2002
Enti Promotori[modifica | modifica sorgente]
- Comune di Bellaria Igea Marina
- Assessorato alla Cultura
- Ministero per i Beni e le Attività Culturali
- Dipartimento dello Spettacolo
- Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini
- Sindaco: Gianni Scenna
- Assessore alla Cultura: Ugo Baldassarri
- Dirigente Settore Cultura: Stefano Coppini

Direzione[modifica | modifica sorgente]
- Direzione Artistica: Antorio Costa, Morando Morandini, Daniele Segre
- Direzione organizzativa, immagine: Antonio Tolo
- Segreteria, ricerca film: Michela Mercuri
- Catalogo, traduzioni: Gian Maria Tore
- Ufficio Stampa: Catia Donini
- Ufficio ospitalità: Cristina Gori
- Ospitalità: VerdeBlu
- Immagine di copertina: Tinin Mantegazza
- Proiezioni video: Mirco Ricci Rosalinda Celentano
- Videointerviste: Alessio Fattori
- Hanno collaborato: Irene Campana, Nicoletta Casali Daniele Segre, Giorgia Lazzari, Manuele Colamedici, Theologos Sideris
Giurie[modifica | modifica sorgente]
- Giuria del concorso Anteprima: Barbora Bobulova, Alberto Crespi, Caterina D'Amico, Roberto Perignani, Enzo Porcelli
- Segretaria di giuria: Nicoletta Donati
- Giuria del Premio Casa Rossa: Edoardo Bruno, Mario Calderale, Gianni Canova, Valerio Caprara, Alberto Crespi, Paolo D'Agostini, Silvio Danese, Piera Detassis, Fabio Ferzetti, Bruno Fornara, Tullio Kezich, Massimo Lastrucci, Emanuela Martini, Paolo Mereghetti, Roberto Nepoti, Cristiana Peternò, Alberto Pezzotta, Maurizio Porro, Adelina Preziosi, Roberto Pugliese, Mario Sesti, Giovanni Spagnoletti, Sandro Zambetti
- Giuria del concorso 150" a tema fisso: Antonio Costa, Morando Morandini, Daniele Segre
Presentazione[modifica | modifica sorgente]
di Gianni Scenna (Sindaco) e Ugo Baldassarri (Assessore alla cultura)
Ancora una volta Anteprima alza la mano e chiama l'attenzione da quest'Isola dei Platani di Bellaria Igea Marina dove l'albero del cinema indipendente si accresce del ventesimo anello. A salutare questo festoso compleanno una nuova direzione artistica che scaturisce dalle radici stesse del festival: lo sguardo della critica, il mondo dell'università e la pratica del cinema, ovvero Morando Morandini, Antonio Costa e Daniele Segre i cui prestigiosi, lucidi percorsi già erano intrecciati con la storia di questo festival. Il disegno dei rami resta quello di sempre, ben riconoscibile anche da lontano. Il nuovo è un traguardo formativo e già si fa sentire nella realizzazione di un video magazine quotidiano che chiamerà a raccolta, nei giorni del festival, le energie giovani per un progetto che è, semplicemente, il cinema del cinema. Anteprima - Bellaria Film Festival come display conclusivo del cinema indipendente italiano ma anche (e finalmente) sua nascita, sua causa, sua casa.
Allargare l'orizzonte[modifica | modifica sorgente]
di Morando Morandini
Nel suo ventesimo compleanno, dopo un quadriennio monarchico, Anteprima, il Bellaria Film Festival, riprende la sua formula repubblicana con la direzione artistica affidata ad un triumvirato di veterani. Lo è, a modo suo, ciascuno dei tre, anche l'esordiente Daniele Segre che nel 1984 vinse il primo Gabbiano d'oro. Non è la sola novità di quest'edizione. Assecondati e spinti dalla committenza pubblica - nelle persone del sindaco di Bellaria Gianni Scenna e dell'assessore alla cultura Ugo Baldassarri - ci siamo proposti due obiettivi: 1) rafforzare il rapporto di Anteprima con l'Università di Bologna e la Scuola Nazionale di Cinema di Roma; 2) creare le condizioni per dare inizio - nei fatti e non soltanto con parole, promesse, speranze - alle attività permanenti sul territorio. Il primo traguardo riguarda già il presente, l'edizione 2002. Con l'apporto di allievi dei due istituti di Bologna e di Roma si realizzerà dal 6 al 9 giugno un video-magazine per offrire agli ospiti e al pubblico un prodotto che faccia la cronaca giornaliera del festival Il secondo traguardo è più ambizioso, complesso e costoso, richiederà tempi medio-lunghi per la sua realizzazione. L'intento non è soltanto di migliorare l'identità e l'originaria vocazione di Anteprima, ma di trasformarla gradualmente in una Festival Factory. Invece di limitarsi a mostrare una volta all'anno una selezione dei video-film indipendenti, si vorrebbe promuovere e facilitarne la realizzazione. Non soltanto: istituire corsi di formazione professionale audiovisiva per la realizzazione di prodotti di pubblica utilità. E ovvio che questo progetto avrà bisogno della disponibilità della regione e di altri enti, associazioni, organizzazioni del territorio. In questa direzione abbiamo già fatto qualche passo: 1) il concorso “Cinema per la realtà” per proposte di brevi documentari (su due temi: il divertimento, gli stranieri) da girare nel territorio di Bellaria Igea Marina. I vincitori del concorso saranno ospitati nelle fasi della preparazione e delle riprese dei documentari da terminare entro il 15 settembre 2002. I loro lavori saranno mostrati nei mesi successivi in iniziative pubbliche sul territorio e proiettati al Bellaria Film Festival 2003; 2) durante l'edizione 2002 sarà presentato a Bellaria in anteprima Un giorno a Roma, documentario realizzato dagli allievi del primo anno della Scuola Nazionale di Cinema sull'esperienza della Caritas Diocesana Romana. Saranno presenti gli studenti, il direttore didattico della scuola Caterina d'Amico e i responsabili della Caritas: 3) con la partecipazione di A proposito di sentimenti a Bellaria si avrà la possibilità di conoscere il lavoro dell'Associazione Italiana Persone Down di Roma alla presenza di ragazze e ragazzi down e di esperti delle associazioni che operano nella regione Emilia- Romagna. La partecipazione al XX Bellaria Film Festival è stata rilevante. A Concorso Anteprima sono stati presentati 332 video-film (dai 2° ai 100 di durata): selezionati 35 per il concorso e 15 fuori concorso. La loro provenienza geografica vede al primo posto la regione Emilia-Romagna con 106 opere (di cui 37 da Modena e 30 da Bologna), seguita da Roma con 82, Milano con 27, Napoli con 13, Torino con 8, Palermo con 6, Ellera Umbra (PG) con 5. Sono giunti tre video-film dalla Svizzera (uno ammesso al concorso), tre da Parigi e uno ciascuno da Bruxelles e dall'Eire (Rep. d'Irlanda). Da quest'anno il concorso era stato esteso ai registi svizzeri, purchè i loro film fossero in lingua italiana: è un altro modo per allargare il nostro orizzonte. Tra i criteri del lavoro di selezione per il concorso c'è anche quello di tenere in equilibrio le proporzioni tra fiction e documentario. Speriamo di esserci riusciti sebbene rimanga il rimpianto di aver sacrificato qualche documentario anche per ragioni i durata. Il caso ci ha aiutati. Tra Bronte (1972), l'originale film di Florestano Vancini, presentato in edizione restaurata e arricchita di 16 minuti per continuare l'iniziativa dei “Trent'anni dopo” cominciata nel 1994, e il documentario Carlo Giuliani, ragazzo di Francesca Comencini, reduce da Cannes, esiste un nesso profondo e significativo: sono entrambi di controinformazione. Non sono novità i film che concorrono al premio Casa Rossa né la retrospettiva francese Paris Films Coop. Abbiamo deciso di presentarli tutti e otto, i film scelti per il Casa Rossa, perché molti di loro appartengono alla maledetta categoria degli “invisibili”, vittime della censura del mercato, cioè così poco e male distribuiti che in qualche caso sfuggono persino ai critici e ai giornalisti. Curata da Antonio Costa, la retrospettiva francese (4 ore di durata) comprende film di corto o di mediometraggio, in gran parte degli anni ‘70, realizzati nell'ambito dell'Università di Vincennes. E una tappa di quella ricognizione del cinema d'avanguardia che a Bellaria cominciò negli anni ‘90. E un altro modo di allargare l'orizzonte alla ricerca del nuovo e di continuare un discorso nel rispetto dell'identità e della vocazione di questo festival.
Concorso[modifica | modifica sorgente]
- L'armadio di George Kaplan
- Beatrice Novecento di Carlo Gazzotti
- Caino di Claudio Giovannesi
- Cameracar di Giorgio Carella, Paolo Cognetti
- Les chants de Maldoror di Fabio Bianchini, Alberto Di Cintio
- I corti di Gaia seconda parte di Gaia Bracco
- Dedicatoria di Katyuscia Fantini
- Doggy bag di David Zamagni, Nadia Ranocchi, Monaldo Moretti
- La dolce vita di Tommi & Gigi
- The Fall di Mauro Vecchi
- Farebbero tutti silenzio di Andrea Zambelli
- Fatevi sotto, bastardi! di Umberto Zago
- Fegatelli di Gabriele Anastasio
- Finale di Walter Fasano
- La fine della vita di Fritz Lupica
- Una fuga. DissolvEnza in fiume di di Stefano Beltrami, Riccardo Manfredi
- Il giardino del sonno di Matteo Monti, Davide Zagnoli
- Giochi d'ottobre di Valentina Lari
- I graffiti della mente di Pier Nello, Erika Manoni
- La Guerra d'amore di Annika Giannini
- History of b. di Stefano Odoardi
- Incastro di Gabriele Moro
- InnamorADO di Paolo Vandoni
- remember - genetic memory di Davide Pepe
- K di Simona Mariucci
- Ein Kleines Nachtproblem di Lorenzo Bigagli
- Mater di Vincenzo Mancuso
- Mille non più mille di Marcello Vai
- Non c'è storia di Carla Pagliuca
- Ora dicono fosse un poeta. Conversazioni e divagazioni con Bruno Lauzi di Antonio De Lucia, Filippo Viberti
- Il re è nudo di Alessia Lucchetta
- Senza terra/ Sem terra di Elisabetta Pandimiglio, César Meneghetti
- La spola di Alberto Comandini
- La sua gamba di Francesco Costabile
- Time enough di Stefania Opipari
Concorso 150”a tema fisso: “Emergenza”[modifica | modifica sorgente]
- L'abito di Carlo Gazzotti
- Attacco: 11 settembre 2001 di Andrea Baldassarri
- Bio di Claudio Saponara
- The buzz di Mario Tani
- Cell di Gianluca Abbate
- La cinepresa a tracolla di Michele Ceppi
- Così diversi... così simili... se “guardi” col cuore di Francesco D'Imperio
- Così è... (Così vicini così lontani) di Simone Lecca e Michele Ceppi
- Delicious di Michele Senesi
- Di come Eraclito morì annegato di Francesco Giarrusso
- Ecosviluppo di Beatrice Benocci e Davide Scannapieco
- EM 1109 di Andrea Croci
- Emergènza di Francesca Albano
- Emergenza di Stefano Baccherotti
- Emergenza di Giovanni Calamari
- Emergenza! di Marco Colacioppo
- Emergenza di Valentina Di Liddo
- Emergenza di Alice Rosa
- Emergenza limbo di Stefano Franceschetti e Cristiano Carloni
- En plein air di Sara Cupaiola
- Giulio è morto di Paolo Grosso
- Glob di Jacopo Martinoni
- Goccioloni di Giò Roseano
- Il grido di Felice Farina
- Immateriale sintetico non infiammabile di Giovanni Lasi e Andrea Righi
- Io non posso entrare di Michelangelo Frammartino
- Locabiotal di Gianluca Abbate e Riccardo Cremona
- Il mondo è di tutti... di Marina Mesnic
- Odissea d'ombre di Beppe Varlotta
- L'ombra di Stefano Giovagnoli
- Onde di neve di Elisa Carpini
- Otter ferrero di Giovanni Bufalini
- Preghiera per un bambino di Alessio Cancellieri
- Pro/gettati di Blumaria e Michela Franzoso
- Qualcuno di Federico Lai
- Ritengotrattenuto di Giacomo Cesari
- River di Luisa Pretolani
- Seminammorbidente di Federico Tinelli
- Sentòre di piazza Luca Berardi
- Sometimes di Federico Della Corte
- Sorpresa di Samuele Romano
- Specchio delle mie brame di Michela Franzoso
- Top gun di Maurizio Failla
- Train de vie di Ettore Ferrettini
- ...Vittoria di Luca Passoni, Giovanni Ziberna, Niccolò Mazzolini, Sergio Bencivenni
- Willer di Stefano Trentini
- 02/04/2002 h 1:38 Deheishe refugees camp di Andrea Zambelli
Premio Casa Rossa[modifica | modifica sorgente]
- L'uomo in più di Paolo Sorrentino
- L'amore imperfetto di Giovanni Davide Maderna
- L'amore probabilmente di Giuseppe Bertolucci
- Come si fa un martini di Kiko Stella
- Jurij di Stefano Gabrini
- Sole negli occhi di Andrea Porporati
- Tornando a casa di Vincenzo Marra
- L'ultima lezione di Fabio Rosi
Festa di compleanno: Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini[modifica | modifica sorgente]
Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini
Storia di un film storico[modifica | modifica sorgente]
Il caso Bronte[modifica | modifica sorgente]
di Pasquale Iaccio[1]
Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato è un'opera cinematografica in cui si condensa una straordinaria quantità di elementi diversi. Bronte è - innanzitutto - un film di alto livello estetico e di fattura assai originale che i quasi trent'anni che ci separano dalla sua uscita non hanno intaccato. Ma non è solo un film. È un “evento” in cui il cinema si è intrecciato con molti altri fattori e molte altre discipline, come la storia (del Risorgimento, ma anche degli anni in cui il film è stato realizzato ed è circolato), la letteratura (fu ispirato da un’oscura novella di Verga, Libertà, e tra gli sceneggiatori troviamo un altro grande scrittore siciliano: Leonardo Sciascia), la politica e l'ideologia, per le connotazioni e i significati che, a torto o a ragione, gli sono stati attribuiti da molti recensori. E si potrebbe continuare ancora. Che un film non sia solo un’opera estetica è una caratteristica che connota il cinema narrativo fin dalle sue prime prove, specie se affronta argomenti di carattere storico. Non è un caso che anche il primo film di finzione italiano, La presa di Roma di Filoteo Alberini del 1905, sia un film storico e, cosa da sottolineare, di storia del Risorgimento. La qualità maggiore che gli stessi realizzatori attribuivano a questo film era proprio la sua storicità, la fedeltà che avevano cercato di conseguire rifacendosi a particolari realistici, a cominciare dalla presenza di personaggi storici per finire all'ambientazione sui luoghi in cui l'evento era accaduto, compresa la riproposizione delle divise dei combattenti ricavate da foto d'epoca. Per l'Italia d'inizio secolo la presa di Roma era un episodio quasi sacro della sua storia recente e lo testimonia anche il tipo di percezione che la pellicola ebbe quando venne presentata al pubblico. Il significato storico dell'avvenimento fu di gran lunga preponderante rispetto a qualsiasi altro significato e a qualsiasi considerazione di carattere estetico. Esaltazione del Risorgimento e dei suoi massimi eroi, quindi, nel pieno rispetto della storia ufficiale. Non sarà un caso, in seguito, se anche il primo Kolossal della cinematografia italiana (di molto cresciuta rispetto alla pionieristica opera della ditta Alberini- Santoni) sia il famoso Cabiria di Giuseppe Pastrone del 1913 che si giovò della collaborazione di Gabriele D'Annunzio. [...] Da La presa di Roma del 1905 a Bronte del 1972 si può dire che il cerchio si chiuda e il medesimo tema viene rappresentato prima nella sua massima esaltazione e dopo nella sua massima dissacrazione. Se dovessimo cercare un esempio di intreccio tra storia e cinema, con tutti i significati che comporta col passare del tempo e il mutare delle epoche, non potremmo trovare un caso più calzante. Esaminare come il Risorgimento sia potuto diventare un caso, addirittura imbarazzante, di contro-storia, com'è accaduto col film di Vancini, sarà la cartina di tornasole che ci guiderà nell'analisi del film e delle reazioni che suscitò.
