2003

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Locandina Bellaria Film Festival, Anteprima per il cinema indipendente italiano, 2003

Enti Promotori[modifica | modifica sorgente]

  • Comune di Bellaria Igea Marina
  • Assessorato alla Cultura
  • Ministero per i Beni e le Attività Culturali
  • Dipartimento dello Spettacolo
  • Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini
  • Sindaco: Gianni Scenna
  • Assessore alla Cultura: Ugo Baldassarri
  • Dirigente Settore Cultura: Italo Cecchini

Direzione[modifica | modifica sorgente]

  • Direzione Artistica: Antonio Costa, Morando Morandini, Daniele Segre
  • Direzione organizzativa: Antonio Tolo
  • Segreteria, ricerca film: Nicoletta Casali, Cristina Gori
  • Catalogo, immagine: Antonio Tolo
  • Ufficio Stampa: Studio MIDI, Moira Miele, Diana Massarotto, Paolo Pagliarani (stampa locale)
  • Ufficio ospitalità: Giorgia Lazzari
  • Immagine di copertina: ElleKappa
  • Proiezioni: Brenno Miselli, Angela Miselli, Ugo Baracchi, Fausto Salomoni
  • Proiezioni video: Mirco Ricci, Emanuele Fabbri
  • Hanno collaborato: Manuela Arenella, Arianna Campana, Cinzia Mondaini

Giurie[modifica | modifica sorgente]

  • Giuria del concorso anteprima: Alessandro Baricco, Carla Cattani, Valentina Cervi, Wilma Labate, Pierre Todeschini
  • Segretaria di giuria: Francesca Airaudo
  • Giuria del Premio Casa Rossa: Edoardo Bruno, Mario Calderale, Gianni Canova, Paolo D'Agostini, Silvio Danese, Aldo Fittante, Bruno Fornara, Massimo Lastrucci, Emanuela Martini, Cristiana Peternò, Alberto Pezzotta, Adelina Preziosi, Mario Sesti, Giovanni Spagnoletti, Sandro Zambetti
  • Giuria del concorso 150” a tema fisso: Antonio Costa, Morando Morandini, Daniele Segre

Bellaria Igea Marina e il suo Festival[modifica | modifica sorgente]

Gianni Scenna (Il Sindaco), Ugo Baldassarri (L'Assessore alla Cultura)

La 21a edizione di Anteprima per il cinema indipendente italiano offre l'occasione per una veloce analisi del rapporto che esiste fra il Festival e la città che lo accoglie. Ogni iniziativa culturale per dirsi compiuta deve essere radicata nel territorio che la ospita, deve legarsi ad essa saldamente fino ad una completa identificazione, che permetta, nel nostro caso, al nome Anteprima di divenire sinonimo di Bellaria Igea Marina e viceversa. La nuova sfida che l'Amministrazione Comunale ha lanciato alla Direzione Artistica è stata proprio quella di cercare un ancora maggiore coinvolgimento fra Anteprima e Città. E le risposte non sono mancate: già dallo scorso anno ci sono state iniziative importanti, che vengono quest'anno riproposte, come il Video Magazine e il Concorso Cinema per la Realtà, che hanno visto all'opera numerosi studenti universitari intenti alla realizzazione di diversi film a Bellaria Igea Marina. Si tratta di un primo nucleo di attività formative a cui spero sia possibile aggiungerne presto altre. In conclusione voglio ricordare un episodio della vita politica di questo paese che ha visto Anteprima per il cinema indipendente italiano protagonista di un Consiglio Comunale in cui tutte le forze politiche, sia di governo che di opposizione, hanno riconosciuto il grande valore che questa esperienza ha per la nostra Comunità. Ritengo che quest’episodio sia stato un giusto riconoscimento al lavoro svolto negli corso di questi ventuno anni.

Resistere[modifica | modifica sorgente]

