passare dall’esclusione o dall’emarginazione all’inclusione, ovvero, al confronto con quegli spettatori cui sono prioritariamente destinati.

Premio Gran giallo[modifica | modifica sorgente]

II XXVI premio “Gran Giallo Città di Cattolica” per il miglior racconto giallo inedito di ambientazione rigorosamente italiana, bandito «la Adriaticocinema e il Giallo Mondadori, è stato assegnato a Sara Vallefuoco per La gamba di gesso, con la seguente motivazione: “il racconto, espresso con efficacia, si distingue per l'impalcatura narrativa articolata e complessa al tempo stesso, per l’originalità della costruzione e per il tratto umano dell’impostazione psicologica. Giallo, per così dire psicoanalitico (la cleptomania dei due protagonisti), il racconto si caratterizza in particolare per l’ingegnosità dell’inusuale meccanismo criminale”. Pianista e musicologa, lo scorso anno Sara Vallefuoco ha pubblicato con la Mauro Baroni Editore La gabbia dell’uccello d'oro, un racconto giallo vincitore del premio speciale della giuria al concorso Orme gialle di Pontedera. La giuria del premio “Gran Giallo Città di Cattolica”, composta da Alberto Farassino, Mario Guaraldi, Luciana Leoni, Igor Longo, Carlo Lucarelli, Valerio Massimo Manfredi e Renato Olivieri, ha inoltre deciso di segnalare i racconti Il barbone di Paolo Chiari, per la qualità della scrittura e l’originale soluzione narrativa, e L’ultimo treno di Roberto Santini, per l’impostazione classica, per il tratto umano e la vena malinconica del protagonista. Il racconto vincitore sarà pubblicato nella collana “Il Giallo Mondadori” di luglio e presentato in occasione del festival.

Premio Cinearti-La chioma di Berenice[modifica | modifica sorgente]

Il premio, che Cosmoprof e Federacconciatori hanno assegnato in collaborazione con Adriaticocinema, è alla sua seconda edizione. E’ stato istituito con lo scopo di valorizzare il lavoro degli acconciatori, costumisti e truccatori che si sono distinti per la loro creatività in campo cinematografico, un'arte, la loro, che ha un ruolo molto importante nella realizzazione dei film, ma non sempre viene tenuta nella giusta considerazione. Il premio per il miglior costumista è stato assegnato a Dante Ferretti per il film Kundun di Martin Scorsese, mentre Marco Zanardi e Luca Oblach hanno ottenuto rispettivamente quello per le acconciature e quello per il trucco di Il testimone dello sposo di Pupi Avati. I tre premi speciali alla carriera sono invece andati a Milena Canonero per i costumi, a Jole Cecchini per l’acconciatura e a Manlio Rocchetti per il trucco. La premiazione, che si è tenuta a Bologna il 25 aprile in occasione della fiera Cosmoprof, è stata presentata da Siusy Blady.

Rimini: i mestieri del cinema[modifica | modifica sorgente]

Attività permanenti: idee per un laboratorio[modifica | modifica sorgente]