All'origine di Bronte: la novella Libertà di Giovanni Verga[modifica | modifica sorgente]
di Giovanni Verga[2]
Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: "Viva la libertà!". Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola. - A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! -A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede - Perché? perché mi ammazzate? - Anche tu! al diavolo! - Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. - Abbasso i cappelli! Viva la libertà! - Te"! tu pure! - Al reverendo che predicava l'inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll'ostia consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! - La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l'inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. - Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse - lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don Paolo il quale tornava dalla vigna a cavallo col somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva il capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone mentre aspettava coi cinque flgliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. - Paolo! Paolo! - Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello. Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l'oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu fuggiva, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare, lo rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e gliel' aveva sfracellata nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni - e tremava come una foglia - Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tu- Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando d'ira in falsetto. - Tu che venivi a pregare il buon Dio colla di seta! - Tu che avevi a schifo d'inginocchiarti accanto alla povera gente! - Te"! Te"! - Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure! La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schioppettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c'era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. Viva la libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulle gradinate, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata - e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch'esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: - Mamà! mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l'uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s'era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. l’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avute cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L'altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria. E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte. Aggiornava; una domenica senza gente in. piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s'era rintanato; di reti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica come i cani! Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio. E come l'ombra s‘impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell'Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra di sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. - Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! - Se non c'era più il perita per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! - E se tu ti mangi la tua parte all'osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? - Ladro tu e ladro io. - Ora che c'era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! - Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure. Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camice rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per schiacciarti tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo. IL generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi, ragazzi come un padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schiopettate în fila come i mortaletti della festa. Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali; arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d'oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell'ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane, il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull'uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, Prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre. Colle proprie mani, e la povera gente, non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L'orfano dello speziale rubava la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che il marito le tagliasse la faccia, all'uscire dal carcere egli ripeteva: - Sta' tranquilla che non ne esce più. Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche che vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano e si persuadevano che all'aria ci vanno i cenci. Il Processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia - ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s'era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell'uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: - Sul mio onore e sulla mia coscienza!... Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In galera? - 0 perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà!...
L'ideazione e la progettazione di Bronte: Florestano Vancini, il regista[modifica | modifica sorgente]
di Pasquale Iaccio[3]
“Per parlare di questo film devo partire da molto lontano e ricordare il mio rapporto con Giovanni Verga. Ho scoperto Verga mentre ero studente, negli anni quaranta, quando eravamo in pieno fascismo, e ho cominciato a coltivarlo ben oltre i miei doveri scolastici. Per me rappresentò un momento importante di formazione culturale. Verga, inoltre, diventava in quegli anni modello per il gruppo che si andava formando attorno alla rivista “Cinema” e che era il nucleo dei futuri autori del cinema italiano del dopoguerra. Su Verga, De Santis, Lizzani, Pietrangeli, Visconti, Antonioni, costruiscono le basi teoriche di ciò che sarà poi il neorealismo e cioè l'attenzione alla realtà, al mondo del lavoro, alla quotidianità per superare tutti gli orpelli che la cultura fascista aveva messo in campo in quegli anni. Quanto a me, liceale, mi colpisce in particolare una novella, Libertà, nella quale coglievo un Verga diverso da quello delle novelle rusticane e anche da quello dei romanzi. Lui era generalmente preciso e attento alla topografia, oltre che alla geografia, dei luoghi. Era solito nominare località che probabilmente non esistevano nemmeno nelle mappe, per il gusto di calarsi nella piccola realtà di un mondo minuto, quasi di formiche, che spesso raccontava. Libertà, invece, era per me una novella misteriosa, parlava di un paese delle montagne dove dei contadini si sarebbero scagliati contro i padroni, non si capiva quando, nun si capiva deve. La vicenda, stranamente, non era collocata in un luogo preciso. Ad un certo momento arrivava un generale misterioso che faceva dormire i suoi uomini nella chiesa, poi c'era una specie di rappresaglia. Ma cave? Come? Perché? Passò del tempo e negli anni cinquanta comincio a fare cinema. Arrivato a Roma, con un produttore di documentari, pensai ad un progetto di tre documentari da fare in Sicilia e li girai subito dopo. Non ero mai stato in Sicilia prima d'allora. Il mondo dell'isola, la cultura, la storia mi appassionarono molto. Approfondii tutta la narrativa siciliana: Capuana, De Roberto e poi Pirandello... Era il ‘51 e girai un documentario su Verga, su i luoghi e le figure di questo autore per me così importante. L'altro documenta- rio riguardava un paese sul Tirreno rivolto verso le Eolie vicino Sant'Agata di Militello. [...] Quando mi trovavo a Catania, che costituiva la base operativa per i nostri documentari, avevo già l’idea di fare qualcosa che riguardasse questo autore. Non il Verga del mare, cioè I Malavoglia, anche perché, pochi anni prima, Visconti aveva girato La terra trema. Non potevo tornare ad Aci Trezza per un film dello stesso genere. Andai a visitarla ugualmente, in una sorta di doppio pellegrinaggio: per Verga, che amavo già da molto tempo, e per La terra trema, che avevo visto qualche anno prima. Decisi allora di fare un documentario dedicato al fronte “rusticano” della Sicilia, da girare quasi tutto nella zona di Vizzini. Durante le riprese dormivamo a Catania perché a Vizzini non c'era albergo. E proprio a Catania mi capita di conoscere un professore di lettere. Naturalmente ci mettiamo a parlare di Verga e io gli chiedo di spiegarmi i lati oscuri della novella Libertà. Gli faccio il discorso che ho fatto prima. Verga sempre così preciso... E lui mi fa: “Ma come. Non lo sa? Bronte...”. E così mi racconta di Bronte nel 1860, un paesino vicino all'Etna, eccetera. Insomma mi dà molte informazioni e le risposte che aspettavo da quando ero liceale. Da allora non ho abbandonato più l'argomento. Negli anni successivi continuavo a fare ricerche. Intanto vado avanti nella mia attività nel mondo del cinema finché non giunse l'ora del mio primo lungometraggio nel 1960. Dentro di me, però, coltivavo sempre l'interesse per la Sicilia al punto che, mentre giravo La lunga notte del ‘43, continuavo a lavorare alla sceneggiatura di Bronte, che avrebbe dovuto essere il film successivo. Secondo i miei piani, in accordo anche con un produttore, avrei dovuto girarlo immediatamente dopo La lunga notte del ‘43. Invece questo copione, che era già pronto nel ‘61, giacque in un cassetto per nove anni, fino al 1970. Il film infatti fu girato solo nell'estate del 1970 con il contributo della Rai. Quando nel ‘69 mi fu offerta, quasi casualmente, la possibilità di realizzarlo con l'intervento della Rai, naturalmente colsi l'occasione al volo... Finalmente avevo l'occasione di realizzare il mio vecchio progetto, ma, per vederlo ultimato, dovetti penare ancora parecchio. Infatti, a lavoro finito, i dirigenti della Rai rimasero scioccati da alcune immagini del film ed ebbero molti dubbi e molte perplessità a mandarlo in onda, non si decidevano a sbloccarlo. Alla fine, consentirono a me e al produttore, che era Mario Gallo, di rimaneggiarlo e farne un'edizione un po’ più breve per poterlo collocare nelle normali sale cinematografiche. Ci diedero, così la possibilità di tornare alla versione iniziale del film, ripristinando il mio progetto originario. E infatti rimontammo il lavoro in una versione che è poi quella conosciuta. La versione Rai non è stata mai più mandata in onda. [...]
Può brevemente riassumere l'episodio di Bronte? Era un episodio completamente ignorato. Sa il titolo preciso qual è? Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato. Non era stato mai raccontato, non solo dai libri di storia delle scuole, ma neanche dalla grande storiografia. Nel 1960 l'Italia festeggiava il centenario dell'Unità con grandi celebrazioni a tutti i livelli. A Palermo venne organizzato un convegno di tre o quattro giorni con i più grandi storici italiani e del resto del mondo sul tema: La Sicilia e l'Unità d'Italia. Gli atti vennero pubblicati dalla Feltrinelli in due volumi e costituiva il corpus delle ricerche storiografiche più avanzate fino a quel momento. Del problema di Bronte però non si parlava come non si parla del problema dei contadini della Sidi; in quegli anni.
Lei come è riuscito a ricostruire quell'episodio in manie così precisa come appare nel film? Prima di tutto sono andato a Bronte, dove si trovavano interessanti documenti, tra cui un libro, che non c’erano neanche nelle biblioteche nazionali. Fu pubblicato agli inizi del Novecento da un avvocato di Bronte a sue spese. (costui, figlio di un notaio, all'epoca dei fatti aveva 10-11 anni). Durante la maturità si mette a studiare la storia di Bronte e pubblica tre ponderosi volumi cominciando dalle leggende preistoriche. L'ultimo volume è dedicato ai fatti del 1860. Chi è l'autore? Benedetto Radice, se non sbaglio. Il titolo? Non ricordo il titolo di tutta l'opera, ma l'ultimo volume si intitola intitola Nino Bixio a Bronte. Tornando al mio sopralluogo, dopo qualche giorno trovo questo libro. E' già una grossa conquista perché è molto dettagliato, quasi un diario quotidiano di quei giorni con i personaggi che cominciano ad emergere e una narrazione molto rigorosa. Ma soprattutto mi convinco che, per capire esattamente cosa fosse accaduto, bisognava andare negli archivi del tribunale di Catania a tirar fuori gli atti giudiziari. Mi riferisco al processo che si celebrò a Catania tre anni dopo i fatti, cioè nel 1863, e che culminò con una serie di condanne all'ergastolo. Il cerchio si chiude, perché la novella Libertà di Verga illustra i fatti di Bronte raccontando di un processo che si celebra a Catania, al quale Verga, evidentemente, aveva assistito. E infatti nella novella rievoca, attraverso squarci di racconti e di testimonianze che si erano avute durante il processo, ciò che era accaduto in quello sperduto paese di montagna. È un particolare importante perché conferma che a Catania era stato celebrato un processo al quale Verga aveva assistito. Da qui doveva essere nato lo stimolo a scrivere il racconto. Gli atti giudiziari furono trovati e studiati da un mio amico ricercatore, che si adoperò per mesi e alla fine raccolse una enorme mole di documentazione che fu alla base del mio film. Per quanto riguarda il personaggio di Nino Bixio, ho cercato lettere, documenti, proclami, tutte cose che non erano mai state indagate prima d'allora. [...] Il lavoro di sceneggiatura ebbe varie fasi. La prima versione la scrivemmo io e Fabio Carpi. Pur ritenendoci preparatissimi sulla storia e la cultura siciliana, eravamo pur sempre due padani; io ferrarese, Carpi milanese. Sentimmo il bisogno di avere il contributo di un siciliano autentico perché, anche se ci basavamo sui documenti dell'epoca, avevamo una specie di timore ad affrontare la psicologia siciliana. In quegli anni, 1960-1961, stava affermandosi un giovane scrittore siciliano di cui leggevamo le prime pubblicazioni e che ci interessava moltissimo. Si chiamava Leonardo Sciascia. Lo contattammo e gli chiedemmo di collaborare con noi. Lui fu ben felice. Credo sia stata l’unica volta che Sciascia abbia collaborato a un film perché, anche per i molti film tratti dalle sue opere, non ha mai voluto collaborare alle sceneggiature. Con Sciascia stendemmo il copione del film che rimase fermo, come ho detto, per 8-9 anni. Nel momento in cui noi prendemmo accordi con la Rai ci fu chiesto un ampliamento della sceneggiatura. Era già un copione molto grosso e calcolavamo che avremmo superato le due ore. Ma la Rai ci chiese di farne tre puntate da 50 minuti, come si faceva in quel periodo. Allora, per questa rielaborazione, intervenne un altro sceneggiatore siciliano: Nicola Badaluccio.”
La realizzazione e la circolazione di Bronte: Mario Gallo, il produttore[modifica | modifica sorgente]
di Pasquale Iaccio[4]
“Nell'epoca d’oro del cinema italiano oltre alle “sette sorelle” americane, c'erano 15 noleggiatori italiani e un centinaio di produttori i quali, godendo di una sufficiente libertà, intercettavano le idee che nascevano in quel periodo, le facevano maturare dialogando con scrittori e registi, stabilivano contatti con altri produttori europei e contribuivano alla nascita e allo sviluppo di un fenomeno artistico e culturale apprezzato in tutto il mondo. Allora l'Italia possedeva un notevole patrimonio cinematografico, e c'era il terreno (un mercato abbastanza aperto) su cui poteva esprimersi. Voglio dire che non mancavano, come mancano oggi, le condizioni minime ed essenziali per dar vita ad una attività che consenti all'Italia di essere, dopo gli USA, il secondo paese esportatore di film. Purtroppo le situazioni favorevoli che hanno consentito di raggiungere simili traguardi, sì sono create, in gran parte, per una serie di circostanze fortuite e con la consapevolezza, spesso parziale, di una esigua minoranza. Tanto è vero che nessuno ha mai cercato e cerca di ricrearle e percorrere strade che non hanno uno sbocco. Questa succinta premessa è necessaria per capire come sia stato possibile realizzare un film come Bronte che, peraltro, costituiva un'eccezione anche nel panorama cinematografico del 1970, e perché oggi imprese del genere sono non solo ardue ma inimmaginabili. Sono stato sempre molto interessato ai problemi organizzativi, economici, produttivi e politici del cinema, ho diretto e prodotto alcuni documentari, ho esercitato la critica cinematografica, ma fino al 1964 non avevo mai pensato di cimentarmi nella produzione. Fu Florestano Vancini che m'indusse a prendere in esame questa eventualità quando mi parlò di un suo progetto, Le stagioni del nostro amore, che non riusciva realizzare come voleva. De Laurentiis era disposto a produrlo, ma alla condizione che non si parlasse di politica. Il soggetto del film, però, era la crisi politica di un intellettuale di sinistra che diventa anche crisi esistenziale. Senza la politica la storia d'amore tra l'inquieto protagonista e una brava ragazza sarebbe diventata un fumetto. Per di più la tesi politica non era ortodossa e la trasgressione non è stata mai perdonata a Vancini e al sottoscritto. Florestano ed io c'improvvisammo produttori. Costituimmo una società e andammo alla ricerca di un committente. Il progetto piacque a Renzo Ventavoli, un dirigente colto, intelligente della società di distribuzione Medusa. Il film fu realizzato con il minimo garantito del noleggio e un prestito che ci concesse la BNL dando in garanzia le nostre rispettive abitazioni. Le stagioni del nostro amore osteggiato dalla critica di sinistra, ebbe un buon successo di pubblico, vinse il premio della critica internazionale al Festival di Berlino e varcò anche i confini del nostro paese.
Critica di un film critico[modifica | modifica sorgente]
Florestano Vancini: “il film storico”[modifica | modifica sorgente]
di Pasquale laccio[5]
Dicevo a me stesso, ai collaboratori e agli operatori che avremmo dovuto girare il film dando la sensazione che in quell'estate del 1860 a Bronte ci fosse un misterioso cineoperatore che, non veduto, riprendeva quanto stava accadendo. Ho cercato di narrare i fatti così come sono risultati dalle ricerche e dai documenti raccolti. Certo, dando anche delle emozioni nel rapporto con un mondo di contadini che vivevano in condizioni assolutamente subumane. Abbiamo trovato un’ampia documentazione che dimostra cos'era la vita in Sicilia in quel momento. I fatti, poi, si svolgono nel giro di soli 2-3 giorni, tutto è molto convulso, drammatico, violentissimo e anche il film è girato in maniera rapida e convulsa, come quegli avvenimenti, con la macchina da presa sempre in movimento, in mezzo alla gente. Solo in quei pochi attimi in cui i personaggi sono perplessi o attoniti nel loro privato, c'è un momento di stasi nella dinamica del racconto e quindi anche nel modo della ripresa. È un film che, praticamente, ho girato senza carrello, non ho mai cercato l'inquadratura perfettamente ricostruita, elegante, equilibrata. Diciamo meglio: le inquadrature sono tutte costruite, ma con l'aria di fare una ripresa da cineattualità, di rappresentare gli avvenimenti mentre accadono [...] Per quanto mi riguarda, il film storico è un film che deve porre dei problemi, che deve guardare ad un certo periodo storico in maniera nuova, diversa. Non a caso La lunga notte del ‘43 è un film ambientato nella mia città, Ferrara, [...] ho assistito ad un episodio tremendo che fu anche il primo massacro commesso in quel periodo e che diede inizio alla Resistenza e alla guerra civile. Si tratta dell'uccisione di persone, assolutamente innocenti, avvenuta al centro di Ferrara. [...] Anche quell'episodio non l'ho affrontato in maniera celebrativa, l'ho trattato in modo problematico, con le domande che avevo cominciato a pormi fin da allora. Cioè che cosa ha significato e che cosa è stata la Resistenza e la guerra civile in Italia in quel periodo? Come il popolo italiano l'ha vissuta, fuori dalla celebrazione, dall'iconografia, dalla visione manichea di tutti buoni, tutti eroi e tutti malvagi. Gli stessi problemi sono presenti in un film, solo in parte storico, come Le stagioni del nostro amore. Siamo nel ‘66, racconta la crisi di un intellettuale comunista che ha vissuto l'esperienza della Resistenza nel Nord e che ripensa e rivisita questi momenti della gioventù. Li inquadra anche in maniera abbastanza critica per approfondire, per capire perché le cose sono andate in un certo modo. E così via fino al Delitto Matteotti, successivo a Bronte. In questo film affronto, non tanto l'episodio dell'uccisione di Matteotti da parte di una squadraccia fascista, che è narrato comunque. Ma il vero problema che mi pongo è perché avviene una crisi in Italia nel secondo semestre del ‘24.