Ventunesimo compleanno del Bellaria Film Festival-Anteprima per il cinema indipendente italiano, e secondo anno del triumvirato composto, oltre che dal padre fondatore Morando Morandini, da Antonio Costa e Daniele Segre. Un tempo, a ventun anni, si diventava maggiorenni. Oggi lo si diventa un po’ prima, ma resta sempre valido il detto che è facile fare il primo film, ma è con il secondo che cominciano i guai. Guai non sono mancati: inutile fare l'elenco... Dopo l’espansionistico motto allargare l'orizzonte dello scorso anno (che a conti fatti è stato realizzato), la riduzione del budget e i tempi infausti ci inducono ad adottarne un altro, attuale in tutti i sensi: resistere... Lo scorso anno, pur nel rispetto della tradizione di Anteprima, si è riusciti effettivamente ad aggiungere nuove aree di interesse; in particolare, ci sono state aperture significative ad una dimensione di documentazione e di intervento, secondo la formula “cinema utile”, introdotta con il contributo determinante di Daniele Segre. Essa viene riproposta quest'anno: in collaborazione con l'Agenzia Redattore Sociale, verranno presentati film e video sull'handicap e sui rifugiati politici (tra questi Piovono mucche di Luca Vendruscolo). Dedicate all'attualità sono le anteprime o riproposte, tra le quali vanno segnalati Firenze, il nostro domani, il film collettivo montato da Franco Giraldi sulla manifestazione dei no-global a Firenze, e Sintonie di primavera, documentario sulla guerra dell'Iraq realizzato dagli studenti della Scuola Nazionale di Cinema. Strettamente collegato a queste sezioni, il concorso Cinema per la realtà: verranno selezionate le migliori sceneggiature sul tema “Lavori flessibili, vite precarie” e i vincitori potranno realizzare i loro video a Bellaria-Igea Marina, fruendo dell'assistenza e dell'ospitalità dell'Ente locale. I video così realizzati lo scorso anno, Stranieri no-strani e Samir e Slavko (il tema era “Stranieri”) verranno proiettati nella presente edizione e poi fatti circolare nel territorio. Risulta potenziato il rapporto con le Università e la Scuola Nazionale di Cinema: altre sedi, oltre al DAMS di Bologna e la SNC, hanno selezionato gli studenti che, sotto la direzione di Segre, realizzeranno il videomagazine che ogni sera presenterà al pubblico una documentazione sugli eventi del festival. In collaborazione con la CUC (Consulta Universitaria peri l Cinema), vengono riproposti gli incontri “I mestieri del cinema” (tra i docenti di quest'anno, i registi Franco Giraldi e Marco Puccioni, il direttore della fotografia Paolo Ferrari, il produttore Mario Mazzarotto, il critico Alberto Crespi e l'editore Dino Audino). Le opere inviate alla selezione per il concorso Anteprima sono state 467, contro le 332 dello scorso anno, con un incremento di oltre il 30%. Quanto a provenienza, 68 sono le province italiane rappresentate. Lo storico primato dell'Emilia Romagna viene clamorosamente ribaltato: Roma risulta in testa con 119 opere, contro le 59 complessive dell'Emilia Romagna (che è il numero di opere inviate dalla sola Milano). 15 sono le opere provenienti dall'estero, con un forte incremento rispetto allo scorso anno (più che effetto della nostra apertura alla Svizzera Italiana, ci sembra che il fenomeno sia legato alla maggior circolazione dei nostri studenti in programmi Erasmus e simili). Le opere ammesse al concorso sono state 38. Per documentare la varietà (ma anche la qualità) della partecipazione, abbiamo dovuto organizzare varie sezioni fuori concorso: come sempre nutrita quella dedicata a fatti e persone del cinema, della musica e del teatro (“A partire dallo spettacolo”), ma lavori molto interessanti sono presenti anche nelle sezione del cinema d'animazione (“Stati d'animazione”), in quella delle produzioni “assistite” da scuole e laboratori (“Senza cattedra”), oltre che in quella dei documentari particolarmente attenti all'attualità (“Storie di immigrati”, Attualità”). Il programma segue nelle sue grandi linee l'impostazione messa a punto lo scorso anno, cercando di mantenere i livelli della precedente edizione, nonostante la diminuzione delle risorse. Non ci sono novità nell'evento che forse più appassiona il pubblico: il concorso per un video a tema di 150" (quest'anno è Sospetto l'argomento da trattare). Lo stesso si può dire del Premio Casa Rossa, il riconoscimento che il Bellaria Film Festival riserva ai film italiani della scorsa stagione, attraverso un referendum tra i critici delle maggiori testate. Come già lo scorso anno, Anteprima ripropone la proiezione di tutti i film selezionati per il Casa Rossa, dal momento che essi spesso appartengono a quella categoria di film invisibili (ahinoi in preoccupante aumento), scarsamente visti dagli stessi addetti ai lavori. Gli scrittori e i loro rapporti con il cinema sono il filo conduttore dell'edizione di quest'anno. Alessandro Baricco, uno scrittore con significati legami con il cinema, fa parte della giuria (gli altri componenti sono Pierre Todeschini, Wilma Labate, Carla Cattani, rt ) Edoardo Sanguineti, uno dei padri fondatori del Gruppo 63, è il coautore della sceneggiatura del film cui è dedicata la festa di compleanno: Non ho tempo (1973) di Ansano Giannarelli. Per quanto prodotto dalla Rai come sceneggiato, Giannarelli dovette attendere il successo di Cannes prima che l'Ente pubblico prendesse la decisione di programmare il suo lavoro (quest'anno non è capitato qualcosa di simile anche a La meglio gioventù di Giordana?). Il film di Giannarelli affrontava un tema difficile, i rapporti tra scienza e società attraverso la biografia del matematico francese Evariste Galois (1811-1832). E lo faceva attraverso una ricerca sul linguaggio filmico che, nonostante quanto si andava predicando allora, restò all'epoca piuttosto isolata. Un motivo di più per ritornare su questa significativa esperienza che non ha molti uguali nella storia del nostro cinema. Il compleanno sarà anche l'occasione per una tavola rotonda sui rapporti tra cinema e scienza, alla quale parteciperà, oltre a Giannarelli e ad insegnanti impegnati nel piano nazionale per il cinema nella scuola, il matematico Michele Emmer. A Gianni Celati, è dedicato l'evento speciale, “Il cinema delle pianure”, con la presentazione di tre film-documentari realizzati dallo scrittore tra il 91 e il 2003 (Strada provinciale delle anime, Il mondo di Luigi Ghirri, Case sparse): un'altra occasione per riflettere sul problematico rapporto tra letteratura e cinema. Infine a un filosofo con forti interessi in campo estetico, Jean- Frangois Lyotard (1934-1998), è dedicata la retrospettiva che solitamente riserviamo al cinema di ricerca: a trent'anni dalla sua uscita, pubblichiamo in catalogo la traduzione italiana del suo saggio L'acinéma (1973), un testo che è nato nel clima della sperimentazione del dopo ‘68 e che, attraverso un fitto intreccio tra riflessione teorica e pratica sperimentale, è diventato un punto di riferimento essenziale dell'avanguardia francese degli anni settanta (alla quale era dedicata la retrospettiva Paris Films Coop dello scorso anno).

Mercoledì 2 aprile al cinema Anteo di Milano la cerimonia di addio al docente e critico di cinema Alberto Farassino, amico assiduo di “Anteprima”, fu aperta da queste parole di Morando Morandini. Le pubblichiamo per ricordare l'amico scomparso.

Da qualche anno mi capita di usare un'espressione: “il malinconico privilegio dell'età”. Non posso invocarlo per giustificare la mia presenza qui, oggi. Non lo è e, se lo fosse, ne farei volentieri a meno. Sono spinto da un dovere, da una necessità, da un dolore. S'usa dire che la perdita di un'amico c'impoverisce. Spesso è soltanto una frase retorica, presto rimossa e scancellata dalla terribile e banale, ma irrefutabile constatazione che la vita continua. Pochi di voi, però, hanno l'età per capire bene che la morte di una persona cara può essere sentita come un'ingiustizia alla quale ci si ribella. È il dolore dell'ingiustizia che provai quando morì Enzo Ungari che non aveva ancora 40 anni oppure Gianni Buttafava quando ne aveva poco più di 50. Con una differenza, però. In questi casi la notizia mi colpì come una fiondata che veniva da lontano, di sorpresa. Per Alberto è qualcosa di annunciato da mesi. Lo sapevo io, lo sapevamo in tanti, lo sapeva pure lui. Quando l'incontravo, sino a poche settimane fa, alle prime di qualche film e lo salutavo come se nulla gli fosse successo, soltanto il pudore e il disagio m‘impedivano di andare ad abbracciarlo. Ogni volta, mi pentivo della mia mancanza di coraggio. Da anni, quando penso alla morte, mi tornano in mente i versi di Cardarelli: «Morte, non mi ghermire / ma da lontano annunciati / e da amica mi prendi / come l'estrema delle mie abitudini.» Ma nel caso di Alberto sarebbe un sogno impossibile e, forse, un augurio insopportabile. Non sono qui per fare l'elogio di Alberto Farassino. Altri lo faranno meglio di me che non lo conoscevo abbastanza a fondo. So, però, che le grandi civiltà sono quelle che riconciliano la vita con la morte. Perciò sono qui per dire il mio, il nostro affetto a Fulvia e a Viola. A loro siamo vicini oggi, e lo saremo in un domani quando potremo a lungo parlare con loro di Alberto, e ascoltarle parlare di lui. Come capita a tutti, Alberto sarà veramente morto soltanto quando sarà scomparsa l'ultima persona che lo conosceva, che lo stimava, che gli voleva bene.