di Antonio Costa

Attività permanenti? Termine pericoloso da maneggiare. Soprattutto in un contesto “effimero” come quello di un festival, dove sembrano contare solo gli eventi che fanno notizia. E le attività permanenti, si sa, non fanno notizia. I festival le relegano tra le varie e eventuali. Le tirano fuori dal cassetto nei momenti di crisi, nelle fasi di transizione. In attesa di tempi migliori. Assumendo la responsabilità delle attività permanenti di Adriaticocinema, mi assumo un impegno in un settore in cui quello che conta è la qualità del progetto e la costanza dell'impegno per la sua attuazione (tutto questo si potrà verificare solo strada facendo), ma anche la capacità di adattare il progetto alle esigenze che emergeranno (di qui la necessità di partire con un progetto il più possibile aperto). Nell’esperienza maturata a Bellaria negli ultimi anni, era emersa con forza l’idea di far tesoro della presenza in giuria di professionisti prestigiosi: una volta poteva essere Renato Berta, operatore di Godard, Rohmer e Rivette; un’altra volta poteva essere Roberto Perpignani, montatore per Bertolucci, i Taviani, Bellocchio. Sembrava allora interessante far incontrare dei tecnici di grande esperienza con giovani che, spesso per la prima volta, si stavano cimentando con l’uso della pellicola e con il video. E a loro e a altri personaggi di questa levatura ci rivolgeremo per dare vita alle nostre attività permanenti. Ecco da dove viene l’idea di un laboratorio in cui studiare, pensare e fare il cinema. A questi “precedenti” vorrei aggiungere, per quanto più direttamente mi riguarda, l’esperienza fatta in sede didattica con l’ideazione del laboratorio di scrittura per il cinema che ho promosso nell’ambito del CIMES del Dipartimento di Musica e Spettacolo di Bologna, e dei cicli di incontri, ad esso strettamente collegati, sui mestieri del cinema (sceneggiatura, montaggio, organizzazione, ufficio stampa, critica, ecc.). Un laboratorio, dunque. Non l’ennesima riproposta di formulette per diventare “creativi” ingurgitando un po’ di pillole-lezioni teorico-pratiche su come si scrive un soggetto-scaletta-sceneggiatura-découpage tecnico ecc. Attività di questo tipo si fanno ormai dappertutto e lasciano per lo più il tempo che trovano. C'è qualcosa di più importante e prezioso di una pur necessaria conoscenza delle tecniche (di scrittura, di realizzazione, di montaggio). Ed è la capacità di pensare in modo originale, al di fuori degli schemi correnti. E ancora: la capacità di trovare in se stessi le reali motivazioni a esprimersi. Pensare un film (anche breve) e, in genere, un prodotto audiovisivo comporta prima di tutto la presa di coscienza delle proprie motivazioni, dei mezzi espressivi e delle possibilità tecniche che si hanno a disposizione. Significa comprendere le ragioni che spingono a cercare la via dell’espressione, della comunicazione Bisogna insomma essere capaci di interrogarsi sul cosa e sul perché dire, prima ancora che su come dirlo. Il laboratorio che qui proponiamo è un laboratorio di idee, prima di tutto. Per questo gli interventi non saranno solo sulla tecnica della scrittura-progettazione-realizzazione di un film, di un testo audiovisivo. Certo, in questo laboratorio si imparerà a non sottovalutare la tecnica. E pur essendo principalmente dedicato alla scrittura, non trascurerà di fissare periodici appuntamenti con tecnici della fotografia, del montaggio, degli effetti speciali. Ma in questo laboratorio si imparerà anche a non sopravvalutare la tecnica. Come diceva Michael Chapman, l’operatore di Taxi Driver e di Toro scatenato, “ancor oggi la risposta a un problema tecnico è paradossalmente una sceneggiatura migliore”. Un laboratorio di questo tipo avrà senso € troverà le sue ragioni di durata e di sviluppo solo se diventerà un centro di aggrega zione di persone che troveranno le ragioni per lavorare assieme e per comunicare, un centro di circolazione di idee: idee sul cinema che esiste e sulle tecniche che lo rendono possibile, ma idee anche sul cinema che potrà presto esistere. Quindi, un centro di elaborazione di idee, di proposte, di sperimentazioni. Per questo motivo, si partirà da un’esperienza pilota. Una tre giorni con Marco Bellocchio (primo film I pugni in tasca; ultimo, in ordine di tempo, La balia, unica presenza italiana a Cannes ‘99): nel corso di tre giorni, si penserà, si girerà e si monterà un breve film. AI di là del risultato (che non mancherà di essere interessante), questa esperienza costituirà il punto di partenza e di aggregazione per cominciare a pensare qualcosa di più complesso, pe cercare di capire cosa servirà approfondire per trovare una via all'espressione filmica e alla comprensione della comunicazione audiovisiva.

  1. Mario Monicelli, L’arte della commedia, Dedalo, 1986, pp. 62-67)
  2. (Lorenzo Codelli, Entretien avec Mario Monicelli, “Positif”, n. 185, sept. 1976, p. 24)
  3. I volti e le possibilità astratte, “Cinema nuovo”, a. VIII, n. 141, sett.ott. 1959, pp. 425-426