Bronte: cronaca di ciò che i critici hanno raccontato[modifica | modifica sorgente]
di Vincenzo Esposito[6]
Da un lato i recensori di destra (capitanati dall'agguerrito Angelo Solmi) che accusarono il film di capziosità, quando non addirittura di falsità storica; sul fronte opposto alcuni critici marxisti (si veda, ad esempio, la posizione di Roberto Alonge su «Cinema Nuovo») che, identificando evidentemente nella figura dell'avvocato Lombardo la posizione di Vancini stesso, videro nella lezione storica di Bronte un esempio di “riformismo politico”. Vi furono, come ricorda Vancini, anche gli “indifferenti”, coloro che per abitudine o incapacità trattarono il film con sufficienza, occultando la problematicità tematica del film dietro il paravento estetico, ma non rappresentarono, per fortuna, la maggioranza. Buona parte dei recensori comprese il senso profondo dell'operazione vanciniana, e, sebbene costretta a far quadrato intorno al film per difenderlo dagli irrazionali strali dei conservatori, trovò comunque la forza per esprimere serenamente dei giudizi sui temi e i significati dell'opera. Vanno annoverati, a tal proposito, almeno gli scritti di Alberto Moravia, Jacques Nobécourt (inviato del quotidiano francese «Le Monde»), Mino Argentieri, Bruno Torri e Lino Miccichè. La copiosità di articoli, dibattiti e animate tavole rotonde che il film di Vancini fece registrare testimonia che l'opinione pubblica non rimase completamente indifferente di fronte alla forza d'urto sprigionata dalla rivisitazione storica dei “fatti di Bronte”; anche se la “querelle” brontina - che sfiorò talvolta la polemica spicciola - non si tradusse immediatamente in una spinta promozionale per il film. Gli attacchi della destra partirono dalle pagine del settimanale «Oggi» [Caro Vancini, Bixio non era nazista, «Oggi», n.21, 20 maggio 1972]. In una lettera aperta, Angelo Solmi, critico del rotocalco rizzoliano, accusò il regista di “lesa patria” e “demagogia elettorale”, sottolineando, altresì, di essersi “vergognato” di fronte alla rappresentazione di un Nîno Bixio “nazista”. l'articolo comincia così: «Caro Vancini, mi sono vergognato che un regista di tanta finezza stilistica e di tanta sensibilità abbia potuto porre il suo innegabile talento al servizio di un autentico falso storico, probabilmente per un'operazione demagogica preelettorale». La recensione di Solmi, in realtà poco articolata, si concentra intorno ad un generico, quanto sciovinistico, panegirico dell’eroe Bixio”, e lascia alquanto in ombra la questione estetica, limitandosi a ricordare ‘en passant’ che «Bronte in sé per sè, è tutt'altro che un film mal fatto». Tito Guerrini su «Umanità» [Tito Guerrini, “Bronte” di Florestano Vane, «Umanità», 30 maggio 1972], rincalzò la dose e accusò Bronte di superficialità ed eccessivo schematismo: "I contadini di Bronte convincono più per la loro passionale violenza (un po' alla “Western”) che non per le precise e intime ragioni che li inducono a comportarsi in un determinato modo. E poi c'è Nino Bixio che il regista dipinge, grosso modo, come un generale nazista. [...] Ritengo insomma, che Florestano Vancini abbia affrontato il problema, peraltro così interessante ed importante, con molta superficialità. Ma questa superficialità è probabilmente connaturata alla sua natura, è la “macchia” del suo indubbio talento registico. E il fatto che le sinistre, per puro gioco politico avvallino questa macchia, è quantomai sintomatico». Quasi tutte le recensioni apparse sulle pagine della stampa conservatrice e filogovernativa condivisero le accuse di "lesa patria” - sorte riservata precedentemente, ricordiamo, anche al Rosi di Uomini contro e al Monicelli de La grande guerra - e “demagogia elettorale”, ma i toni, per fortuna, non furono sempre triviali. Talune speculazioni critiche della destra moderata (quelle perimetrate nell’ambito del civile confronto di idee), per quanto opinabili, contenevano spazi esegetici comunque interessanti. Domenico Meccoli, ad esempio, su «Epoca» [Le lacrime di Nino Bixio e il sangue di Trotsky, «Epoca», n. 1128, 14 maggio 1972] partendo da un assunto di base secondo cui Bronte non sarebbe un racconto cronachistico, come vorrebbe invece far credere il titolo, definisce il film di Vancini un’opera costruita intorno ad una tesi classista e rivoluzionaria che «induce a me dilatare certi eventi della nostra storia dove è possibile scoprire, sia pure in parte, le ragioni del nostro presente. [...] In sintesi, con un vigore spettacolare che ricorda quello dell'opera prima di Vancini, La lunga notte del ‘43, il film vuole dire che i diseredati del Meridione, beffati di trasformismo delle classi dirigenti, incompresi e strumentalizzati, non avevano allora (e, si sottintende, non hanno oggi) altro modo di risolvere il problema della loro miseria se non con l'acquisizione della coscienza di classe e col rifiuto di un ingannevole riformismo. La tesi è abilmente sostenuta attraverso il fallimento dell'opera dell'avvocato Lombardo». Meccoli, proseguendo nel suo parallelismo tra i “fatti di Bronte” e i “fatti del ‘72” definisce, inoltre, il film «capzioso» perché nella sconfitta finale dell'avvocato Lombardo vi si riscontrerebbe anche «una constatazione che il capo dei carbonai non aveva torto nel prevedere che i ‘galantuomini’ avrebbero trovato la protezione delle baionette garibaldine. Il discorso è ovviamente capzioso. Identifica - tema dei nostri giorni - l'ordine con la repressione». L'articolo di Meccoli trova, paradossalmente, la sua speculare controparte nelle pagine di «Cinema Nuovo» [Roberto Alonge, Una tragedia riformista tra storia e politica, «Cinema Nuovo», n. 222, a. XXII, marzo-aprile 1973, p.16]. Sulla rivista di cultura marxista diretta da Guido Aristarco, Roberto Alonge — partendo ovviamente da posizioni politiche diametralmente opposte a quelle del critico di «Epoca», e, va detto, facendo sfoggio anche di un ben altro rigore interpretativo — arriva a conclusioni “parallelamente convergenti”. Alonge ritiene che Bronte nasconda dietro l'apparenza storica una sostanza politica: «il discorso sul passato lascia intravedere il discorso sul presente, sull'oggi», e, proseguendo sullo stesso binario di Meccoli, intravede nella dicotomia passato-presente la volontà di Vancini di riproporre in chiave polemica il dibattito attuale sulla legalità borghese, il concetto equivoco di libertà e l’uso della violenza. Ma, per il critico, l'esito a cui giunge il regista è «quello polemico del movimento operaio ufficiale verso le avanguardie della sinistra di classe». Per Alonge il discorso che emerge dal film è chiarissimo: «È il rifiuto della violenza, il rifiuto di distinguere violenza che opprime da violenza che libera. [...] L'uomo che nel prologo aveva picchiato il villano e il figlio, è costretto a subire la legge del “contrappasso”: braccato a sua volta nei campi, gettato a terra, spinto a raccogliere delle fascine, e quindi ammazzato con il calcio del fucile. [...] È la nemesi: la vittima di ieri diventa carnefice, e il carnefice diventa la vittima di oggi». Per il recensore di «Cinema Nuovo» la scelta politica di Vancini è racchiusa, chiaramente, nel ritratto a tutto tondo dell'avvocato Lombardo, nell'esaltazione del suo ruolo politico. «Vancini vede in Lombardo non già colui che frena e disarma la violenza rivoluzionaria, ma l'accorto dirigente stretto, a destra, dalle forze reazionarie, e, a sinistra, dall'avventurismo irresponsabile di Gasparazzo. In questa prospettiva lo stesso scappare sui monti di Gasparazzo si connota come vigliaccheria». Il Gasparazzo vanciniano rappresenterebbe, quindi, l'estremista sobillatore che al momento opportuno pensa solo a salvare la propria pelle, colui che spinge «la classe operaia su posizioni estremiste, di rottura, salvo abbandonarla a se stessa nel momento dello scontro. Sicché riproporre la vicenda di Bronte oggi, in questo preciso momento dello scontro di classe - riproporla in questo modo - ha un significato che non può che essere riformistico. Bronte è il fallimento di una classe contadina gettata allo sbaraglio da una dirigenza estremista e irresponsabile che non sa costruire una prospettiva politica vincente, al di là dello scatenamento momentaneo, della devastazione omicida; è il circolo vizioso degli “opposti estremismi”». La teoria degli “opposti estremismi” compare anche in un lungo saggio di Zambetti apparso su «Cineforum» [Vancini: Bronte, cronaca di un massacro, «Cineforum», n. 119, 1973]. Dopo aver lamentato la mancanza di una analisi approfondita del livello di coscienza di classe raggiunto dalle masse, e dopo aver altresì stigmatizzato l'assenza nel film di figure adeguatamente rappresentative del mondo contadino dell'epoca - carenze che peserebbero fino al punto di accentuare «il carattere istintivo della rivolta, facendola percepire come una semplice esplosione di furore non sorretta da una qualsiasi presa di coscienza» - il recensore crede di ravvisare nel Bronte di Vancini l'ombra degli “opposti estremismi”. «Gasparazzo finisce con l'apparire come un elemento anomalo e astratto, che fa pensare alla sinistra extraparlamentare e, in genere, a tutti coloro che si azzardano ancora a parlare di lotta di classe, così come sono presentati dalla stampa borghese (e non solo borghese): un avventurista che pesca nel torbido, magari in buona fede, ma totalmente ignaro di realpolitik, imbevuto di terie incomprensibili [....) e ciecamente portato alla violenza per la violenza. Chei fatti, alla fin fine, diano ragione a lui, è cosa su cur il film non richiama sufficientemente l'attenzione, dato che Gasparazzo è ormai scomparso dalla scena, mentre vi campeggia, sempre più dominante, per l'aureola stessa del sacrificio a cui va nobilmente incontro, la figura di Lombardo, contrapposta a quella di Bixio: ci vuol poco, a questo punto, per tirar fuori la teoria degli opposti estremismi (anche Bixio è un cattivo che ha il suo buono nel colonnello Poulet, come Lombardo è il buono rispetto a Gasparazzo e ai contadini assetati di sangue) e ad innalzare sui rispettivi massacri estremistici (quello dei quindici galantuomini uccisi dai contadini e quello dei cinque fucilati da Bixio) il monumento all'equilibrato buonsenso riformistico ed alla costruttiva centralità democratica». Nel variegato scacchiere ideologico della critica cinematografica italiana di sinistra le posizioni di Alonge e Zambetti occupavano l'ala più estrema, quella vicina alla cosiddetta “Sinistra extraparlamentare”, e si discostavano notevolmente dalle posizioni della “sinistra ufficiale” (sempre ammesso che tali espressioni avessero, anche allora, un senso). Mai loro scritti, pur non prestandosi al gioco della stampa reazionaria, finivano inevitabilmente per sacrificare sull'altare del radicalismo un film arduo e complesso, quasi unico nel panorama cinematografico italiano. Le loro analisi, come quella di Meccoli su «Epoca» del resto, danno per scontato che la posizione dell'avvocato Lombardo coincida con quella dell'autore. A questo proposito Callisto Cosulich [La missione maledetta, «ABO», 28 aprile 1972] è ancora più esplicito: «È evidente che le simpatie dell'autore vanno al Lombardo, cioè al mediatore tra le classi in lotta. Non sembra neppure sfiorano l'ipotesi che sia stato proprio il Lombardo, convincendo gli insorti a deporre le armi e a fraternizzare coi garibaldini, il maggior responsabile del fallimento della rivolta». Per costoro, insomma, il film di Vancini è un'opera ideologica e non fenomenologica; un'opera in cui la dialettica tra l'oggettivo (il dato storico rappresentato) e il soggettivo (l'interpretazione dei fatti) non maschera l'intento ideologico dell'autore (riformistico per Alonge e Zambetti, rivoluzionario per Meccoli). Così facendo, però, non rilevano la vera novità, dettata dalla cifra stilistica & film, che risiede nell'aver saputo ridare al “film storico, una linea oggettiva, nella migliore tradizione rosselliniana, È questa l'interpretazione di Bruno Torri. Su «Mondo Operaio» [I fatti di Bronte e il film storico, «Mondo Operaio», n.5, maggio 1972] il recensore vede nel film di Vancini la consacrazione del primato rosselliniano della «fenomenologia» sulla «ideologia», cioè dei «fatti interni» sui «valori esterni». Prima di giungere ad una analisi diretta dell'opera, Torri traccia succintamente una definizione del “film storico”, nell'intento di far risaltare i valori artistici di Bronte. L'articolista non ricorre a concetti astrati ma ad esempi concreti: due esempi che, a suo avviso, sembrano idonei, anche per le loro alte qualità artistiche, a caratterizzare, e a distinguere il “film storico”. «Questi film sono La marsigliese di Renoir e La presa del potere da pare di Luigi XIV di Rossellini. L'uno e l’altro portano sullo schermo fatti storici realmente accaduti. [...] Ciò che li accomuna è lo stesso atteggiamento, etico ed estetico, di fedeltà alla realtà storica. Ciò che li distingue è la diversa posizione ideologica verso gli argomenti trattati. Renoir, negli anni del Fronte Popolare, ripropone alcuni episodi della Rivoluzione francese non tanto per celebrare una epopea quanto per fissare una continuità tra il 1789 e il 1936, tra due momenti di lotte sociali che vedono il popolo (il progresso) vittorioso su chi lo opprime e lo minaccia (la reazione). Il regista francese cerca nella storia di ieri una lezione ancora attuale e la comunica. [...] Rossellini tende invece, nel suo film, ad una oggettività assoluta; in quanto autor mira a dare una piena credibilità e verosimiglianza alla narrazione, ma senza manifestare la propria posizione soggettiva, anzi sforzandosi di far apparire l'opera tutta fatta dal di dentro, tutta chiusa in sé. Tendenzialmente (e schematicamente), l'opera di Renoir è storico-militante; quella di Rossellini storico-didattica: Renoir prende, e spinge esplicitamente a prendere partito; Rossellini, raccoglie, e spinge implicitamente a usare “documenti”». Secondo il critico di «Mondo Operaio» il film di Vancini segue prevalentemente la linea rosselliniana, perché non indirizza univocamente il giudizio dello spettatore, ma ricerca e testimonia la verità delle situazioni e degli accadimenti’. Anche Alberto Moravia, dalle colonne de «L'Espresso», riconobbe all'opera di Vancini il pregio dell'oggettività [... vedi articolo riportato]. Le peculiarità del discorso storico-politico vanciniano emergono ulteriormente dalle analisi di altri due noti critici di sinistra quali Miccichè e Argentieri. Più inclini a leggere nell'opera di Vancini gli inizi di un itinerario rivoluzionario mancato che non gli esiti di un'opera controrivoluzionaria (come fanno invece Alonge e Zambetti), i recensori si premurano innanzitutto di integrare l’opera di Vancini nella tradizione storiografica gramsciana [... vedi articoli riportatati]. La tesi [...] è in qualche modo suffragata da alcune dichiarazioni rilasciate dallo stesso Florestano Vancini al giornale romano «Il messaggero», raccolte da Costanzo Costantini [30 giugno 1972]. Nell'articolo il regista respinge innanzitutto il giudizio dei critici secondo cui egli avrebbe rivisto l'episodio di Bronte alla luce della problematica politica contemporanea, e in particolar modo entro lo schema “riformismo-rivoluzione”, includendo nel riformismo anche il Partito Comunista e riservando la rivoluzione alla sinistra extraparlamentare”, giacché, ricorda Vancini, «il film l'ho scritto dieci anni fa, quando la sinistra extraparlamentare non esisteva». Poi, incalzato dall'interlocutore, l'autore di Bronte afferma che lungi dall'essere una metafora sulla situazione politica attuale, il suo film contiene semmai delle enucleazioni sulle origini della politica della repressione che si proiettano inevitabilmente su un orizzonte storico-sociale che arriva fino alle soglie dell'attualità. «Da Bronte prende avvio una politica che si svilupperà nei decenni successivi sino ai nostri giorni. È la politica dei governi nazionali nei confronti del Sud: il Sud visto come terra di conquista, in senso coloniale. È la politica della repressione che a Bronte viene posta in atto dai garibaldini ed in seguito dai governi che avevano combattuto il garibaldinismo». Il film di Vancini fu accolto favorevolmente anche da alcuni quotidiani del Mezzogiorno [...] Su «Il Mattino», infatti, de Tiberiis [Bronte e le vestali del mito: la cronaca di un massacro diventa un caso di cultura, «Il Mattino», 22 giugno 1972] .scrive: «A me è sembrato uno spettacolo ottimo, scarno, teso, e soprattutto aderente alla verità. E un lavoro che non si liquida respingendolo fra la paccottiglia aneddotica del genere degli scritti di de Sivo, di Buttà, di Acton e forse anche del mio Ulloa nelle sue pagine peggiori: né tanto meno attribuendogli un'etichetta politica, perché, qualsiasi sia la fazione per la quale si militi, un fatto, una verità restano saldi e fermi. [...] Vancini non impone nuovi miti, retoriche populiste, agiografia con segno mutato. Segue sì una cronaca, quella del Radice. Ma non bisogna dimenticare che fra le fonti riportate nel film - perché Bronte è l'unico lavoro cinematografico con una sua bibliografia - vi è per prima Gli atti del processo di Bronte documento ufficiale e non di parte». Voglio, infine, chiudere questa rassegna di critica cinematografica passando dallo sguardo, per così dire, particolare di un meridionale a quello più distaccato (almeno dal punto di vista strettamente politico) di uno “straniero in Italia”. La recensione di Jacques Nobécourt, corrispondente italiano del prestigioso quotidiano francese «Le Monde», contiene a mio avviso una sintesi esemplare, per lucidità intellettuale e competenza culturale, dei valori universali di un’opera che con la sua perfetta osmosi tra forma e contenuto riesce a trascendere il fatto storico e a elevarsi sul piano della testimonianza umana [... vedi articolo riportatati].