Concorso Anteprima[modifica | modifica sorgente]

Concorso 150” a tema fisso: ‘’Sospetto”[modifica | modifica sorgente]

  • @#5% di Enrico Caroti Ghelli
  • Alter ego di Daniele Gangemi
  • Apice di Alba Lo Curzio
  • L'attesa di Monsieur Rangotte di Gianluca Macaluso
  • Camera car di Frank Monopoli
  • Camping di Arianna Tondo, Marco Bozzi, Davide Manti
  • Il cieco di Gabriele Zambelli
  • Comunque di Carlo Gazzotti
  • Deconstructing suspicion di Riccardo Terziani, Massimiliano Bertozzi
  • Destr-sinistr di Angelo Paparcuri
  • Esportiamo democrazia di Walter Tamburi
  • Le fantastiche avventure di Silvioman di Maurizio Failla
  • Festa sospetta di Graziano Misuraca
  • La finestra sul giardino di Armando e Claudio Alberti
  • Girotondi di Marcelo Peyrou
  • Guinzagli di Luigi De Filippo
  • Hamnet di Antonio Centomani
  • Hotel di Gabriele Zambelli
  • 1.5.0. di Consuelo Giorgi
  • Ibrid di Andrea Croci
  • Kuliscioff di Paolo Cognetti
  • The last blast di Luca Raul Mariani
  • Lavoro di Giuseppina Credi
  • Un letto di patate di Lorenzo Piccolo e Marta Arosio
  • Logica conseguenza di Luca Rivelli
  • Media Pax di Federico Tinelli
  • Mr. S di Davide Livio, Paolo Romano, Roberto Mauri
  • Nessun S.0.S.petto di Valentina Primavera
  • Nessun Sospetto di Tiziano Morelli
  • L'ora buca di Vittorio Vezza, Gianni Gandini
  • Orme sulla sabbia di Luca Berardi
  • Oscuro sospetto di Sergio Porro
  • Otto marzo di Carlo Gazzotti
  • Passaggio obbligato di Paolo Del Fiol
  • Per l'ultima volta di Ciro De Caro
  • Postumo di Giancarlo Guidi e Adriano Mercurio
  • Poveracci - IV episodio di Gabriele Zambelli
  • Prima serata di Giovanni Bufalini
  • Prospettive di Mauro Crociati e Massimo Magnani
  • La realtà, la finzione di Andrea Righi
  • Ri-ciclo sospetto, perché... di Lauro Crociani
  • 5.0.S.petto di Mimmo Avellis e Roberto Romeo
  • Sarà che siamo morti, compare mio? di Adriana Del Duca
  • La sartoria di Graziano Misuraca
  • Senza scacco di Walter Uliano Pistelli
  • Shot! di Antonio Macaluso
  • La soluzione Kennan di Alessandro Spada
  • SOS di Giovanni De Giorgi
  • Sospetta o spera? di Silvia Fabarro
  • Sospetto - Libero delirio visivo di Enrico Omodeo Salé
  • Sospetto di Roberto Vagnetti
  • Sospetto di Enzo Castiglione, Toni Giacalone
  • Il sospetto di Alessio Della Valle
  • Il sospetto di Lorenzo Zitoli
  • Il sospetto di Tommaso Liberti
  • Il sospetto di Gabriele Turci
  • Il sospetto (da una storia vera) di Matteo Pizzarello
  • Sospetto... di Giovanni Franci
  • Strada chiusa di Rudy Concer, Massimo Sarzi e Katia Bernardi
  • Suspect di Cesare Maccioni (Maraboshi)
  • Suspect di Daniele Pezzi e Paolo Pennuti
  • Suspicius di Alicia Baladan
  • Terrorissima di Carlo Gazzotti
  • Il trasporto di Valentina Di Liddo
  • Tutto ha “un” sapore di Chiara Pellegrini
  • TV killove di Danilo Monte e Cristiano Zuccotti
  • Uomo che parla di Gabriele Agresta
  • Vie di fuga di Andrea Cairoli
  • Vita fandango di Ugo Antonelli
  • Il v.3.S. di Vittorio Principe, Silvio Peroni, Juan Francisco Correa Diaz
  • William di Michela Cortina
  • Zanzare di Andrea Minoglio

Premio Casa Rossa[modifica | modifica sorgente]

Festa di compleanno: Non ho tempo di Ansano Giannarelli[modifica | modifica sorgente]

Non ho tempo di Ansano Giannarelli

Ansano Giannarelli su Non ho tempo a cura di Antonio Medici[modifica | modifica sorgente]