Alberto Moravia[7][modifica | modifica sorgente]
{--] Ora già nel titolo c'è la contraddizione feconda a cui, in fondo, il film deve la sua forza. Qual è questa contraddizione? E il fatto che Vancini e i suoi collaboratori Leonardo Sciascia, Fabio Carpi e Nicola Badalucco hanno voluto fare un film “storico” per quanto riguarda il metodo: ricerca accurata delle fonti, scrupolo di oggettività, ricostruzione fedele dell'ambiente; ma, al tempo stesso, “antistorico” cioè contro la storia: così quella agiografica dei libri di scuola come quella “seria” degli storici di professione. Insomma il film è storico nei mezzi e “antistorico” nel fine. E propone una storia vera, popolare e rivoluzionaria, contro la storia falsa della libertà formale e dell'oppressione reale. Ma perché la cronaca diventi storia, ci vuole la rivoluzione che invece non c'è stata né allora nè dopo. Così, alla fine, quando tutto è stato detto, l'episodio di Bronte rimane fuori della storia, in quella zona moralistica magari più elevata in cui vengono denunziate l'ingiustizia, la malvagità, la corruzione, la menzogna. Appunto questa denunzia, che si configura come critica della storia ufficiale, costituisce la forza del film di Vancini. A questo punto però verrebbe fatto di domandarsi se è possibile una storia che non sia fatta e soprattutto scritta dal potere, prima negli archivi poi nei libri di scuola e finalmente nei testi degli storici. Immaginiamo un momento che venga la rivoluzione e recuperi alla storia il fatto di cronaca di Bronte. Chi potrebbe garantirci che i libri di scuola e magari anche il cinema non ne parlerebbero in maniera agiografica e edificante? Vancini e i suoi collaboratori hanno cercato di evitare l'agiografla con una proposta di rilancio neorealista che è anche, però, il limite del film. Semmai la novità e il pregio di Bronte sta nell'ambizione, come abbiamo già accennato, “storica”, in cui bisogna riconoscere l'influenza di Leonardo Sciascia e del suo moralismo pessimista nutrito di letture e di ricerche di archivio. A quest'ambizione si deve il piglio secco ed energico del film, l'assenza della retorica dei sentimenti e delle idee. Ma, curiosamente, il film è tanto più sentito e personale quanto più si studia di essere fedele alle fonti. Mentre diventa impersonale in senso veristico dove la ricostruzione, per forza di cose, è lasciata all'immaginazione. Così la seconda parte, quella della repressione del generale Bixio, nella quale i personaggi si esprimono con le parole stesse riportate nei documenti dell’epoca, ci sembra superiore alla prima, in cui, senza documenti e forse con eccessiva semplificazione, è descritta la ferocia contadina [...]
Lino Micciché[8][modifica | modifica sorgente]
Dal 1930 al 1970 la cinematografia italiana ha realizzato (senza considerare le coproduzioni “minoritarie”) qualcosa di più di 4.300 film di lungometraggio. Tra la predominante paccottiglia, poco più poco meno di duecento titoli potrebbero figurare in una storia del cinema italiano sonoro che fosse sufficientemente diffusa e generosa da soffermarsi anche sui minori e sui minimi. Ma, se invece si volesse soltanto considerare il “film storico” — operando evidentemente una netta distinzione con il “film in costume — basterebbero le dita di una mano: 1860 di Alessandro Blasetti (1934), La pattuglia sperduta di Piero Nelli (1954) Senso di Luchino Visconti (1954), Viva l'Italia di Roberto Rossellini (1961), Il gattopardo di Luchino Visconti (1963). Cinque film e alcuni tra essi tutt'altro che capolavori. Nient' altro o quasi. Spiegazioni? Poche e semplici. Prima, sotto la dittatura mussoliniana, i “film storici” erano soltanto “film in costume” e quando “storiografavano” era in pieno ossequio alle distorsioni interpretative della “dottrina” fascista. Ci sarebbe da morire dal ridere oggi a rivedere taluni di quegli esemplari di storia patria, se dietro le mistificazioni di cartapesta non si nascondessero le ben più tragiche verità del regime. Poi, nel primo dopoguerra, la fase di realtà immediata dapprima e quindi talune assolutizzazioni teoriche del “neorealismo” — per cui sembrava rinunciatario qualsiasi sguardo retrospettivo — esclusero la Storia dagli schermi. Quando nel secondo dopoguerra vi sì cimentarono cineasti come Nelli o Visconti, il film del primo sparì dalla circolazione appena uscito e il capolavoro del secondo portò un oscuro sottosegretario democristiano a esclamerei indignato: “Hanno infangato anche il Risorgimento!”. Si aggiunga che, per quanto esortati alla storia, gli italiani non sembrano esservi particolarmente inclini neppure a livello della storiografia scritta. Mentre c'è voluto uno storico inglese, Mack Smith, per risvegliare i nostri interessi storiografici nei confronti del Risorgimento, nelle patrie scuole si continua a insegnare, con poche varianti, che Garibaldi disse a Bixio “Qui o si fa l'Italia o si muore” e che a Teano il Generale caracollò verso Vittorio Emanuele II dicendo “Saluto il Re d'Italia” e che questi rispose “Saluto chi l'ha fatta”; Cavour, a Torino, meditava intanto il nostro bene. Cosi abbiamo soltanto cinque “film storici” (o poco più se ci aggiungiamo ad esempio, La grande guerra di Monicelli e Uomini contro di Rosi, che però riguardano periodi più recenti). Se ne aggiunge ora un sesto: Bronte di Florestano Vancini, significativamente sottotitolato Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. Già perché, se per rompere il muro di silenzio sulla repressione attuata dai “garibaldini” nei confronti del proletariato e sottoproletariato siciliano nel 1960 fu necessario attendere che nel 1910 un professore siculo, Benedetto Radice, scrivesse su una rivista siciliana una monografia intitolata Nino Bixio a Bronte, l'omertà storiografica continuò per più di mezzo secolo ed è soltanto nel corso degli anni ‘50 che la verità ha cominciato a farsi strada, pur diffondendosi soltanto tra gli addetti ai lavori e i non molti loro lettori. Sarebbe interessante sapere a chi e a cosa hanno creduto che alludesse la novella La libertà di Giovanni Verga, i lettori che essa ha avuto dal 1882 in giù. A dire il vero, il Verga, monarchico e crispino a oltranza, non si discosta affatto nel suo racconto dalla linea storiografica ufficiale. “Anche il lupo allorché capita affamato in una mandria, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia” egli scrive dei rivoltosi di Bronte, nella citata novella. E, più sotto, descrivendo il massacro dei “capeddi” con toni assai più accesi di quanto in effetti fu, e seguendo in questo le false cronache del “liberale” Giuseppe Guerzoni: “Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente”. Ma anche il Verga sfiora il vero quando, descrivendo in chiusura della novella lo stupore attonito del carbonaio che, dopo il processo durato tre anni nella “città” (cioè, storicamente a Catania) viene rimesso in ceppi, gli fa dire: « Dove mi conducete? In galera? o perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà! ...”. E in quei puntini di sospensione finali stanno forse e l'inconscio verghiano, assai meno crispino della sua coscienza, e una delle chiavi interpretative dell'episodio. Ai fatti di Bronte, appunto, ignorata pagina fondamentale della moderna “questione meridionale”, Florestano Vancini ha dedicato il suo ultimo film: un antico progetto che già fu del suo produttore, Mario Gallo, poco dopo il ‘60, e che egli ha potuto realizzare lo scorso anno su una sceneggiatura cui hanno lavorato, oltre al Vancini stesso, Nicola Badalucco, Fabio Carpi e Leonardo Sciascia. Quello che è senza dubbio alcuno il migliore film del regista ferrarese — e anche uno dei pochi e dei più significativi “film storici” italiani, cinque, o dieci, o quindici che essi siamo — è stato tutto interamente costruito sulla base di una ineccepibile documentazione (citata come una bibliografia nei titoli di coda del film: un inedito indice di serietà scientifica), a cominciare dagli atti del processo di Bronte del 9 agosto 1860 [...]. Gli autori non hanno ceduto né alla tentazione di stilizzare il racconto, né a quella di frammentarlo, costruendolo in flashback a partire dal processo. Il film ha probabilmente pagato questa rinuncia sul piano strettamente estetico (la relativa lentezza della prima parte), ma ne ha indubbiamente guadagnato sul piano di un necessario didascalismo storiografico. Il racconto si avvia e prosegue dunque orizzontalmente, dopo una breve premessa che vale a definire le condizioni sociali di Bronte (un poveraccio viene bastonato a sangue assieme al proprio figlioletto 6 sorpreso a rubare legna), lungo le brucianti giornate tra il 3 e il 10 agosto 1860 in cui si svolsero i fatti [...]. Inizia così l'irrisolto dramma del meridione italiano che né il famigerato prefetto Mori in tempo fascista, né la Cassa per il mezzogiorno in periodo repubblicano hanno saputo positivamente risolvere. Vancini e i suoi collaboratori hanno bene inteso il valore emblematico — e storico — dei “fatti di Bronte” e li hanno infatti restituiti nella loro crudezza e nella loro dialettica con uno scrupolo che, anche in questo caso, può forse avere privato il film di qualche impennata stilistica, ma gli dà per altro un notevolissimo valore storiografico. Semmai essi hanno insistito, parcamente ma percepibilmente, su due punti: la funzione sottile e determinante che ebbe sull'intera vicenda la vicinanza della ducea britannica, di cui hanno sottolineato la gattopardesca lungimiranza e il piano di potere che andava ben oltre Bronte; l'alternativa dialettica Lombardo/Gasparazzo, che, in termini attuali, potrebbe essere definita l'alternativa tra riforme e rivoluzione. Su tutto si riaffaccia l'interpretazione comune alla più intelligente storiografia risorgimentale, e già di Gramsci, del Risorgimento italiano come “rivoluzione tradita”, ovvero come sovvertimento politico cui fu artatamente e militarmente impedito di divenire sovvertimento sociale. Mentre è fin troppo ovvio che l'atteggiamento degli autori — e degli spettatori che lo sappiano cogliere — emblematizza in quella grande speranza ottocentesca le altre e più recenti speranze di chi ottantacinque anni dopo, come l'avvocato Lombardo e i contadini di Bronte, non voleva soltanto mutare regime, sia pure ponendo fine a quello atroce della dittatura fascista, ma voleva mutare società. Si potrebbe scrivere a lungo del film di Vancini ed è indubbio indice del suo apporto alla crescita di una coscienza storica che vengano in mente per ultime le considerazioni di natura più strettamente cinematografica. Gli autori si trovavano di fronte un dio corale con pochi ma salienti protagonisti (...) la massa quale protagonista primaria. L'equilibrio tra questi due elementi cosi contrastanti era estremamente difficile ed essi sono riusciti a realizzarlo. Gli autori dovevano altresì dosare la rievocazione vera e propria dei fatti quella necessaria e inevitabile “coscienza del poi", un senso agli eventi storici. A questo hanno raggiunto lo scopo, aiutandosi con (...) e con un forse lieve eccesso soltanto nel sovraccarico musicale di canzoni “popolari” (per altro assai belle) nella prima parte. Avendo poi a che fare con una piccola (...), dovevano risolvere un problema scenografico non indifferente: ricostruire in modo plausibile, ma leziosaggini figurative e preziosismi archeologici ebbero finito per distogliere l'attenzione dal vero obiettivo. Sono riusciti tutto sommato anche in questo, pure se con occhio attento risulta abbastanza evidente l'orizzonte siciliano della vicenda sottolineato dai volti degli attori jugoslavi (per altro molto bravi). L'operazione è dunque nel complesso nettamente positiva e questo film andava obbligatoriamente proiettato nelle scuole. Perché ad un secolo dall'unità di Italia il vero senso della mar “mille gloriosi guerrieri” a risalire lungo lo “stivale" ancora tutto da definire.