Dopo Sierra maestra, la televisione mi chiama e mi chiede dei progetti. Li preparo e, per una singolare combinazione, glieli porto il 12 dicembre del ’69. Uno di questi progetti era la ricostruzione dell'uccisione di Umberto II da parte di Gaetano Bresci e quando lo leggono, quel giorno della strage di Piazza Fontana, della pista anarchica etc. mi dicono: “Per favore, questo facciamo finta di non averlo neppure visto”. Un altro progetto, invece, quello appunto di Non ho tempo, è dedicato alla figura di un giovane geniale matematico francese, Evariste Galois, contestatore ante litteram, esponente ottocentesco del ‘68. Un personaggio molto romantico, a cui già Astruc, in Francia, aveva dedicato un film molto calligrafico. In effetti, la sua storia è assolutamente romantica: fa un duello per una questione amorosa e muore a soli ventuno anni. La notte prima di questo duello, scrive affannosamente tutto quello che ha in testa di matematica, perché probabilmente prevede di morire, il duello è di per sé quasi un suicidio. Quello che scrive è un testamento matematico di tale densità che i matematici del Novecento continuano a dire che su queste notazioni molto sintetiche, scritte senza dimostrazioni, c'è ancora da lavorare per decenni. La televisione accetta il progetto e proprio in chiave romantica, chiedendomi un film di un ora e mezza, ed io subito non sono d'accordo. Insomma, mi viene richiesto di fare il film per un doppio sfruttamento, cinematografico e poi televisivo, con tutti i canoni della scrittura filmica tradizionale e io invece voglio fare una cosa diversa, che contemporaneamente racconti la storia e il modo in cui la storia viene raccontata. Comincio così a lavorare a un progetto per un film di tre ore, perché la televisione mi dà la possibilità di un superamento della dimensione temporale prefissata per il tradizionale lungometraggio. La televisione non è d'accordo, e qui è evidente l'importanza di avere alle spalle una struttura produttiva come la Reiac, che attraverso un rapporto di coproduzione con la Tv, mi consente un margine di autonomia nella gestione dell'operazione, tanto che io giro per montare tre ore, o meglio due versioni, una strutturalmente adatta alla comunicazione televisiva, di tre ore, e l'altra con una struttura più tradizionalmente cinematografica. Ho la possibilità di lavorare con due collaboratori straordinari, sia dal punto di vista progettuale sia come sostegno politico e culturale. Il consulente scientifico e in parte interprete del film è Lucio Lombardo Radice, matematico, uomo politico, personaggi che aveva un'autorità culturale e scientifica tale per dire seriamente, durante una cena con il responsabile della televisione che ci annunciava il progetto di fare uno sceneggiato dall'Eneide che non c'era confronto tra l'autorità di Virgilio e quella di Galois, il cui grande genio aveva trasformato la storia del pensiero umano. L'altro straordinario collaboratore è Edoardo Sanguineti, col quale ci troviamo subito d'accordo in una sperimentazione sulla struttura linguistica del film, i cui dialoghi sono tutte citazioni da testi e dalla diaristica della letteratura francese. Prevediamo anche di fare alcune interviste a personaggi francesi sul significato che in quegli anni ha un personaggio come Galois. Progettiamo addirittura un esame psicoanalitico di Galois, che andai a chiedere a Lacan, ma che poi non si fece. Siamo nel ‘72, è ancora molto vicino il Maggio e in Francia c'è una repressione molto più forte di quella che non avvenga in Italia nello stesso periodo. E linguisticamente che il progetto mi appassiona: cioè, mentre si racconta allo spettatore una storia, gli si fa vedere nello stesso tempo come la storia si sviluppa, come è stata costruita e così via. Per prima cosa, termino il montaggio della versione lunga, di tre ore, e quando il responsabile del progetto la vede, c'è una contestazione molto dura sul piano contrattuale e di merito e si arriva all'accordo che le tre ore possono passare se siamo in grado di presentare il film al Premio Italia, in modo da avallare sotto il profilo interno, televisivo, questa operazione, con l'impegno inoltre di fare anche il film di un'ora e mezza per le sale cinematografiche, cosa che poi viene fatta. La versione cinematografica di Non ho tempo fu invitata a Cannes alla Settimana della critica. Ma la trasmissione televisiva non era assolutamente il film romantico che ci si aspettava, anzi incideva sui meccanismi di comunicazione linguistica, era una critica violenta al genere romanzo sceneggiato, che veniva smontato, con dentro delle forzature di attualizzazione politica. Si passava dal 1830 al 1972, Galois diventa il Valpreda della situazione, incarcerato per la strage di Piazza Fontana. Morale: la versione televisiva è terminata nel ‘73, ma viene bloccata. E ci vorrà la legge di riforma della Rai e il coraggio di un dirigente come Massimo Fichera, perché nel ‘77 il film possa andare in onda in tre puntate, in prima serata sulla seconda rete, con un riscontro degli indici di ascolti di circa cinque milioni di spettatori. Il che mi conferma che era un'operazione giusta quella che avevo fatto: per arrivare a un pubblico largo, quella era la strada.

Una tessera per il genio[modifica | modifica sorgente]

di Alberto Moravia[1]

La vita di Evariste Galois fu breve ma di straordinaria intensità creativa; la sua fine, tragica e misteriosa. Galois è, dunque, il tipo del genio romantico come è spesso raffigurato da Balzac nella Comédie Humaine. Ma Galois, oltre che un personaggio da romanzo balzacchiano, fu anche un autentico genio della matematica, la cui opera ha tutt'oggi un valore fondamentale. Da una parte, dunque il Galois romanzesco eccelle in una scienza inaccessibile, si getta con ardore nella lotta rivoluzionaria, muore in un misterioso duello per amore (ma forse il duello fu provocato dai suoi avversari politici). Dall'altra il Galois storico, ha la serietà creativa di un Einstein ventenne. Ciò che conferisce alla figura di Galois una straziante tragicità, è che egli fu consapevole di essere un genio e ciononostante di doversi sottomettere ad un destino sociale livellatore ed egualitario e, appunto per questo, ingiusto. In margine alle pagine del suo testamento scientifico, sedici pagine buttate giù febbrilmente la notte prima della morte, Galois scrive più volte: “Non ho tempo”. E dice al fratello: “Ho bisogno di tutto il mio coraggio per morire a vent'anni”. Perché insistiamo tanto sul fatto che Galois era un genio? Perché in questo film di Ansano Giannarelli su Galois Non ho tempo, serpeggiano due polemiche parallele: l'una contro il “sistema”, repressivo e persecutorio ieri come oggi; l’altra a favore dell'impegno politico degli intellettuali e contro il disimpegno. Ora, mentre la prima polemica ha buon gioco nel mostrare che le polizie e le magistrature sono sempre pronte, ieri come oggi, a mettere in prigione il Valpreda di turno, sull'altra polemica c'è da osservare che l'aver scelto Galois come esempio di intellettuale impegnato è per lo meno fuorviante. Infatti Evariste Galois non è un intellettuale tra i tanti, che è difficile immaginare capace di esistere fuori dell'impegno; è invece quel tipo umano rarissimo che, anche senza l'impegno politico, è “di per sé”, a causa della propria genialità, rivoluzionario e impegnato. Così, si potrebbe dire che, senza volerlo, il film di Giannarelli sottolinea l'ingiustizia che l'egualitarismo politico opera ai danni delle preziose quanto misteriose ineguaglianze naturali. Il suo film non illustra tanto il dramma dell'intellettuale che vuole impegnarsi, quanto la tragedia del genio che sa di essere genio e ciononostante non può comportarsi che come un intellettuale. La tragedia di Garcia Lorca, di Lautréamont, di Babel, di Mandelstam, di Pushkin. Come in Sierra Maestra, suo primo film, Ansano Giannarelli non ha voluto fare un film narrativo più o meno tradizionale sulla vita e la morte di Evariste Galois; ma ha composto un ritratto del matematico francese sullo sfondo sociale e politico della Francia del 1830. Questa specie di ritratto in piedi oratorio-agiografico è dipinto con il metodo brechtiano dell'estraniamento ottenuto a sua volta attraverso la dissociazione delle strutture narrative e l'abolizione della durata. In Non ho tempo il montaggio, così importante nel cinema, non è dissimulato per creare illusione e identificazione bensì mostrato e additato; i significati diventano personaggi cioè significanti; i ruoli vengono sdoppiati e capovolti. E' un modo di fare cinema di chiara origine teatrale; infatti, mentre il cinema, come il romanzo, è per sua natura narrativo, il teatro non lo è: estraniamento brechtiano e crudeltà artaudiana sono in certo modo impliciti nel teatro, i moderni non hanno fatto che riscoprirli. Nel cinema questo metodo risolve enormi difficoltà narrative con grande, forse eccessiva facilità. AL punto che si potrebbe persino affermare che un film come Non ho tempo ha un massimo di probabilità di essere, come infatti è, un’opera riuscita. Ma il vero merito di questo notevole film è in realtà il sentimento di simpatia espressiva che il regista e Edoardo Sanguineti che ha collaborato alla sceneggiatura, mostrano di provare per il loro protagonista. Mario Garriba ha disegnato egregiamente una figura di precoce e sfortunato genio romantico al tempo stesso infantile e consapevole. Gli altri interpreti, scelti e diretti con acume dal regista, non sono da meno e compongono un quadro convincente dell'ambiente rivoluzionario dell'epoca.