Mino Argentieri[modifica | modifica sorgente]
Alcuni recensori che scrivono su giornali di destra si sono risentiti per Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. La loro reazione era prevedibile: ogniqualvolta un regista si appresti a rivedere le bucce delle glorie nazionali, il men che gli avvenga è di essere accusato di lesa patria. E' capitato a Monicelli e a Rosi, rispettivamente per La grande guerra e per Uomini contro; capita adesso a Florestano Vancini, che e andato a spulciare un episodio poco noto della spedizione dei Mille. Il Risorgimento è intoccabile, brontolano i conservatori, di Garibaldi non è lecito “dir male” [...]. Dunque, sarebbe riprovevole tangere Bixio perché i monumenti devono essere protetti e, visto che il garibaldino in ballo era il braccio destro del generale, guai a gettar ombra tramite la sua persona sul biondo esule di Caprera, immortalato nel mito e maltrattato nella realtà dai Savoia che di lui si valsero per poi cacciarlo in disparte. Eppure il mito, procura più torti che rispetto ai suoi soggetti, mummificando Garibaldi nei panni di un generoso, politicamente ingenuo e gabbabile con facilità, e insaccando Bixio nella divisa di un personaggio salgariano; laddove l'uno fu un individuo che visse e soffrì le contraddizioni del Risorgimento e mostrò spesso un realismo ignoto all’apostolo Mazzini, e l’altro non ebbe mai spalle per sollevarsi dal rango dei fegatacci adusi all'obbedienza e all'enfasi. Nel suo film, di Garibaldi Vancini non parla, né bene né male. Piuttosto ci si ricorda che il dittatore della Sicilia, subito dopo lo sbarco, promise che le terre del demanio sarebbero state assegnate a chiunque avesse combattuto per l'unità d’Italia. Non appelli retorici erano stati lanciati, ma promesse che attenevano al problema del consenso popolare alla lotta per l'unificazione nazionale. Come si sa, da cosa non nacque cosa. Furono i ricchi proprietari, i voltagabbana servitori fedeli dei Borboni, rapidamente convertitisi, ad armeggiare per ricavar profitto dalla nuova congiuntura, e ai braccianti ingannati non rimase che lasciar esplodere l'ira aggrumatasi, mandando a morte crudele gli esponenti del privilegio trionfante. Accadde a Bronte un massacro e anche altrove si ebbero sollevazioni e rivolte, su cui gli storici della borghesia hanno preferito sorvolare e che i cronisti garibaldini (i più accessibili alle svogliate letture scolastiche) hanno rappresentato con parzialità. Non a caso, ancora oggi si invocano le testimonianze dell'Abba, che dei Mille fu cronista inattendibile, nel senso che si diede a trasfigurare i contorni di quelle imprese e guardò attorno a sé disposto al canto, non a uno spassionato resoconto. [...] Verga, nella novella Libertà, andò a ripescare gli avvenimenti di Bronte e ne ritagliò una versione letteraria, di cui opportunamente Leonardo Sciascia ha contestato la veridicità storica e l'angolazione. A riequilibrare la bilancia non concorsero davvero gli studiosi borghesi del Risorgimento; ma a riprendere in mano le pagine di Bronte si misero più tardi studiosi locali come Benedetto Radice, che ebbero la pazienza di ricostruire l'episodio taciuto e dimenticato, ricomponendolo pezzo a pezzo sulla traccia di polverosi documenti di archivio. A quest'opera di ricostruzione, integrata negli anni, si ricongiunge il film di Vancini, che non romanza la cronaca ma vi si conforma con scrupolosa 0ggettività. Ancor prima di assumere un valore cinematografico, l'operazione acquista una fisionomia culturale nella misura in cui è intenta a ristabilire la verità e a socializzarla e a diffonderla in un paese ove la storia del Risorgimento non la si conosce ovvero è percepita, al livello delle moltitudini, sul piano ingannevole, emotivo e semplicistico della leggenda. In questa circostanza il cinema più che scoprire divulga e s‘incammina nei campi arati da scrittori e Saggisti îtaliani, per non aggiungere all'elenco lo storico inglese Denis Mack Smith che ha fornito il suo apporto alla esplorazione critica dei nostri trascorsi meno remoti. Ma divulga intanto non per amore dell'aneddotica e dell'archeologia bensì per riaprire la meditazione sul passato sicché la comprensione di esso lumeggi l'odierna esperienza, Affinché, insomma, non si proceda soltanto alla ricerca delle nostre radici ma si colgano i gangli di una conflittualità sociale che perdura e promana da vicende che appartengono alla memoria collettiva. La scelta del “fattaccio di Bronte” e il suo giusto inquadramento sono, anzi, duplice faccia di una cultura che riconsidera la enucleazione dello Stato unitario nel solco tracciato dalle classi lavoratrici e dalle idee socialiste. Si capisce pertanto il livore dei recensori reazionari, che confutano, insieme con il film di Vancini, la storiografia democratica. Costoro, ammettiamolo, cadendo nella provocazione, hanno lo sguardo lungo e il loro presunto patriottismo ferito non abbagli. Se Vancini e i numerosi autori ai quali il regista si è ispirato si fossero limitati a ribaltare uno schema e a rovesciare le tasche della mitologia risorgimentale, forse i protestatari non avrebbero avuto ragione di lamentarsi e di versar lacrime miste a fremiti di indignazione. La denuncia della “conquista regia”, che portò alla aggregazione delle regioni meridionali, non li turba finanche nell'emergere di una episodica spinosa. Non si spiegherebbe altrimenti perché ci si indigni di fronte al Bronte di Vancini e si ignorino invece i capitoli che l'ultimo libro di Carlo Alianello riserva alle nefandezze commesse dagli eserciti liberatori e dalle autorità piemontesi nel Sud. Ma la suscettibilità segue pur essa le regole della convenienza politica, e a decifrarne l'apparente bizzosità ci orienta il volume da noi menzionato, che non è parco di sconcertanti documentazioni. Alianello demitizza non meno di Vancini, e su scala di gran lunga più panoramica; ma lo legittima, a smorzare gli ardori della pubblicistica patriottarda e tradizionale, un punto di vista proteso alla riabilitazione dei Borboni e del regno delle due Sicilie. Lo legittima, è ovvio, agli occhi di coloro che bollano Vancini e gli storici democratici, i quali si addentrano in un'analisi inconcepibile se non lungo la scia di ripensamenti dettati dall'esistenza del movimento operaio. Ed è questo elemento specifico - una valutazione non soltanto in classisti del Risorgimento, ma che si situa sul versante, le classi sfruttate - che essi condannano e rigetta, risiede “lo scandalo” e la novità effettiva di un discorso che nel cinema italiano qualcuno aveva iniziato ed è stato subito interrotto. Visconti vi fece cenno, in Senso, riferendosi a una rivoluzione incompiuta ai suoi albori e timorosa del concorso popolare; e successivamente ribadì il concetto con Il gatto avvinto abbastanza al testo di Lampedusa per non su: il fondamentale antistoricismo e le suggestioni decadentistiche e l'afflato nostalgico, ma anche provviste del minimo distacco necessario a chiarire che non di aborto e di un mero cambio della guardia s'era trattato nell'avvicendarsi delle classi dirigenti, bensì di una rivoluzione tradita. Vancini, rievocando il doppio eccidio di Bronte va più distante di Visconti e percepisce nel dramma siciliano uno spartiacque che suggella il fallimento di una fase storica della borghesia e dischiude una prospettiva diversa. Perno tematico del film non è tanto il trasformismo delle baronie borboniche quanto la paura, per un verso, per l'altro l'ignoranza delle masse popolari e della loro sete di giustizia sociale: fenomeno questo che, a gradi molteplici e con molteplici connotazioni, non risparmiò il nostro Risorgimento e non esentò le menti più acute e i cuori più fervidi. Non Bixio viene condotto alla gogna e paragoni
Jacques Nobécourt (corrispondente di “Le Monde”)[9][modifica | modifica sorgente]
Si può parlare di capolavoro, quando per un film ci sono non più di una decina di spettatori, il sabato pomeriggio. in un enorme cinema che cinquant'anni fa era un music hall? Quanto terrà il film? Poche settimane, verosimilmente. Poi partirà per l'estero, e il pubblico italiano verrà a sapere con stupore di aver perduto l'occasione di conoscere una delle opere più significative della cultura contemporanea. Non sarà la prima volta, né l'Italia ne ha l'esclusiva. Il film in questione è l'ultimo lavoro di Florestano Vancini: Bronte, cronaca di un massccro. Ad essere giusti, il film avrebbe dovuto essere presentato a Cannes, e ricevervi i più alti onori. AL suo confronto, Fellini sembra folkloristico, e Petri un autore di cinema di consumo. I più fastosi e i più festeggiati registi, paragonati a Vancini, finiscono per suscitare quasi compassione, con i loro piccoli mondi personali, con i loro problemi esibiti in una storia «che piace al pubblico». Vancini, invece, non cerca affatto di piacere, né di «apparire » personalmente nel suo film. Dignitoso, riservato, in disparte, come senza volerlo, è riuscito a raggiungere, attraverso la realtà di un piccolo gruppo umano, verità drammatiche che sono di ogni tempo. Rimettendo lo spettatore con le spalle al muro, imponendogli la sua lucidità — che, in questo caso, non è certo autolesionismo —, Vancini suscita la stessa qualità di fervore che negli adolescenti di Parigi, all'indomani della guerra, creava la scoperta del giovane cinema italiano, nelle salette del Quartiere Latino. Roma, città aperta, Paisà o Umberio D erano visti e sentiti come drammi che toccavano tutti gli europei, di là dalla testimonianza che davano sulla realtà italiana. Bronte si pone allo stesso livello. La trama è nota: Bixio reprime una rivolta di contadini, a Bronte, in Sicilia, durante la spedizione dei Mille. Già a questo punto, la proposta e coraggiosa. Vancini ha scelto di analizzare due miti, quello di Garibaldi e quello della partecipazione contadina al Risorgimento, nell'unificazione d'Italia. Cronisti e storici ne avevano dato già un quadro sfumato. Ma farla vedere, questa realtà, è tutt'altra cosa, ben più esplosiva di una riflessione erudita. Il regista non è caduto nel piacere gratuito della demistificazione, che può diventare un'altra forma di manicheismo. Il suo Bixio è convincente e suona giusto, alla pari dei suoi avversari. L'onestà di Vancini è allo stesso livello di quella di Pontecorvo nella Battaglia di Algeri: Bixio è come il colonnello dei paracadutisti, senza deformazioni né caricature. La straordinaria sobrietà del dialogo ne sottolinea l'efficacia. Non c'è posto per il sentimento. Dopo un secolo, il patriottismo unitario, la fedeltà piemontese, debbono ancora prevalere sulle tragedie realmente avvenute? Il processo di riesame della storia del passato, per quanto possa essere scomodo per gli spiriti gregari, è necessario alla comprensione della storia d'oggi. Il significato della parola “libertà” per i contadini siciliani del 1860 è proprio tanto diverso da quello di oggi? In alcune immagini, Vancini lo fa capire con ben più forte realismo di Blasetti o Visconti. E' così che egli ci tiene un discorso indiretto sul “gauchismo”, sull'anarchismo che deborda nello spontaneismo e nell'esplosione della violenza. La sopravvivenza delle reazioni del sottoproletariato fondate su una sete autentica di giustizia socia e non-politicizzazione assoluta, non è promossa dalla sopravvivenza delle cause che le generano? Di là dai riferimenti precisi a un tempo, a un luogo, a una analisi politica, Vancini si pone al livello dei classici della tragedia. Tocca l'universale, le eterne domande senza risposte: la libertà, risoluzione, sono possibili? L'obbligo di valersi anche dell'oppressione per vincere l'oppressione, di transigere l'ingiustizia per sradicare l'ingiustizia: non è, questa la scoperta sconfortante che fa l'avvocato Nicola Lombardo che ha voluto la pace? Albert Camus anch'egli avrebbe potuto descrivere questa morte di (...): non avrebbe saputo esprimere meglio di Vancini, questa evidenza tragica dell'inutilità d'ogni utopia rivoluzionaria o riformista, oltraggiata dalla bassezza della realtà, l'assenza di pathos nella seconda parte del film, la secchezza di processo verbale, il più alto pudore espressivo, aprono tuttavia una prospettiva, al di là delle ultime immagini del plotone d'esecuzione: “ma comunque bisogna continuare”. E' ancora una volta la lotta di Sisifo Senza fede religiosa, l'avvocato Lombardo muore con una fiducia disperata nell'uomo. Decisamente, è proprio a Camus che bisogna richiamarsi. Le domande che lo scrittore poneva nel 1954, Vancini, con altri strumenti, le solleva ad altri giovani. Il suo avvocato Lombardo s'inserisce nella linea degli eroi tragici, quali li ha conosciuti la cultura mediterranea, dalla giovane Antigone fino ai personaggi de La peste. Dopo tanti lavori imperfetti, incoerenti o troppo adulatori del gusto dello “spettatore medio”, come salutare con il titolo di “capolavoro” questa testimonianza di Florestano Vancini che sfronda di ogni banalità la domanda essenziale: “L’uomo, per fare cosa?”
Il restauro[modifica | modifica sorgente]
“Bentornato fra noi, trent'anni dopo”[modifica | modifica sorgente]
di Mario Musumeci[10]
Erano i primi anni Settanta. Avevo poco più di vent'anni, provinciale siciliano migrato sul continente, e facevo l'università a Lettere, alla “Sapienza” di Roma. Lungi da me, a quel tempo, supporre che un giorno avrei fatto il mestiere della preservazione e del restauro dei film. Come decine di miei coetane, e omologhi, ero assiduo dei cinema d'essai — quelli veri di allora, ruspanti e di massa - fra cui il mitico Nuovo Olimpia, a due passi da Montecitorio. Qui, nell’allora unica sala, che ricordo affettuosamente nella sua incipiente fatiscenza, vidi per la prima volta Bronte. I tempi erano ancora caldi degli ultimi bollori e fervori del Sessantotto, non ancora raffreddati dal grigiore del riflusso e degli anni di piombo: ricordo le lunghe e animate discussioni fra studenti, di tutte le tendenze politiche, in particolare fra chi, nel film, si identificava nel moderato avvocato liberale Nicola Lombardo e chi sposava in pieno le scelte radicali del carbonaio Gasparazzo. Non mancava, ovviamente, chi subiva l'acciaioso e vincente fascino dell'implacabile uomo d'ordine Bixio. Qualcuno - pochi, a quell’età e a quei tempi —- parteggiava per i proprietari terrieri... Gasparazzo, se ricordo, venne identificato da Adriano Sofri - su “Lotta Continua” - come prototipo della linea leninista nella rivoluzione; e, infatti, proprio su “Lotta Continua”, in una celebre “striscia” a fumetti, divenne negli anni seguenti il protagonista - trasposto in ambiente operaio e coevo, ma mantenendo il marchio del nome - del militante duro e intransigente, contrapposto alle pretese pratiche compromissorie delle organizzazioni politiche e sindacali “ufficiali” della sinistra. Questa breve intermittenza del cuore, per dire come Bronte sia stato non solo un film, ma un evento culturale, fortemente radicato nel suo tempo e nel suo contesto storico. E, quindi, ragioni personali - sia consentita una moderata nostalgia per i vent'anni - e ragioni culturali, mi hanno reso molto grato, un quarto di secolo dopo, dopo, tornare a questo film, stavolta come responsabile del progetto di restauro varato dalla Fondazione Scuola Nazionale di Cinema e, per essa, dalla Cineteca Nazionale. Il film era stato realizzato originariamente per la Rai, in una versione “lunga” in tre puntate, girata e montata in 16 mm. Mai andato in onda (nel clima sopra ricordato, pareva fatto apposta per scontentare tutte le parti politiche in campo), ne era stata approntata una edizione “corta” per il cinema, ingrandendo le scene dal negativo 16 su duplicati 35 mm. Questa edizione - l'unica che abbia circolato fino ad oggi - era conservata su un internegativo 35 mm, depositato alla Cineteca Nazionale; mentre nei magazzini dei laboratori di Cinecittà Studios era conservato un ulteriore elemento, un reversal (ossia un duplicato negativo diretto) in 16 mm. La qualità di entrambi - in particolare dell'internegativo în 35 mm della Cineteca - non era buona, sommandosi difetti legati all'usura e al tempo (graffi, rotture, polvere e sporcizia incrostati nell'emulsione, decolorazione incipiente) ai limiti tecnici originari del materiale e del processo di lavorazione: le pellicole duplicanti a colori di 25 anni fa non avevano la sensibilità, la fedeltà e la morbidezza di toni di quelle odierne, e l'ingrandimento per stampa ottica da 16 a 35 è un processo che complica inevitabilmente le cose, causando perdite di qualità dell'immagine fotografica in termini di grana e di nitidezza. L'esperienza degli ultimi 10 -15 anni ha dimostrato che il perfezionamento della tecnologia (macchine, procedimenti chimico-fisici e materiali) e l'adeguamento mirato del processo industriale alle esigenze specifiche del restauro, rendono possibile ottenere oggi risultati molto migliori di quelli conseguibili anche solo pochi lustri or sono. Al problema del recupero della qualità originaria intenzionale dell’opera si aggiungeva inoltre quello di preservare l'originale su supporti durevoli nel tempo: come è ormai noto, la pellicola in triacetato è soggetta al rischio della cosiddetta “sindrome acetica”, un processo di decomposizione del supporto fisico che comporta, nell'arco di qualche decennio, il disfacimento e la perdita delle opere cinematografiche. Unico rimedio, il trasferimento dell'immagine - senza perdita, o con la minore perdita possibile di qualità espressiva - su duplicati su supporto in poliestere. Naturalmente, a questo punto, sorgeva il problema della individuazione dell'“originale” da preservare e restaurare: indubbiamente, anche in questo caso, era indispensabile tentare di partire dal negativo originario, non solo in quanto testimone delle scelte espressive degli autori (fotografia, colore, qualità della stampa), ma anche perché corrispondente alla edizione “maggiore” dell'opera, rispetto alla quale la versione cinematografica era da intendere come “variante” d'autore. A questo punto, entra in campo, appunto, l'autore. Florestano Vancini, interpellato dalla Cineteca per dare consigli e indicazioni utili in sede di restauro, ci propose di rimettere mano al film anche per realizzarne una nuova variante: una versione corta, destinata alla proiezione cinematografica, in 35 mm, ma che recuperasse almeno, dalle tre puntate originarie, una parte delle scene sacrificate a suo tempo per le esigenze della distribuzione commerciale. La proposta venne valutata, innanzi tutto, in termini di etica e deontologia del restauro: era lecito, sotto questo profilo, intervenire oggi su una edizione “licenziata” dagli autori oltre 25 anni fa? Il restauro, come è ormai universalmente convenuto, deve guardarsi dai rischi e dalle tentazioni della falsificazione, in cui può incorrere chi senza riflettere sovrapponga le proprie intenzioni espressive e interpretative, oggi, restaurando, a quelle autentiche e originarie degli autori, unici titolari dell’opera. Tuttavia, nel nostro caso, era l'autore stesso a chiederci di intervenire, collaborando alla realizzazione di una nuova variante (destinata ad essere, dunque, in termini filologici, il terzo “originale” di questo film). E, inoltre, il progetto proposto da Vancini non implicava la distruzione di alcuna parte delle varianti originarie - destinate ad essere comunque tutte preservate e testimoniate - ed era quindi, in termini tecnici, assolutamente “reversibile”: documentato, cioè passibile di correzione. La Fondazione accolse la proposta del regista, e ci mettemmo al lavoro. Grazie alla collaborazione degli aventi diritto (la Rai e la Filmalpha, questa ultima nella persona di Ma Gallo) la Cineteca ottenne l'accesso ai materiali originali del film. In particolare, la Direzione delle Teche della R. ci consentì di entrare temporaneamente in possesso di un negativo originale integrale e della relativa colonna sonora (questa ultima, mixata, ma ancora conservata unicamente su supporto magnetico: uno dei materiali più soggetti ai rischi del deperimento fisico-chimico). Assicurataci la collaborazione anche di Roberto Perpignani — autore del montaggio e dell'edizione originari del film — il primo passo fu di riversare in video tutti gli elementi disponibili per predisporre la nuova edizione utilizzando il montaggio Avid: soluzione che consentiva un notevole risparmio di tempo e di risorse finanziarie. Mentre Vancini e Perpignani lavoravano all'Avid, i laboratori di Cinecittà Studios provvidero alla preliminare, fondamentale operazione di trasferimento dell'immagine dal negativo integrale su un duplicato positivo - anch'esso in 16 mm - su supporto in poliestere. Da questo venne ricavato un nuovo duplicato negativo, per stampa ottica e ingrandimento a 35 mm, destinato al successivo taglio per la nuova edizione. La colonna magnetica della Rai venne trascritta su supporto digitale e affida alla perizia del reparto Cinefonico di Cinecittà, che provvide alla pulizia e alla nuova equalizzazione del suono, sotto la costante guida di Vancini. L'ultimo passo è stato infine quello di tagliare e montare il nuovo internegativo, che comprende adesso circa 16 minuti di scene precedentemente “perdute”, e di tagliare e sincronizzare su questo la colonna restaurata su supporto digitale, per poi procedere alla stampa del nuovo negativo suono ottico. Valuteranno gli spettatori la qualità finale delle nuove copie: quel che preme sottolineare è che, grazie al lavoro qui sommariamente descritto, Bronte torna oggi a nuova vita per il pubblico, mentre, al contempo e al di là delle esigenze irrinunciabili della fruizione, l'opera originaria integrale è ormai preservata secondo i criteri tecnici più aggiornati attualmente disponibili. Il restauro è, deve essere, lavoro d'équipe, in ogni sua fase, e tengo molto qui a citare e ringraziare coloro che, con il loro impegno professionale, hanno consentito la realizzazione del progetto: oltre a Roberto Perpignani — già citato - Valter Diotallevi, suo assistente per il taglio e il montaggio definitivi e Franca Farina - del Reparto Tecnico della Cineteca - preziosa collaboratrice per lo stesso lavoro; Aldo Strappini - vecchia gloria del reparto Negativi di Cinecittà e oggi in forza alla Cineteca - insostituibile collaboratore per il coordinamento tecnico del progetto; i tecnici del Laboratorio e del Cinefonico di Cinecittà, in particolare Carlo Cotta, Romano Bellucci, Massimo Rinchiusi. Last, but not least, Francesco Serecchia - del Reparto Tecnico della Cineteca - e Alberto Guerri, che hanno curato la documentazione fotografica originale dai materiali, riprodotta in questo volume.