Scienza e politica di Evaristo Galois[modifica | modifica sorgente]

di Mino Argentieri[2]

Se la memoria non ci inganna, Non ho tempo di Ansano Giannarelli è il primo film della storia del cinema imperniato sulla figura di un matematico: Evariste Galois. La biografia di Galois, a leggerla con la leggerezza d'animo di una lettrice in smanie di sogni a occhi aperti, sembra tagliata apposta per sconfinare in un film hollywoodiano degli anni trenta. Giovane e geniale, di temperamento generoso e vivace, nella Francia fra il 1824 e il 1832, Galois, refrattario alla disciplina scolastica, incompreso dalle autorità accademiche, si infiamma per gli ideali rivoluzionari del tempo, finisce in galera, si innamora di una donna ad altri legata e a causa sua è costretto a battersi in un duello alla pistola. Poche ore lo separano dal cimento fatale, tredici per l'esattezza, e in questo breve scorcio egli raduna alcuni appunti, vi lavora febbrilmente, li completa e destina ai posteri considerazioni matematiche straordinariamente innovatrici. Il presagio della morte lo invade e all’età di un fiore una pallottola lo stronca. Friedrich March sarebbe stato un Galois affascinante e seducente all'epoca in cui Hollywood assaliva i cuori semplici e chiedeva prestiti alle infinite versioni melodrammatiche dei drammi spulciabili dalla realtà. Mutati i gusti nel corso del trentennio successivo, dimessi i panni più convenzionali e chiuso il rubinetto delle sdolcinature patetiche, il romanticismo non si è estinto e niente meno del romanticismo è la chiave adatta a comprendere e a inquadrare il personaggio di Galois. Reduce dalla sua opera prima - l'interessante Sierra Maestra - questo piccolo particolare Ansano Giannarelli lo ha capito bene, in virtù di una formazione culturale moderna e scientifica. Il suo Galois esula dalla tradizione romanzesca e dall'aneddotica che parla ai sentimenti delle platee, e non ha neanche di che spartire con l'odierna e anarchicheggiante infatuazione per il ribellismo degli eroi. [La vicenda della morte] di Galois è privata di ogni possibile mistificazione sentimentale: Giannarelli, nel solco dei più accreditati studi storici, l’attribuisce a mene provocatorie. Non per aver offeso una signora indegna e mediocre, lo studentematematico Galois muore, ma per essere caduto in un tranello tesogli da avversari. La sua fine, non dissimile da quella di Puskin, è un delitto politico. Il Galois di Non ho tempo vive su più piani che cinematograficamente si incrociano in un esperimento che fonde lezioni diverse: teatrali e televisive. Alcuni trasparenti si animano, alle spalle degli attori che recitano dinanzi alla macchina da presa, e le immagini si sovrappongono a titolo diverso. A volte le pareti di una scena, trasformatesi in schemi, ospitano documenti, illustrazioni, reperti a mo’ di nota in fondo alla pagina; altre volte ci trasferiscono ai nostri giorni, nella Francia dei moti studenteschi, a un di presso dagli edifici in cui la giustizia di classe si accanisce contro chiunque non accetta i suoi presupposti; altre volte ripercorriamo i luoghi che conobbero i passi di Galois. Giannarelli scarta uno stile di marca realistica, stilizza la composizione, si rifà al teatro epico brechtiano, getta un ponte fra passato e presente che, seppure meccanico nei parallelismi evocati, svincola il film dalle strettoie delle ricostruzioni puntigliose e pedanti. Il regista vuole arrivare al nerbo del tema che lo appassiona e sbalza di Galois il profilo a noi più caro e vicino. La matematica, con le sue grandi capacità di astrazione, avrebbe potuto essere per Galois un modo di sfuggire all'incontro con l'impegno politico, una maniera di estraniarsi dai fermenti rivoluzionari. Avviene il contrario. Eccezionalmente dotato nel campo specifico, il Galois di Giannarelli non è tanto il simbolo di una reazione all’autoritarismo e al conservatorismo imperanti nella scuola e nella società, quanto l'emblema di una partecipazione politica senza la quale la scienza matematica, e la scienza più in generale, sarebbero condannate. [...] Da questo angolo il ritratto di Giannarelli irradia spunti di meditazione riferibili a oggi ed è per questo che sentiamo un po’ pleonastiche certe analogie con la contemporaneità sottolineate dall'autore. Di fronte alla chiarezza dell'assunto e dell’ordito non vera bisogno di rimandi espliciti e circoscritti, che appesantiscono il film e rischiano di agevolare raffronti storiografici di taglio giornalistico e troppo condizionati dalle contingenze. Non identica chiarezza, almeno per chi non sia uno studioso di problemi matematici, impronta nell'arco del film la correlazione fra il personale apporto di Galois in una disciplina fra le più ardue e affascinanti, e il dispiegarsi di un pensiero volto a far fronte alle contraddizioni sociali con una metodologia scientifica. Se l'impressione avuta fosse giusta - ci si autorizzi il beneficio del dubbio - Non ho tempo avrebbe mancato in parte il suo obiettivo più tentante e perderebbe in compiutezza, pur non indebolendo affatto lo spessore dell'altra faccia problematica. Al di là, tuttavia, della nostra perplessità, Giannarelli ha realizzato un film singolare, in cui la modestia dei mezzi disponibili si traduce in una invenzione linguistica al servizio di un fine educativo che cineasti famosi, come Rossellini, perseguono spesso non solo con approssimazione culturale ma anche con deplorevole pigrizia espressiva. E ovvio che l'insolito esito è dovuto, oltre al talento del regista e alla sua vocazione per un cinema antispettacolare, alle condizioni di libertà in cui il film è nato. Ma non ci si illuda în merito, poiché l'indipendenza acquisita si scontra con la semiclandestinità di un’opera che pochi vedranno (i maggiori circuiti di sale cinematografiche gli hanno chiuso i battenti) e che la TV, sua committente, paventa di diffondere per motivi in cui si mescolano preoccupazioni paternalistiche (il pubblico, si afferma, non afferrerebbe il contenuto di Non ho tempo e sarebbe sconcertato dall'andatura frastagliata del film) e timori di indole politica.

Genio e politica[modifica | modifica sorgente]

di Morando Morandini[3]

Su un vecchio dizionario enciclopedico della UTET, alla voce GALOIS Evaristo (1811-1832), matematico, leggo: “Di ingegno vivissimo, scoperse da studente importantissime proprietà della teoria delle equazioni; ma trascurò gli studi per le lotte politiche, alle quali si diede senza riserva dopo la rivoluzione del luglio 1830. Processato e condannato più volte al carcere, morì in seguito a ferite riportate in duello”. Non ho tempo, opera seconda di Ansano Giannarelli, rievoca a ritroso e a incastri la breve vita di Galois, la sua partecipazione coraggiosa e appassionata alla lotta per una società diversa e una nuova scienza negli anni di trapasso dal regno reazionario di Carlo X Borbone alla rivoluzione del luglio 1830 quando il partito della borghesia conquista il potere e fa proclamare re dei francesi Luigi Filippo d'Orléans. Di origine borghese, Galois è repubblicano di sinistra, seguace delle idee rivoluzionarie di Buonarroti e Blanqui, e paga di persona come studioso e come militante politico. Nella notte precedente al duello insensato, scrisse sedici pagine a modo di testamento scientifico, riassumendo i suoi studi di matematico, oggi considerato come un geniale precursore dell'algebra astratta, e a margine di quelle pagine annotò queste parole: “Non ho tempo”. Scritto da Giannarelli con la collaborazione di Edoardo Sanguineti e la consulenza scientifica di Lucio Lombardo Radice che interviene anche come attore, nella parte di un matematico, Non ho tempo è un film di alta tenuta culturale e di complessa (talvolta intricata) struttura espressiva che si rivolge specialmente a un pubblico di intellettuali di sinistra. Attento alla lezione teatrale di Brecht (ma anche di Artaud e Weiss) e a quella cinematografica di Godard, Giannarelli punta su una narrazione che non coinvolga emotivamente lo spettatore: la recitazione è di tipo didascalico e “straniato”, e più di una volta gli attori si trasformano sotto i nostri occhi in personaggi, indossando sugli abiti moderni i costumi di scena; con un procedimento di tipo televisivo vediamo Galois - meglio: l'attore Mario Garriba - seduto al suo scrittoio mentre, dietro di lui, scorrono su uno schermo le immagini della sua vita; le sequenze girate con la macchina in mano (i moti popolari del luglio) si alternano con quelle di impianto teatrale nella cornice di scenografie espressionisticamente deformate (il tribunale, la recita in carcere) o con momenti di cinema didattico e quasi astratto (il brano sulle ricerche matematiche). Anche se talvolta, per eccesso di puntiglio cerebrale, Giannarelli rende più astruso del necessario il racconto e se, nella parte finale, s'affida troppo a declamazioni e parole d'ordine con sforzati agganci alla realtà d'oggi, Mon ho tempo è un film stimolante e insolito, un interessante tentativo di affrontare nuovi temi con un linguaggio nuovo o, comunque, diverso dai modi del cinema tradizionale.

Matematico rivoluzionario[modifica | modifica sorgente]

di Natalia Ginzburg[4]

Evariste Galois nacque a Bourg-Le Reine nel 1811 , morì giovanissimo a Parigi, nel 1832. Gli ultimi anni di Napoleone; la restaurazione borbonica; la definitiva conquista del potere da parte della borghesia, nel 1830; questi gli eventi storici che si svolsero nel corso della sua breve esistenza. Suo padre era sindaco di Bourg- Le Reine; una lapide lo commemora. Evariste Galois fu un matematico e un rivoluzionario, rivoluzionario perché matematico, disse di se stesso, e matematico perché rivoluzionario. Egli fu un incompreso. Trascorse lunghi anni in collegio, e la vita era dura in collegio, le aule gelate, frotte di topi sulle scalinate, due candele per ogni gruppo di allievi sul banco, stanze di segregazione per ogni minimo atto di indisciplina. Evariste era considerato un ribelle, e scarsamente dotato per gli studi. Comprese la sua grandezza uno solo fra gli insegnanti, il professor Richard; avendo Evariste ripetuto un anno, al liceo, e annoiandosi a morte, si diede a studiare la matematica, ed ebbe alcune straordinarie intuizioni. Esse stanno a fondamento dello studio della matematica oggi. Aveva diciassette anni quando suo padre si uccise, con una stufa a carbone. Per due volte, egli si presentò agli esami per entrare al Politecnico e per due volte fu respinto; le sue intuizioni erano di natura troppo sottile e complessa perché gli esaminatori potessero intenderle; entrò allora in una scuola preparatoria per insegnanti. Il 27 luglio 1830, re Carlo decimo chiude le Camere, e abolisce la libertà di stampa; scoppia la rivoluzione; il 29 luglio, i rivoluzionari hanno vinto. Evariste aveva chiesto al direttore della scuola che agli studenti fosse consentito di uscire a combattere nelle strade; il direttore aveva dato la sua parola d'onore che il giorno dopo avrebbe aperto le porte della scuola: una parola d'onore alla quale Evariste aveva dimostrato un disprezzo aperto e palese. Questo vediamo nella prima puntata di Non ho tempo, storia della vita di Evariste Galois; la sceneggiatura è di Ansano Giannarelli e Edoardo Sanguineti; la regia è di Giannarelli; recita nella parte di Evariste, Mario Garriba. Di Ansano Giannarelli ho visto l'anno scorso un telefilm, Immagini vive; non ho visto invece Sierra Maestra, né altro di lui. Immagini vive era la storia d'una donna in un paese, e ne ho un ricordo felice: mi sembrava vi fosse qualcosa, nella struttura del racconto, che ne inaridiva e disordinava le linee: e tuttavia era un bel racconto, condotto con grande nobiltà. Una sensazione simile ho avuto vedendo la prima puntata di Non ho tempo; non mi sembra di poterne ancora dare un giudizio, è opportuno veder tutto; ma la vita d'una persona, sarebbe a idea mia molto bello se venisse raccontata senza mescolare le epoche: è invece ora di moda far intervenire di continuo biciclette e maglioni fra costumi ottocenteschi; qui, l'epoca nostra e l'epoca in cui visse Galois sono continuamente rotte e mescolate. È chiaro che la storia di Evariste Galois suona estremamente vicina alla vita dei giovani ai giorni nostri, e alla contestazione degli studenti; è chiaro, e per esprimerlo non servono i maglioni; e invece di Lucio Lombardo Radice, avrei preso a recitare la parte del professor Richard un qualsiasi attore: anche se vedere la faccia di Lombardo Radice fa sempre un gran piacere. Per guardare la storia di Galois nella luce nostra, non mi sembra fosse necessario mescolare le epoche continuamente. E tuttavia di nuovo, come in Immagini vive, mi sembra che il modo come Giannarelli affronta le esistenze umane sia un modo intelligente, coraggioso e nobile; e in mezzo ai mescolamenti delle due epoche, la figura di Evariste Galois e il mondo intorno a lui appaiono ben vivi; e il volto dell'attore e la sua voce sono stati scelti degnamente.