Florestano Vancini[modifica | modifica sorgente]
di Alfredo Baldi[11]
Nato a Ferrara nel 1926, e giunto presto a Roma, intraprende studi universitari che abbandona per dedicarsi al giornalismo e, poco dopo, al cinema documentario. Si rivela un eccellente osservatore della realtà italiana minore (sono gli anni in cui il neorealismo si sta esaurendo), realizzando brevi documentari di notevole efficacia descrittiva, come il Delta padano (1951) e Tre canne un soldo (1953), dedicati alla sua terra ferrarese. Con Uomini soli (1959) offre un ritratto desolato, e partecipe, dei derelitti ospiti dei dormitori pubblici. È l'ultimo passo prima di esordire nel lungometraggio, con la riduzione di una delle "Cinque storie ferraresi" — la più drammatica - di Giorgio Bassani, La lunga notte del ‘43 (1960), premiato alla Mostra di Venezia come opera prima, con la quale, di colpo e favorevolmente, si impone come uno dei più promettenti registi italiani. Nonostante qualche caduta di tono, la vicenda scorre sul filo di un'intensa emozione e di un forte impegno antifascista, narrando un massacro perpetrato dai repubblichini in una Ferrara suggestiva (ricostruita in studio) dai toni invernali e brumosi. La scena finale - il ritorno a casa, riverito da tutti, del responsabile dell'eccidio - è un ammonimento a tener viva la coscienza politica e a non dimenticare i tragici insegnamenti del passato. Dopo aver partecipato con l'episodio La separazione legale al film-mosaico Le italiane e l'amore coordinato da Zavattini, con La banda Casaroli (1962) V. coniuga l'impegno politico con elementi avventurosi e spettacolari nel racconto della drammatica fine del bandito Casaroli nella Bologna dell'immediato dopoguerra. La calda vita (1964) è incentrato sui problemi della gioventù, ma nonostante il tentativo di tratteggio psicologico dei personaggi, alla fine risultano più în evidenza gli aspetti erotici e turistici (l'ambientazione è stata trasposta dall'Istria alla Sardegna) della vicenda. Più ambizioso è il successivo Le stagioni del nostro amore (1966), ritorno di un intellettuale quarantenne, deluso e ‘vuoto’ (interpretato da Enrico Maria Salerno), alla sua città di provincia, dove è costretto a confrontarsi con le speranze del dopoguerra e il se stesso fallito senza rimedio. Ma i toni sono, in genere, troppo alti qua e là striduli: l'affermazione ideologica suona sempre lontana dalle corde di V. Dopo un robusto seppur convenzionale western all'italiana, I lunghi giorni della vendetta (1967) firmato Stan Vance, con Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972) realizza una delle sue opere migliori. Rievocando un episodio ‘dimenticato’ della conquista garibaldina della Sicilia, V. impartisce una lezione politica sull'insuccesso della rivoluzione e sui meccanismi repressivi del potere, anche il più riformista e illuminato. Il delitto Matteotti (1973) ricostruisce il clima di terrore provocato dalle squadracce fasciste all'inizio degli anni ‘20 e conferma V. come regista capace di combinare impegno politico e qualità spettacolari. Nel decennio successivo dirige tre film di cui due di origine letteraria: Amore amaro (1974), da un racconto di Carlo Bernari di ambiente romano trasferito nella Ferrara del 1938, descritta con puntigliosa efficacia; e Un dramma borghese (1979) da uno dei sei romanzi postumi di Guido Morselli. Nonostante i suoi limiti, fu premiato con l'Efebo d’oro ad Agrigento. Più vivace dei tre è forse La baraonda — Passioni popolari (1980), commedia sentimentale con risvolti da apologo etico che ha per sfondo pittoresco la Sei giorni ciclistica al Palasport di Milano. La sua carta vincente è il personaggio di una intrepida ragazza-madre di Cesenatico che Edi Agnelillo impersona con veemente brio. L'itinerario di Vancini s‘interrompe con La neve nel bicchiere (1984), dal romanzo-documento (1952) di Nerino Rossi sulle memorie di tre generazioni di contadini nella Bassa ferrarese. Pur con difetti e incongruenze, in parte spiegabili con la committenza Rai, è un decoroso e pulito esempio di cinema popolare. Ne esiste un'edizione di 4 ore per la tv.
Paris Film Coop[modifica | modifica sorgente]
di Antonio Costa
Riprende quest'anno quella rivisitazione sistematica (e problematica) delle esperienze del cinema indipendente iniziata alcuni anni fa. La rassegna dedicata alla Paris Films Coop è quindi sulla scia delle riproposte fatte in passate edizioni del cinema e dei video del Living Theatre, della ricerca di Alberto Grifi, del cinema underground italiano degli sessanta. Quella della Paris Films Coop è un’esperienza che si ispira, sul piano organizzativo, al modello americano della Film Makers Coop e che si ricollega, su quello realizzativo, alla tradizione delle avanguardie, quelle storiche degli anni venti (Richter, Man Ray) e quelle più recenti (Jonas Mekas, Snow, Kubelka). La Paris Films Coop, che prende avvio negli anni settanta, affronta contestualmente il problema di una produzione alternativa al cinema NRI (Narrativo-Rappresentativo-Industriale) e quello di una distribuzione capace di far arrivare al pubblico un cinema bandito dai normali circuiti. Per la rassegna di Bellaria, Guy Fihman e Claudine Eizykman, che sono stati tra i protagonisti di questa esperienza assieme a Christian Lebrat, Jean-Michel Bouhours, Dominique Willoughby e altri, hanno scelto di presentare una selezione delle opere prodotte negli anni settanta assieme ad alcuni esempi delle avanguardie storiche e delle neoavanguardie americane e europee (Jonas Mekas, Michael Snow, Peter Kubelka e altri). Qui di seguito, oltre a un testo appositamente scritto per Bellaria da Claudine Eizykman e Guy Fihman e al manifesto di fondazione (1976), pubblichiamo - nell'ordine scelto da Eizykman e Fihman per la proiezione - le schede filmografiche a cura di Mirco Santi, un giovane damsiano che ha dedicato la sua tesi di laurea alla PFC, e recuperiamo un testo di Stefano Masi, uscito nel 1983, che è stato uno dei rari contributi in lingua italiana alla conoscenza di questo momento della storia del cinema indipendente.
ImmaginiDelMOVIMENTO[modifica | modifica sorgente]
I. Si costituisce un movimento[modifica | modifica sorgente]
All'inizio degli anni settanta, in Francia si costituiva un movimento cinematografico... Esso raggruppa all'incirca trenta trentacinque cineasti nel 1976, quando, in anticipazione all'apertura del Centro Pompidou a Beaubourg, si tiene l'esposizione UNA STORIA DEL CINEMA - per il cui catalogo stendevamo allora questo testo, qui ripreso in una versione abbreviata e completata. Situando questo movimento negli anni ‘70 tralasciamo senza dubbio qualche film, qualche fatto che ha apportato il suo contributo. Tuttavia la differenza essenziale tra i cineasti sparsi anteriori a questa data e quelli che operavano in quel periodo sta nel fatto che questi ultimi si sono fatti carico della situazione e l'hanno modificata. Così, negli anni ‘70 si costituisce un movimento che parte dalle seguenti constatazioni: nel momento in cui dei film indipendenti cominciano a comparire in Francia, nessun ente di distribuzione commerciale o non commerciale se ne interessa; solo qualche film straniero viene proiettato per il suo valore esotico. È precisamente questo stato di blocco della circolazione dei film che i cineasti vogliono modificare: dalla situazione di isolamento nascono allora un po' di raggruppamenti, di cui uno, la PARIS FILMS COOP, funziona secondo i principi di una cooperativa, venendo così a occupare il posto lasciato vuoto tanto dai critici quanto dalle diverse istanze di distribuzione; il raggruppamento in una cooperativa è stata anche l'occasione di affermare e difendere assolutamente l'indipendenza del modo ‘di creare, di produrre e di distribuire. Il movimento si costituisce con la rottura dei cineasti col cinema industriale, rottura non più subita ma riconosciuta come ineluttabile e fondatrice del cinema indipendente. Non è irrilevante che, parlando di cinema, s'imponga, prima di ogni considerazione estetica, l'esame delle condizioni di produzione-distribuzione. Poiché non si tratta soltanto delle limitazioni economiche che incontra l'autore di un'arte industriale, ma di tutte le costrizioni che operano fuse con queste determinazioni infra-strutturali evidenti, determinazioni della forma narrativa-rappresentativa-industriale- queste tre determinazioni che ci sembrano necessarie per specificare globalmente questo cinema vengono abbreviate in NRI - del processo di produzione che domina il cinema. L'esperienza dei cineasti indipendenti palesa che condizioni di produzione-distribuzione, forma dei film, processo di lavoro della materialità cinematografica, rapporto con la tecnologia, regolazione della percezione sono inseparabili. I tentativi di ravvicinamento, le velleità di assimilazione, le volontà di subordinazione non possono farci nulla: la disgiunzione tra i due cinema è assoluta. Che non si fraintenda, non si tratta, con questa discriminazione, di fondare l'ennesimo giudizio manicheo; l'affermazione delle differenze radicali di struttura non è astratta: esse condizionano quel che accade sullo schermo tanto quanto la totalità degli aspetti più quotidiani della pratica cinematografica. Situazione specifica della Francia, dove il dominio senza riserve del cinema industriale non proviene dal suo potere ma piuttosto dalla sua docilità, che si origina nella soluzione che l'industria cinematografica francese ha fornito alla crisi economica che ha coinvolto il cinema mondiale. Nel 1958, due anni dopo l'inizio dell'irrimediabile caduta di frequenze nelle sale (e la crescita esponenziale del parco televisivo) appare la nouvelle vague. I critici prendono in considerazione il rinnovamento della forma del racconto cinematografico, l'apporto di riferimenti culturali della gioventù del dopoguerra; i produttori, soprattutto i piccoli produttori che esistono a centinaia, ne trarranno due lezioni: 1° Diventa possibile ridurre enormemente i budget (cosa essenziale per sopravvivere alla crisi); 2° Occorre modificare l'arcaico sistema di accesso dei giovani alla realizzazione dei film. L'occasione permetterà alla professione di riorganizzarsi. TRUFFAUT, CHABROL allora progettavano sistemi di produzione cooperativa. Non gli ci vorranno nemmeno due anni per integrarsi definitivamente e, almeno fino a Il bandito delle ore 11 (Pierrot le fou), tutti i film di GODARD hanno potuto essere prodotti nel sistema.
Ma al di qua e al di là i questo aspetto manifesto, al livello professionale istituzionale è stato messo in piedi uno dei sistemi più efficaci di pompaggio, drenaggio e canalizzazione di tutte le energie verso il cinema NRI: aiuto ai cortometraggi di finzione, premio qualità, banchi di prova disparati, avanzate sulle sceneggiature, avanzate sulle ricette, reinvestimenti obbligatori, deroghe di ogni tipo alle carte professionali, ossia un insieme di misure che miravano a finanziare il reclutamento di nuovi talenti e certi rinnovamenti limitati di forma: "Jeune Cinéma" è un appellativo tipicamente francese. In questo gioco, è a decine che i giovani cineasti sono venuti ad infrangersi, ad incagliarsi in un sistema che non ha mai smesso d'imporre la sua legge. l'organizzazione industriale del cinema con le sue enormi richieste di fondi è obbligata a seguire le esigenze del suo capitale, e cioè a non rischiare più del necessario e a seguire il più vicino possibile le formule già rodate. Più alto sarà il costo di un film, più questo film dovrà seguire la formula conformista (...). Io non vedo nessun vantaggio per il film in sé, né per l'artista, od adattarsi alle routine del film d'uso corrente. Dovrebbero liberarsene..." Questa posizione difesa da Hans RICHTER nella Revue du Cinéma (estate 1947, n° 7) fa eccezione nella stampa cinematografica francese; poiché critici e riviste hanno sostenuto con costanza tanto quanto con fervore l'aspirazione al cinema industriale, riprendendo e adattando le formulazioni, gli argomenti che l'editoriale della Revue du Cinéma sviluppava in questo stesso numero: “Sfortunatamente, fare un film d'avanguardia oggi non significa più marciare avanti, ma ricominciare dalle esperienze passate. I pezzi d'avanguardia più arditi nei loro soggetti, più ingegnosi nelle loro esecuzioni compaiono al giorno d'oggi nei film di Hollywood în cui ci sono degli effetti speciali (...). Certo Hollywood è abbastanza opulenta da produrre, male che vada, qualche capolavoro fortuito all'anno (....); nonostante tutti gli istituti e centri sperimentati del mondo il cineasta non avrà mai il piacere d'esercitarsi in altri modi che non siano girare per un produttore di film sempre costosi”. Sfogliando le riviste di cinema fino ai giorni nostri si potrebbero moltiplicare gli esempi: varianti a parte è questa identica posizione che si ritrova, con una sola eccezione, il cinema militante.
(...)