L'acinéma: a partire da Lyotard[modifica | modifica sorgente]

Sull'ideale del dolce. Note per un film[modifica | modifica sorgente]

di Gianfranco Baruchello

Raccontano che nei campi di concentramento c'era chi si dedicava a recitare lunghi menus di pranzi. Non so se questo alleviasse la fame. Dedicare all'argomento dolce/dolcezza non aveva, all'inizio, un significato molto diverso. E' certo infatti che la scelta di questo film (o di questo libro, come pensavamo all'inizio), è stata influenzata dalla constatazione, personale, di assenza di dolce/dolcezza dalla propria vita e dal mondo circostante. Parlarne può essere stata, almeno all'inizio, un'attività non lontana dall'esorcismo. Parlarne allevia dunque la carenza? Per rispondere occorrerà allora arrivare alla fine del discorso; ma la fine è lontana. E ci vorranno altri mesi altri, al momento ancora non previsti modi di esorcismo, altre scoperte. Da quel non chiaro umore iniziale, quella fame, quella assenza e dopo molti anni di attenzione al cibo (vedi tutti i miei film su questo tema, nella filmografia, 1), e al rapporto sacro di questo con lo “spirito”, nasce dunque l'idea che il dolce sia il segno stenografico primordiale di ogni sapore derivante dall'atto di mangiare. Latte materno, succo zuccherino del frutto, miele delle api, manna mandata al popolo di dio nel deserto eccetera. Un itinerario che si complica, devia, si arricchisce, dirama attraverso 150 pagine di un oggetto simile a un libro fatto di note, prospetti, disegni, foto e fotocopie, ritagli non diversi nell'aspetto da altre precedenti operazioni para-letterarie, extra media da me fatta( per esempio il libro L'altra casa edito da Galilée con prefazione di Lyotard, quest'anno). Il libro (ma si tratta soltanto di fogli di carta sommariamente rilegati), si presta ad essere messo nelle mani di terzi cui chiedere cosa ne pensano sia del libro che, più generalmente, dell'argomento che sembra trattare. I terzi che sono poi un insieme molto difforme di filosofi, scrittori, poeti, pittori, operai, preti, bambini e forse anche (riuscendone a trovare qualcuno disposto a parlarci), uomini politici, militari, poliziotti, direttori di carcere e manicomio... Si va da uno di questi e se ne parla; con in mano una telecamera bianco e nero o un normale registratore vecchio modello da mezzo pollice (il b/n consente di girare più facilmente con poca luce e poca spesa, diversamente dal colore). Si va in due, carichi fili e doppie spine, Alberto gira, silenzioso, io parlo reggendo il microfono. Si fa presto o meglio tardi a parlare e così i nastri corrono. Si era detto di fermarsi a 40/50 ore: una specie di antologia sonoro visiva su dolce/dolcezza. Un mese a Parigi e siamo già a 12 ore di nastri con Lyotard, Klossowski, Lascault, D. Cooper, Guattari, N. Chatelet e un'altra dozzina di persone, pasticcere del Pain de Sucre all'operaio tunisino immigrato, . l'animatore per l'infanzia del Baubourg, al pittore che lavora l’effimero con la pasta sablé o la meringa. Che succede poi. Si sbobinano le dodici ore, si trascrivono nastrini, ci si pensa, si fanno foto, si riproietta tutto e si scopre che questo primo pezzo di un supposto lunghissimo metraggio (sarà ancora più lungo forse 80 ore...), ci ha cominciato a mostrare linee di forza e associazioni che né gli intervistati né gli intervistatori, sospettavamo. I sogni riferiti al dolce parlano più di morte che della madre; quel “sapore” che volevamo dee, mentare con lo zucchero in mente è in realtà il non-sapore (il doux che non ha niente a che fare col sucré), magari il dolce non sapore della carne se non - col racconto allucinante di Cooper il dolciastro del liquame cadaverico. Vengono a galla associazioni che vanno indietro verso altri sogni e memorie di morte: barattoli di marmellata che sono poi lo zio morto nascosto sull’armadio, il volto, come le confetture, coperto di giornali per proteggerlo dalle mosche. La linea zuccherina della favola di Hansel e Gretel dalle molliche di pane vanno alla pasta di mandorla / marza PANE della casetta stregata, subisce una sferzata nel cannibalismo della sorcière che vuole mangiarli o li mangerà, in “Carne e Ossa". Il Cristo, agnello di dio è carne nel sacrificio ma diventa pane e vino (“zuccherini”, destinati, cioè agli o provenienti dagli zuccherî) quanto lo si deve desiderare o mangiare. Il desiderio ( e questo era l'occulto sottotema del libro e del film). Il desiderio di mangiare prende dunque le forme di un tipo di DOLCE (farina e zucchero) che muta in un altro DOLCE (carne, sangue?) quando dal desiderio di mangiare si passa alla paura (o alla realtà) é essere mangiato e alla morte. Così il nostro itinerario (si era pensato al gag delle torte in faccia, a scene con candeline e compleanni), finisce in territori funebri tali quali gli stessi gag suggerivano (al dolce con candeline seguiva nel finale una bara dalla quale il morto sorgeva spegnendo le candele “happydeathtday to you...”). Perché, come? E quello che ci diranno le prossime 60/70 ore. Per ora siamo qui a pensare ai punti di incrocio, ai sotterranei legami tra segni e codici solo in apparenza così discosti l'uno dall'altro. La carne, la morte, la distruzione era nata sotto questo desiderio di dolce/dolcezza quasi che essendo l'assenza di dolcezza il portato di un sistema che uccide, l'andarla a cercare suggerisse soluzioni e vie di morte (o vie che sì aggirare intorno al significato, al senso della morte), come risposta appunto a quel sistema deprivante. Il nostro diario di lavorazione è a questo punto.

A partire dal dolce. Conversazione con Jean-Frangois Lyotard[modifica | modifica sorgente]

(Brano di conversazione tra Jean Francois Lyotard (JFL) e Gianfranco Baruchello (GFB) trascritto dai videonastri “Sull'idea del dolce”, lavoro in videotape di Baruchello e Grifi)

JFL: Ma allora dì un po’, quello che tu chiami dolce è lo zuccherino?

GFB: Beh, forse. Come idea iniziale sì.

JFL: Perché per me il dolce non è quello.

GFB: E’ una cosa molto italiana.