Film[modifica | modifica sorgente]
- Maine-Montparnasse di Claudine Eizykman e Guy Fihman
- Rhytmus 21 di Hans Richter
- Rhythmus 23 di Hans Richter
- Ex di di Jacques Monory
- V.W. Vitesse Women di di Claudine Eizykman
- Ultrarouge-Infraviolet di Guy Fihman
- Black and Light di Pierre Rovère
- Thanatopsis di Ed Emshwiller
- Yaa Boé di Dominique Avron e Jean Bernard Brunet
- 56 heures rue de la Santé di Edouard Beux
- D'art moderne di Dominique Willoughby
- Cassis di Jonas Mekas
- Schwechater di Peter Kubelka
- Piece Mandala pen War) di Paul Sharits
- Third Reich and Roll di The Residents (Cryptic Corporation aka Ralph Records)
- Autoportrait ou Ce qui nous manque à nous tous di Man Ray
- Kustom Kar Kommandos di Kenneth Anger
- Soleil di Pierre Clementi
- Pyramid Drawings di David Haxton
- Sur les bords de la caméra di Henri Storck
- See you later di Michael Snow
- Foregrounds di Pat O'Neill
- Les sorties de Charlerine Dupas: l'été di Joseph Morder
- Le Nez di Alexandre Alexeieff
- Topic I (I parte) di Pascal Baes
- Disques stroboscopiques di Dominique Willoughby
Viaggio allucinante[modifica | modifica sorgente]
Paris film coop o “Un viaggio allucinante”[modifica | modifica sorgente]
di Stefano Masi[12]
L'esperienza del gruppo dei cineasti legati alla cooperativa Paris film coop e alla rivista Melba rappresenta un Viaggio allucinante (sì, mi riferisco proprio al film di Richard Fleischer) all'interno della macchina-cinema. I protagonisti di questa avventura formale - Guy Fihman, Claudine Eizykman, Christian Lebrat, Jean-Michel Bouhours, Edouard Beux, Dominique Willoughby e altri - miniaturizzano se stessi e la propria aggressività di artisti per poter accedere, in una forma minima, all'interno del corpo meccanico e chimico del cinema, percorrerne le arterie e le vene, -visitarne gli organi, che ci appaiono nei loro film come delle caverne misteriose ed inesplorate. Ho detto “inesplorate”. Ebbene, in realtà essi sono i primi ad accedervi (si pensi all'esperienza del New American Cinema, ai film strutturali di Peter Kuebelca), ma questo non ha nessuna importanza, perché le priorità storiche e cronologiche hanno ben poco valore. Spesso si commette l'errore di guardare al cinema sperimentale per cercarvi materia per un “guinness” dei primati cinematografici (il film più breve della storia, ecc.): ogni artista che realizzi un’opera informata da coerenza e organicità è il “primo” nel suo campo. Il senso di un'operazione del genere sta nella sua forma e nelle sue motivazioni. Dunque, la meraviglia ed il coinvolgimento che queste visioni suscitano in noi derivano dal tipo di sguardo che la veicola, dal progetto che vi scorgiamo dietro. Ho detto “si miniaturizzano”. Farsi piccoli: che vuol dire? Per un artista significa rinunciare al proprio gratificante ruolo. così come lo intendeva la filosofia romantica e dell'arte, rinunciare a parlare, ad esprimere un messaggio, rinunciare a nascondersi dietro la retorica di un qualsiasi contenutismo o fervore missionario, per apparire nudo di fronte al tribunale della propria coscienza (anche se ci sarà sempre qualche idiota che si alzerà per gridare “il re è nudo”) e di fronte al problema basilare per ogni artista: restituire in una forma organica quell'armonia che giace nascosta dietro il caos della realtà. E' nell'acquisizione di questa etica - e solo in questo questo - che i filmmaker di cui parliamo possono dirsi appartenenti ad un medesimo gruppo. Il dire dei loro film è ridotto al minimo: scompare di fronte alla straordinaria capacità di “vedere” il funzionamento dell'apparato. Così, Trois couches suffisent di Guy Fima, non è altro che un viaggio tra gli strati di gelatina posati su supporto della pellicola: il rosso, il verde e il blu. Tra i vari strati dell'emulsione sulla quale la luce scava la sua traccia (...) il mistero dell'eternità fenomenica della vita, il dilemma della conservazione di un manufatto capace di sopravvivere al proprio artefice: è il “pari” (con il Blaise Pascal accogliamo il termine in un'unica accezione religiosa) che l'artista instaura con la sua stessa morte. Il colore è la più labile delle tracce che la luce scrive sulla pellicola. E non è un caso se Trois couches suffisent è proprio un film sul colore e sulla mobilità chimica, un film quindi destinato a scomparire nel giro di un certo numero di anni (le garanzie attuali della Kodak parlano di 50 anni di vita circa), un'opera che cerca l'eternità su un terreno perdente. Fihman muove da esperienze cinematografiche più tradizionali, come France Soir, un film che descrive con 1440 fotogrammi singolari tre mesi di un quotidiano (un po' come faceva un cineasta del N.A.C. che in un minuto presentava in fotogrammi singoli - i capisaldi della storia dell'arte occidentale). Poi, si sposta verso esperienze diverse e già con Ultra Rouge Infra Violet egli anticipa i temi di Trois couche suffisent. Ultra Rouge Infra Violet è un film dedicato al movimento del colore nel tempo: si fonda su una serie di circa ventimila variazioni cromatiche dell'immagine di un quadro di Pissarro, Les Toits rouges. Questa opera costituisce uno dei momenti più affascinanti del cinema francese degli anni settanta: riflessione sulla luce e sul suo "moto" sull'energia della decomposizione, sulla vita che si afferma attraverso la morte. La gelatina posata sul supporto diventa uno strato di terra nel quale gli organismi morti si fanno humus vitale per le forme a venire. Il senso della morte che si ritrova nei film di Guy Fihman appare completamente rovesciato nell'opera di Claudine Eizykman. Il suo V.W. Vitesses Women sprigiona una violenta energia vitale che si manifesta nell'esasperato frazionamento della sequenza e dell'inquadratura. Nell'esprimere questa straordinaria vitalità, ella si comporta in modo non poco paradossale, giacché usa il nero come colore base. V. W. Vitesses Women, Bruine Squamma, Moires mémoires, così come la maggior parte dei suoi film, sono fatti di luce e di colori che emergono misteriosi dal buio. Il nero dello schermo, che in alcuni tratti fa tutt'uno col nero della sala, modella continuamente il formato dell'immagine e ne fa ciò che vuole, un po’ come avviene in certi film di Christian Lebrat. Ma a questo punto occorre precisare cosa è il nero al cinema. Il nero - anzi il buio - è nel cinema ciò che l'ossigeno è per la vita: il buio al cinema è una condizione necessaria, indispensabile alla materializzazione dell'immagine. Quindi, il buio è la vita dei fantasmi schermici: ecco come il vitalismo di Eizykman si concilia con questa propensione all’oscurità, con questa sua dimensione sempre notturna (al contrario, il cinema narrativo ha affidato sempre un senso negativo al buio: dall'ombra proviene il pericolo, quell'inconoscibile che ci terrifica nell'horror film e che ci intriga nel film giallo). Per Claudine cinema è velocità, accelerazione del vedere umano, modificazione di quelle capacità percettive che usiamo quotidianamente, vero e proprio training. Il suo cinema può spingere alcuni critici a dire delle amenità, come quelle vergate da Luc Honorez in “Le Soir”, laddove questi afferma che nei film della Eizykman “non ci sono storie e ogni spettatore può inventarsene una”. In V. W. Vitesses Women le inquadrature perdono la propria consistenza naturalistica per apparirci sotto forma di fotogrammi isolati, come in Schwechater di Peter Kubelka. Nell’opera del film-maker viennese questa forma assume l'aspetto, l'armonia, la primtività della pittura di Giotto. Claudine è già una manierista. Non a caso i suoi film sono enormemente lunghi - V. W. Vitesses Women è di 36 minuti, Bruine Squamma è nella versione completa ben 122 minuti- per un film-maker che si serve di procedimenti vicini al flicker (si pensi non solo a Kubelka ma anche ad un Paul Sharits). Dove Kubelka sottraeva realtà per liberare le sue forme imprigionate nel caos della materia, Claudine lavora per accumulazioni progressive, sfruttando al duecento per cento la gamma di possibilità visive del cinema. Val la pena di sottolineare il ruolo che l’opera e il pensiero di Peter Kubelka hanno svolto nell'evoluzione dei film-maker francesi degli anni settanta. La vague ha preso consistenza sulla spinta di una grande mostra intitolata “Une histoire du cinéma”, che il Beaubourg commissionò al film-maker viennese verso la metà degli anni settanta. Le sue lezioni, il suo pensiero, le sue opere fornirono una fortissima motivazione ad un gruppo di giovani che solo marginalmente e da poco tempo pensavano alla possibilità di servirsi del cinema. Molti di loro provenivano da istituti d’arte e scoprire la visione del cinema kubelkiana fu un'autentica rivelazione: la rivelazione di una continuità esistente tra le arti tradizionali ed il film. In un certo senso questa vague di film-maker francesi ha un' origine intellettuale, perché ha subito un fortissimo stimolo dalla conoscenza delle opere di un altro artista più che dall’osservazione della natura o, come si dice oggi, della società. Ma non bisogna dimenticare che Claudine Eizykman e Guy Fihman realizzavano film notevoli sin da prima della grande esposizione parigina curata da Kubelka. Uno dei filmmaker francesi motivati al cinema da Kubelka è Christian Lebrat. Egli usa il cinema per proiettare fuori di sé la mappa di un percorso che egli individua per le informazioni visive all’interno del sistema percettivo. Ed all'atto della visione del film, questa mappa passa direttamente dallo schermo della sala al sistema percettivo dello spettatore, potendo accadere che quest'ultimo non capisca bene il tipo di operazione al quale si è sottoposto. La retina diventa una specie di schermo interiore, sul quale il sistema percettivo “vede” il film proiettato dall'occhio, forse senza che il cervello se ne accorga. Quest'ultimo a volte confonde il conoscere col riconoscere, per cui ritiene di poter conoscere solo ciò che ha già conosciuto in precedenza. Il punto è che noi siamo abituati a “vedere” immagini sempre uguali, a scambiare l'atto del conoscere con quello del riconoscere. Tutto ciò ci trascina verso il conformismo. Il cinema di Lebrat agisce su questi vuoti della nostra cultura (nel senso antropologico del termine) e opera su un concetto di memoria più appropriato all'arte cinetica. I film di Lebrat sono divisi in due parti: gli écarts e le organisations. Gli écarts sono film nei quali egli lavora su strisce di immagini che ospitano contenuti rappresentativi e ci appaiono in forma di singole unità che interferiscono fra loro. Le organisations invece sono quei film nei quali Lebrat lavora su strisce luminose di puro colore e che presentano serie di unità le quali sono proiettate simultaneamente. Sia negli écarts che nelle organisations una delle ipotesi di lavoro fondamentali per Lebrat è costituita dalla ricerca sulle “informazioni minimali”. Lo spazio dello schermo, così come è organizzato, coi suoi limiti e le sue dimensioni, è sentito da Lebrat come un'imposizione, una costrizione alla quale l'artista deve continuamente dire no. Grossa parte del suo lavoro di cineasta è volta a far saltare i rapporti istituzionali tra l'occhio dello spettatore e lo schermo. Negli écarts Lebrat ha impressionato soltanto piccole strisce verticali del fotogramma, chiudendo il campo visivo dell'obiettivo con due mascherini che lasciavano passare soltanto una piccola porzione del fascio luminoso dell'immagine. Piccolo manifesto del cinema lebrattiano può considerarsi il suo recente “autoritratto con dispositivo”, un film realizzato con un mascherino mobile (l'uso dei mascherini è una delle caratteristiche dominanti del suo cinema) col pensiero rivolto ad alcune esperienze del cinema primitivo: qui i filmmaker sottolinea ed isola alcuni aspetti del funzionamento dell'apparato, a cominciare dal ritmo intermittente del movimento, che rappresenta un'autentica ossessione formale per Lebrat. L'autoritratto sfrutta le esposizioni multiple e la simmetria dell'immagine, è un film colto, raffinato e porta il marchio di una personalità le cui sfumature sono ben riconoscibili nell'ambito della vague. Qui il mascherino crea una strano effetto di flicker. Flicker è il respiro del cinema e costituisce una delle figure fondamentali nella retorica cinematografica dei cineasti di questo gruppo. Sostanzialmente il flicker non è altro che lo sfarfallio della luce sullo schermo, causato dal fatto che il meccanismo cinematografico proietta sullo schermo ogni secondo 24 immagini e 24 momenti di oscurità. L'occhio umano non vede questi momenti di oscurità, ma se la proiezione viene rallentata di almeno un terzo comincia a scorgerli. Usare fotogrammi singoli comporta necessariamente fare i conti col flicker e con tutto ciò che gli sta dietro. Esistono diversi tipi di flicker: quelli di luce pura (è questo il flicker “classico”) e quelli di immagini, con flash di forme che appaiono sullo schermo e vi restano per almeno un quarantottesimo di secondo. A metà strada tra questi due tipi di flicker - cioè a metà strada tra l'astrattezza del flicker di luce pura ed il “contenutismo” del flicker di immagini - c'è il flicker di colore, che riempie lo schermo di un colore uniforme (lo ha usato soprattutto Sharits). I cineasti francesi di cui stiamo parlando tendono ad usare soprattutto il flicker di immagini, che è il più attento al contenuto. Questa spinta contenutistica controbilancia quell'estrema astrattezza che deriva e questi film dalla totale assenza di sonoro. Ci troviamo di fronte, infatti, ad una vague che rifiuta l’uso del suono. Una spiegazione di questa circostanza potrebbe ritrovarsi nel retroterra culturale di questi filmmaker, la maggior parte dei quali proviene dalle arti figurative tradizionali. Muti sono anche i film di Jean-Michel Bouhours. Insieme a Dominique Witloughby, egli è - tra i cineasti del gruppo quello che con maggior evidenza mette in mostra la provenienza dalle arti figurative. In Rythmes 76 egli lavora sul rapporto tra immagine grafica ed immagine fotografica all'interno di una struttura filmica fortemente ritmata. Il forte coinvolgimento emotivo di questo film, come dei successivi Chronoma e Sécan ciel, è legato alla sua capacità di scoprire i nessi segreti e magici tra i diversi tratti che costituiscono le immagini e possono ricomporsi nella nostra immaginazione. Bouhours sa spostarsi continuamente dall'universo grafico a quello fotografico, ingannando continuamente la nostra percezione e la nostra abitudine a considerare realistico ciò che è fotografico e irreale ciò che è dipinto. In altri termini ci troviamo di fronte ad una particolare qualità del vedere, che riesce continuamente a scoprire il fascino scenografico di una situazione reale e a trasfigurarla completamente. L'avventura di questi cineasti all'interno dell'apparato filmico rappresenta un momento fortemente unitario (nonostante essi rifiutino - giustamente - il concetto di appartenenza ad un gruppo) che spicca con bella evidenza nel panorama del la cultura europea degli ultimi dieci anni e meriterebbe certamente un'attenzione più estesa di quella che gli si riserva in questa sede, anche perché costituisce un'occasione strordinaria per esplorare -sul corpo di questi film - il rapporto tra il cinema e la cultura figurativa che attorno al cinema è cresciuta, evolvèndosi sotto una spinta così potente come quella della tecnologia.
Cinema per la realtà. Cinema utile[modifica | modifica sorgente]
Cinema per la realtà[modifica | modifica sorgente]
Questa nuova sezione vuole offrire la possibilità di realizzare documentari di massimo 15'/20' di durata, da girare sul territorio di Bellaria-Igea Marina. E un concorso per progetti rivolto a giovani cineasti indipendenti. Nel corso dell'edizione 2002 verranno dichiarati i vincitori ai quali sarà offerta ospitalità sia per la fase della preparazione che per quella delle riprese del documentario, I temi di quest'anno sono: il divertimento e gli stranieri. I documentari dovranno essere realizzati entro il 15 settembre 2002. Tele+ ha offerto la disponibilità ad acquistare i diritti per il passaggio di n.1 documentario. Obbiettivo primario del concorso è quello di poter essere in grado offrire un'opportunità a giovani cineasti per sviluppare e migliorare la propria ricerca espressiva e narrativa, ma è anche quello di poter offrire al territorio di Bellaria spunti interessanti di riflessione sulla propria realtà raccontati con la telecamera. Dal 15 settembre 2002 alla prossima edizione del festival i documentari saranno utilizzati sul territorio in iniziative pubbliche e verranno proiettati nel Bellaria Film Festival 2003 in occasione della proclamazione dei vincitori del concorso “Cinema per la realtà 2003”.
Cinema utile[modifica | modifica sorgente]
L'edizione di Bellaria 2002 ha tra le novità del suo programma la sezione “Cinema Utile”: occasione per offrire al pubblico la visione di film dedicati a temi delicati, difficili e importanti. Quest'anno si avrà modo di incontrare e conoscere il lavoro della Caritas Diocesana Romana con l'anteprima di Un giorno a Roma, mediometraggio documentario realizzato dagli allievi del I° anno dei corsi di Regia, Sceneggiatura, Suono e Montaggio della Scuola Nazionale di Cinema di Roma, e quello dell'Associazione Italiana Persone Down con la proiezione di A proposito di sentimenti... realizzato nel 1999. La sezione vuole caratterizzarsi anche come opportunità d'incontro con il territorio attraverso proposte utili e stimolanti per la comunicazione e la formazione dei cittadini.
di Daniele Segre
Film[modifica | modifica sorgente]
- Un giorno a Roma di Eros Achiardi, Davide Borettaz, Domenico Di Stilo, Christian Filippella, Fausto Molina, Slaven Rogosic
- A proposito di sentimenti... di Daniele Segre
Scuola nazionale di cinema[modifica | modifica sorgente]
La Fondazione “Scuola Nazionale di Cinema” (ex Centro Sperimentale di Cinematografia) è una delle più antiche scuole di cinema del mondo. La fondazione del CSC risale al 13 aprile 1935, anche se già da qualche anno (dal marzo del 1932) era in attività la “Scuola Nazionale di Cinematografia”. Nel corso dei suoi oltre 60 anni di vita, la Scuola ha formato intere generazioni di cineasti. Da Antonioni alla Cavani, da Bellocchio a Virzì, da Loy all’Archibugj, da Maselli a Verdone, molti rappresentanti di punta della cinematografia italian sono passati per i teatri di posa del Centro Sperimentale di Cinematografia. Illustri e autorevoli i docenti che hanno messo la propria arte a disposizione de gli allievi: Alessandro Blasetti, che è stato anche l'ideatore del Centro, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Pietro Germi, Suso Cecchi d'Amia, Furio Scarpelli, Roberto Perpignani, Gianni Amelio. Questi sono solo alcuni dei nomi di prestigio che negli anni hanno dato il proprio contributo nella formazione dei giovani cineasti. Nove i corsi già attivi, tutti di durata triennale: Fotografia; Montaggio; Produzione; Recitazione; Regia; Sceneggiatura; Scenografia; Arredamento e Costume; Tecnica del suono; Animazione, che si svolge presso la sezione distaccata di Torino della SNC. Nato come scuola di cinema, il Centro Sperimentale di Cinematografia (trasformato, nel 1997, da Ente Pubblico.in Fondazione e denominato SNC), ha progressivamente ampliato le sue attività. Nei cellari della Cineteca Nazionale della SM sono preservate circa 45.000 pellicole, 700.000 immagini fotografiche sono conservate nella Fototeca, 60.000 tra manifesti, locandine e fotobuste sono archiviati nella Manifestoteca, oltre 60.000 i testi e le opere raccolti nella Biblioteca (monografie - pubblicazioni - sceneggiature). Attualmente la Scuola Nazionale di Cinema si articola in quattro diversi settori: Biblioteca e Attività Editoriali; Cineteca Nazionale; Formazione, Ricerca e Sperimentazione; Produzione e Promozione Culturale.
- Moloud di Eros Achiardi
- Una bella giornata di Marco Chiarini
- In battere di Francesco Lagi
- Che vergogna di Susanna Nicchiarelli
- Il miglior amico dell'uovo di Francesco Lagi
- Natale di Claudio Cicala
- Piuttosto che in eterno di Paolo Tripodi
- Una notte di Camilla Ruggero
- Per sempre tuo di Miloje Pepovic
- Vaccaro's Italian Pastry Shop di Alessandra Tantillo
- Mon Cher di Michele Carrillo
- Lucia di Sara Pozzoli
- Tao di Edo Tagliavini
- Looking Death Window di Alessandro Rak
I mestieri del cinema[modifica | modifica sorgente]
Gianluca Arcopinto, produttore[modifica | modifica sorgente]
Nato a Roma nel 1959 e laureato in Letteratura Italiana, si è diplomato in Organizzazione delta produzione al Centro Sperimentale di Roma. Ha insegnato presso l'Istituto Rossellini, il Centro Sperimentale (dove è stato anche È stato Consigliere di Amministrazione e membro della Commissione Didattico-Culturale), il Master ANICA, Roma 3, la Scuola di Cinema A.Magnani di Prato, la Scuola Nazionale di Cinema. Tra i riconoscimenti per le sue produzioni, vi sono il Sacher d'Oro per Il caricatore di Cappuccio, Gaudioso e Nunziata, e una menzione speciale al Nastro d'Argento perj suoi cortometraggi. Numerosi film da lui recentemente prodotti hanno ottenuto importanti riconoscimenti. Nella mischia di Gianni Zanasi e I nostri anni di Daniele Gaglianone hanno partecipato alla “Quinzaine des realisateurs” del Festival di Cannes, hanno ottenuto il Sacher d'Oro e sono stati candidati al Nastro d'Argento quali migliori opere prime. I nostri anni ha vinto il premio della giuria al Festival del Cinema Italiano di Villerupt; Il caricatore il Ciak d'Oro e il Premio Casa Rossa; Un amore il N.I.C.E.; Dentro e fuori di Giacomo Ciarrapico il Festival Sacher 2001; Pugili il Fipresi al Festival di Torino. Tornandio a casa di Vincenzo Marra - e presente nell'attuale edizione di Anteprima - ha riscossso premi presso il Festival di Venezia, il Festival di Annecy, il Festival di Buenos Aires, la Mostra di Valencia, la Grolla d'Oro, la Targa delle Grolle, il David di Donatello.
Giuseppe Attene, distributore[modifica | modifica sorgente]
Nato il 16 ottobre 1949 a Cagliari, vi si laurea in filosofia e inizia a lavorare presso la cattedra di Storia del Pensiero Economico, con numerose pubblicazioni. Trasferitosi a Roma nel 1978, diviene vice presidente nazionale dell'ARCI, poi dirigente di Cinecittà S.p.A. e, nel 1990, direttore generale dell'Istituto LUCE. Nel 1994 nasce, in collaborazione con la Videa di Sandro Parenzo, la Nemo Distribuzione Cinematografica Italiana, di cui Attene è presidente. Nel 1996 fonda insieme a Paola Ermini una nuova Compaghia: la Làntia Cinema & Audiovisivi, con lo scopo di operare nel campo della produzione di cinema e televisione, cercando di combinare i valori (professionali e culturali) del cinema con le esigenze della struttura televisiva. La Làntia privilegia da un lato il terreno della fiction e del documentario, come spazio di possibile accordo tra autori e televisione, dall’altro una stabile produzione di cinema di qualità completata da un’attiva distribuzione. Tra le sue produzioni: Alfabeto Italiano (21 film di montaggio affidati a 21 registi: Amelio, Bellocchio, Piccioni, Segre, Labate, Cristina Comencini, Verdone, Martone, etc.), Risvegli (5 film da 100' per Rai 3 affidati a Gianni Amelio, Fiorella Infascelli, Ermanno Olmi, Enrìco Ghezzi e Mario Martone); tra le coproduzioni Dancer in the dark di Lars Von Trier e The Luzhin defense di Marleen Gorris. Nelle distribuzioni si è rivolta a film di acquisizione di interesse come Balla la mia canzone di Rolf de Heer, Prima la musica poi le parole di Fulvio Wetzl, Una lunga, lunga, lunga notte d'amore di Luciano Emmer, Alla rivoluzione sulla due cavalli di Maurizio Sciarra (Pardo d'oro al Festival di Locarno), Ultima lezione di Fabio Rosi (presente nell'attuale Anteprima), La regina degli scacchi di Claudia Florio.
Luca Bigazzi, direttore della fotografia[modifica | modifica sorgente]
“Terminato il liceo, ho incominciato come aiuto regista, ma non mi interessava fare il regista, né tanto meno fare pubblicità; aspettavo l'occasione di altre opportunità, facendo l'operatore, piazzando le luci, che era in realtà quello che avrei voluto fare. In verità non avevo mai lavorato davvero come assistente operatore né come operatore di macchina prima di decidere, con Silvio Soldini, di realizzare un piccolo film. Si trattava di Voci celate, in un primo tempo pensato come film in 16mm in bianco e nero, della durata di mezz'ora, poi divenuto un film di un'ora e un quarto. E' andata benissimo e da quel momento non mi sono più fermato” (L.B.). Nato a Milano nel 1958, ha lavorato, tra l'altro con Silvio Soldini in Paesaggio con figure, Giulia in ottobre, L'aria serena dell'ovest, Un’anima divisa in due, Le acrobate, Pane e tulipani (David di Donatello), Brucio nel vento; con Mario Martone in Morte di un matematico napoletano e L'amore molesto; con Daniele Segre in Manila paloma blanca; con Gianni Amelio in Lamerica (David di Donatello) e Così ridevano; con Ciprì e Maresco in Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte; con Francesca Archibugi in L'albero delle pere e Domani; e inoltre con Michele Placido, Giuseppe Piccioni, Francesca Comencini.
Toni Bertorelli, attore[modifica | modifica sorgente]
Attore di cinema e teatro, ha interpretato numerosi film, tra cui L'ora di religione (2002) e Il Principe di Homburg (1997) di Marco Bellocchio, La lingua del santo (2000) e L'estate di Davide (1998) di Carlo Mazzacurati. Si ricordano inoltre: Le parole di mio padre di Francesca Comencini (2001), La stanza del figlio di Nanni Moretti (2001), La regina degli scacchi di Claudia Florio (2001), Elvjs e Merilijin di Armando Manni (1998), Le mani forti di Franco Bernini (1997), Pasolini un delitto italiano di Marco Tullio Giordana (1995), Il giovane Mussolini di Gianluigi Calderone (1993), Morte di un matematico napoletano di Mario Martone (1992).
Incontro con un miglior attore non protagonista[modifica | modifica sorgente]
Intervista a Toni Bertorelli di Alberto Farassino
Toni Bertorelli, qual è stata la sua prima esperienza cinematografica? “Ma che domanda mi fai? Lo sai benissimo!” In effetti lo so benissimo. Anzi, coltivo da tempo il piccolo orgoglio di ‘aver dato proprio io a Toni Bertorelli il suo primo ruolo in un film. Bilanciato dal rammarico che quel film non lo vide nessuno e non aprì affatto al giovane e già bravissimo attore le porte del cinema. Comunque, per la storia, era uno degli “sperimentali” prodotti nei primi anni settanta da Italo Moscati per la Rai, secondo canale. Il titolo, bruttissimo ma “linguistico-teorico”, en Dentro/fuori, la regia era firmata da Nereo Rapetti, io avevo soprattutto curato la sceneggiatura, anche se fino alla fine delle riprese tutto il lavoro, casting compreso, fu condotto in comune, secondo gli usi o i miti del tempo. Il soggetto veniva da un bel rocconto di Fenoglio rimasto inedito e che Maria Corti aveva appena pubblicato su “Strumenti Ilo sbandamento dell'autunno 1944, fuggiva critici”: Toni era un giovone partigiano che, ne da un rastrellamento te:'esco con due compagni e, rimasto solo, finiva per nascondersi in una tomba in un cimitero di campagna. Toni, mi potresti però roccontare che ricordo hai di quell'esperienza “Un ricordo forte, era lo prima volta che stavo su un set cinematografico, fino ad allora avevo fatto solo dei lavoretti per la Tv e avevo recitato în teatro, allo Stabile di Torino, dove ero entrato per frequentare la scuola ma mi avevano subito buttato sul palcoscenico. Ma era un momento di confusione anche istituzionale e quello non era il teatro che mi aspettavo. E anche il cinema fu un qualcosa di strano, di inatteso. Mi sconvolgeva il dover rifare le scene, io che davo tutto alla prima. E ricordo la fatica anche fisica, su e giù per le colline delle Langhe, specie quella scena in cui trasportavo quel partigiano ferito...” Ti ricordi chi era? Era Aldo Grasso, che in quel film faceva anche l'aiuto regista. “Ah, ecco perché scrive sempre bene di me sul “Corriere”, appena ne ha l'occasione.” Spero che quando poi hai fatto Il partigiano Johnny di Guido Chiesa te ne sia ricordato ancora. “Naturalmente. E ho pensato: trent'anni fa Johnny ero io, mentre ora devo interpretare suo padre...” Comunque di anni ne sono poi passati venti, prima che ritornassi al cinema con Morte di un matematico napoletano. No, in realtà un paio di cose le avevo fatte. Nel 1974 ebbi una parte, e il piacere di lavorare accanto a Ingrid Thulin, in un film che si intitolava E cominciò il viaggio nella vertigine. Allora facevo il Woyzeck con il Granteatro di Carlo Cecchi, recitavamo in un teatro di Pietralata dove venivano a vederci soprattutto degli zingari e non incassavamo una lira. Io saltai tre recite per partecipare al film ma in compenso con la mia paga tutta la compagnia mangiò per una settimana. Poi feci l'ultimo film di Caprioli, La trastola, nel 1983, un altro film che non vide nessuno. E così maturavo quella concezione che molti attori di teatro hanno del cinema, qualcosa di un po’ volgare, dove l'attore è usato come un riflettore o un obiettivo, una rotellina di un giocattolo con cui l'unico che si diverte è il regista...”. Poi è arrivato il film di Martone e lì finalmente sei stato notato ". “Sì, ma soprattutto ho capito che il cinema è il contrario di come lo pensavo. Ho capito che l'obiettivo è un complice, e che se qualcuno mette insieme la mia faccia, una certa luce e quell’obiettivo viene fuori qualcosa, e che quel qualcosa ha a che fare con un sentimento o una passione. (...) “Trovo difficile stabilire dei rapporti, mi sembrerebbe giusto non separarli ma oggettivamente sono due cose diverse. Ma non credo che il cinema mi abbia cambiato come attore. C'è comunque un elemento comune ed è il modo in cui ci si impadronisce del personaggio, che è poi il nodo di ogni tecnica recitativa, che sia brechtiana o sta stanislavskiana. Ma da un po' di tempo i rapporti fra cinema e teatro li sento soprattutto a livello di regia. Quando, cinque anni fa, ho cominciato a fare delle regie teatrali mi sono ritrovate a usare tecniche cinematografiche. E mi ha sempre interessato intrecciare i due linguaggi, fin da quando, quindici anni fa, ho messo in scena con Massimiliano Troiani una da sceneggiatura cinematografica di Harold Pinter, The Basement, in cui le didascalie dello script originario venivano proiettate “cinematograficamente” sulla scena. Poi la scorsa estate ho realizzato la teatralizzazione di Simon del deserto di Buñuel, seguendo fedelmente il film e i suoi personaggi, la madre, il nano, il diavolo, e aggiungendo delle scene che nel film erano solo suggerite ma in qualche modo già presenti” Buñuel è un regista che ti interessa anche al di là di quel film? “Buñuel è stato, con Bergman, uno degli autori che mi hanno cambiato la vita. Il suo negare l'evidenza, capovolgere la realtà, è stato determinante nei miei anni formativi”. Quindi al cinema sei sempre andato “Sì, ma soprattutto da spettatore. Vedendo molto cinema di consumo. Da giovane mi piaceva imitare certi attori, volevo fare l'attore e copiavo quelli che vedevo sullo schermo, anche nella vita. All’epoca dei western all'italiana mi atteggiavo come Clint Eastwood, fumavo sigarillos e parlavo con la voce di Enrico Maria Salerno”. E invece sei poi finito nell'avanguardia, nei Majakovskij di Carlo Cecchi. “Che è stato un maestro ma anche qualcuno dalla cui ombra era difficile uscire. In effetti a teatro ho fatto tantissimo, anche con altri grandi attori, Eduardo, Orsini, Sbragia, ma mai in ruoli da protagonista o almeno, come si dice da noi, “seduto sopra il titolo”. Per avere un ruolo più determinante ho dovuto farmi le mie regie. E anche nel cinema è stato così. Parti bellissime magari, come nel Pasolini di Giordana [premio Sacher per il miglior attore non protagonista. Ndr] o nel Principe di Homburg di Bellocchio, per non parlare di questo conte Bulla di L'ora di religione che mi sembra stia diventando un personaggio- cult. Ma mai da vero protagonista. Tutti ora parlano di me come se avessi fatto centinaia di film e ruoli grandiosi, invece sono sempre stato il cacio sui maccheroni, la ciliegina sulla torta... Io adesso rinuncio anche al teatro, ma, per piacere, datemi una parte da protagonista!”
Roberto Perpignani, montatore[modifica | modifica sorgente]
“Tentare di definire il montaggio è cercare di fermare una forma dinamica, tanto ricca, diversificata e mutevole, com'è per tutte le forme espressive, da richiedere una attenzione e un coinvolgimento totali, prima fra tutte l'identificazione con l'oggetto della propria ricerca. Si tratta ogni volta di essere disponibili ad entrare nella narrazione, quasi fisicamente, e cercare di seguirne il percorso creativo, perché il montaggio è lì, è nel concepire le contaminazioni e le funzioni delle parti che, aggregandosi, nella progressione portano avanti il racconto. La narrazione ha bisogno di una linea, di un indirizzo, di un percorso da seguire, una suggestione trainante dalla quale prende forma l'ipotesi rappresentativa, non solo di concetti o di fatti narrativi, ma il più delle volte, nelle forme proprie alla rappresentazione, capace di tradurre e sollecitare emozioni, spesso vere ragioni del raccontare. Montare, riprendendo una mia frase di molti anni fa, è per me dare forma alle emozioni, con tutta l'essenzialità e la verità che questo comporta.” (R.P.) Nato a Roma il 20 aprile 1941, compie gli studi di pittura, fino a che non viene indirizzato al cinema definitivamente da un'esperienza di lavoro; per un anno intero, il 1962, collabora al montaggio di vari lavori che Orson Welles realizza prima in Italia poi a Parigi: una serie di mediometraggi sulla Spagna (Nella terra di Don Quijote) e il film Il processo. Nel 1963 incontra Bernardo Bertolucci, con il quale collaborerà per circa dieci anni montando Prima della rivoluzione, La via del petrolio, Agonia (Amore e rabbia), Partner, La strategia del ragno, Ultimo tango a Parigi (assieme a Franco Arcalli). Nel 1968 inizia la collaborazione con i fratelli Taviani, per i quali ha montato Sotto il segno dello scorpione, San Michele aveva un gallo, Allonsanfàn, Padre padrone, Il prato, La notte di San Lorenzo, Kaos, Good morning Babilonia, Il sole anche di notte, Fiorile, Le affinità elettive, Tu ridi, Resurrezione. Complessivamente il suo lavoro conta più di cento titoli, per film di registi quali Francesca Archibugi, Gianni Amelio, Marco Bellocchio, Nanni Moretti, Florestano Vancini, Daniele Segre, Miklòs Jancsò. Dal 1977 insegna alla Scuola Nazionale di Cinema; e inoltre tiene annualmente corsi e seminari presso università e scuole specializzate italiane e straniere. Ha ottenuto diversi riconoscimenti per i montaggio, tra cui due David di Donatello (La notte di San Lorenzo e Il postino) e un Ciack d'Oro.
(I ragazzi di via Panisperna).
Anteprime[modifica | modifica sorgente]
- Carlo Giuliani, ragazzo di Francesca Comencini
- S'era tutti sovversivi (dedicato a Franco Serantini) di Giacomo Verde
- Cuori all'assalto. Storia di Raffaele e Cristina di Bruno Bigoni
Fuori concorso[modifica | modifica sorgente]
Altre visioni[modifica | modifica sorgente]
- Una doccia fredda di Marzia Amoroso
- Eleonora Duse. Commiato di Massimiliano Valli
- Figlio di penna di Francesco Amato
- Giravolte di Carola Spadoni
- L’insonnia di Devi. Viaggio attraverso le adozioni di Costanza Quatriglio
- I nostri anni di Daniele Gaglianone
- R for redrum di Luigi de Angelis
- Il salto del lupo di Mario Garofalo
- Il treno per l'opera di Catherine McGilvray
Genovisioni[modifica | modifica sorgente]
- La disobbedienza e pulcinella di Samantha La Ferla
- Zona gialla di Giuseppe Giusto
Cinema del cinema[modifica | modifica sorgente]
- Italian Soldiers di Francesco Cabras
- Una ragione in più. Conversazioni su cinema e video con Isabella Sandri di Francesco Barnabei
- Due le coppie di artisti di Francesco Barnabei
- Sets di Marco Zarotti
- Vampiri in Val Gardena di Matthias Hoglinger
- ↑ Pasquale Iaccio, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, Liguori, Napoli, 2002, pp.1-3
- ↑ Giovanni Verga, Libertà, in “Novelle rusticane”, Treves, 1883
- ↑ Pasquale Iaccio, Cinema e storia. Percorsi immagini testimonianze, Liguori Editore, Napoli, 2000, p. 414 ss.
- ↑ Pasquale Iaccio, Bronte, cit., p. 59 ss.
- ↑ Pasquale laccio, Cinema e storia, cit., pp. 421 ss.
- ↑ Vincenzo Esposito, in Pasquale Iaccio, Bronte, cit., p.29 ss.
- ↑ Il pane sulla punta delle baionette, “L'Espresso”, 7 mag 1972; ora in Id., Al cinema. Centoquarantotto film d'auto, Bompiani, Milano, 1975.
- ↑ Bronte, “Avanti!”, 28 maggio 1972; riscritto per Il cinema italiano degli anni ‘70. Cronache 19681 Marsilio, Venezia, 1980
- ↑ Sulla cronaca di un massacro, “La Stampa”, 23 giugno 197
- ↑ 6 giugno 2001
- ↑ Alfredo Baldi, in Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario universale del cinema Volume secondo, Editori Riuniti, Roma, 1985 con aggiornamento redazionale
- ↑ Stefano Masi, in “Visuel”, Edizioni Carte Segrete, Roma, a. II, n. 7, giugno 1983.