JFL: Da quando me ne hai parlato ci ho pensato un po’ facendo delle associazioni casuali. E mi sono accorto che per me il dolce è più che altro qualcosa come lo zero dei sapori, e comunque una cosa che mi dà qualche problema. Voglio dire...Per esempio la crema, la crema francese, diversa da quella italiana o da quella americana, per me questa crema è dolce.

GFB: La panna.

JFL: No, la panna non ha proprio lo stesso sapore. La crema francese va più verso il burro, capisci, anche il burro va verso il dolce. “Les bourres fins” si chiamano burri dolci.

GFB: Assomiglia al sapore del latte, della madre.

JFL: Sì, ma non sono molto d'accordo con questa associazione che fai tu e non mi lascerò trascinare da quella parte! No, il fatto è che non è affatto zuccherina, è qualcosa molto difficile da metaforizzare, se la si vuole descrivere. Si dice è dolce come ... e si vanno a cercare dei colori, dei suoni ... così se si dovesse fare una metafora per la crema francese o il burro dolce non saprei come fare. Vedi, se facessi delle associazioni senza pensarci affatto, se dicessi quello che viene così, penserei al grigio. Nel senso în cui ne parla Klee, il grigio è il mezzo, il mezzo nel senso di neutro. Si potrebbe dire che tutti i sapori si annullino nel dolce, che tutti i sapori potrebbero neutralizzarsi nel dolce. Un sapore neutralizzato diventerebbe dolce. Stessa cosa per il grigio, non è veramente un colore, ma tutti i colori dal nero al bianco e il nero , e il bianco insieme. In questo senso il dolce diventa un problema non propriamente intellettuale ma fisico e metafisico, suscita allo stesso tempo una sorta di curiosità, perché penso che il dolce sia raro, rarissimo, come il grigio, e una sorta di diffidenza o repulsione, ma repulsione non è esatto, in ogni modo il dolce va verso qualcosa di nauseante, non so...ma credo che sia qualcosa che provo io, la crema mi nausea. Sai, per esempio, quelle parti del dolce che sono fatte di una crema, che può essere zuccherata o poco zuccherata e che sono veramente le parti dolci, ecco per quelle provo un po’ di repulsione, insomma una rapida saturazione. Il limite della saturazione è molto basso.

GFB: Questa è una reazione quasi fisica.

JFL: Sì, è fisica.

GFB: Quindi le parole, il sapore dolce è una cosa che ti è piuttosto indifferente.

JFL: No, non mi è indifferente, provo curiosità e desiderio, ma allo stesso tempo mi fa venire i brividi, e questa non è indifferenza! Per esempio, penso che gli umori vaginali siano dolci, per me quello è il dolce, non ci sono molte cose dolci... Chiaramente gli umori vaginali ti faranno andare avanti nella tua idea della madre ma...

GFB: Certo, infatti stavo per farti subito un’obiezione: se pensi che gli umori vaginali abbiano un sapore zuccherino perché non...

JFL: No, non zuccherino...

GFB: Va bene, dolce!

FTL: Tentavo di distinguere ...

[...]

GFB: Quindi, in modo classico, abbiamo fatto lo stesso errore di confondere lo zuccherato/zuccherino con il dolce e tu ora mi fai un'osservazione stimolantissima perché dissoci le due cose, dici che il dolce è diverso dal zuccherat/zuccherino e questo mi interessa molto.

JFL: Sì, mi chiedo solo una cosa, se per esempio non potessimo parlare anche della dolcezza di quello che nella cucina francese si chiama velouté. Ci sono modi di preparare i funghi che sono veluoté. Non so come si fanno, dentro ci deve essere della farina, prendi della farina cruda, in polvere e se l'assaggi direi che è dolce. Del resto è vero per gli umori femminili e per la farina come anche per altre cose, per la crema con un leggero accento di acidità, no, non esattamente acido, più che altro un accento di amarezza. l'amarezza è come un'ombra portata dal dolce. Il dolce si proietta in un retrogusto di amarezza... Non è il dolce-amaro che corrisponde a un’altra preparazione quella del sauer.

GFB: L'agrodolce.

JFL: Il pane azimo, per esempio, è un tipico pane dolce. In fondo per me si tratta di una specie di neutralizzazione dei sapori, cosa assurda perché il dolce è un sapore decisamente esistente... Nel mio delirio è più che altro una specie di inizio di tutti i sapori.

GFB: ...l'idea del dolce con una certa idea di “classe”, prima che tu dicessi che il dolce non esiste avevamo detto: le brioches quando non c'è il pane, sono un fatto di “classe”, cioè sono i ricchi che hanno i dolci, non gli altri, i poveri idioti, gli uomini, se fanno i buoni tutt'al più ricevono la manna dal cielo, che bisogna grattare con le dita tra la merda di capra, quindi il dolce è anche il cibo degli dei. Come puoi pensare che gli dei scelgano il grigio per nutrirsi?

JFL: Lo dici tu che il dolce è il cibo degli dei.

GFB: Lo dicevano i Greci.

JFL: Penso che l'aldilà dei sapori, l'inizio dei sapori si trovi fuori dalla sfera dei sapori umani; gli uomini aggiungono sale, aggiungono zucchero, fanno l'acido, fanno l'amaro, ovvero speziano i cibi. Hanno bisogno di creare delle differenze per poter istituire dei sistemi di sapori in opposizione e per creare una cucina, ma la cucina vale anche come mezzo di comunicazione tra di loro. Gli uomini hanno bisogno di creare dei sapori [...]. Ma gli dei non hanno bisogno di tutto questo! Questo è la povertà dei sistemi di opposizione umani. Ed è questo che significa la dolcezza delle sostanze divine.

GFB: Ma è comunque strano che il sangue del Cristo sia simboleggiato dal vino che non è altro che il prodotto di una fermentazione alcolica proveniente dallo zucchero e che possiede quindi una certa dolcezza di principio, non è così? In Francia nel vino ci si mette lo zucchero...

JFL: E' dolcezza, sì, è dolcezza nel senso zuccherino. Ma il vino non è dolce...

GFB: Non è dolce ma ha a che fare con il metabolismo dello zucchero, è una fermentazione alcolica. Ed è bizzarro come le cose divine si riferiscano sempre a cose che... l'ostia di grano e nello stesso tempo il vino provengono da un processo che passa attraverso...lo zucchero, il fruttosio e quindi quegli alberi... Erano zuccherini, che cosa faceva Adamo, che cos'era la mela, era un frutto zuccherino, un frutto dolce o zuccherato/zuccherino. La mela non è grigia; dolce-acida...

JFL: Certo. La mela è chiaramente un sapore, con il suo sistema di sapori ecc.

GFB: E' già questo?

JFL: Sì, certo, ma l'uomo preadamico non aveva bisogno di mek navigava nel sapore del dolce sapere. Sai che sapere ha la stes: origine di sapore: conoscere, provare per via orale. Questo sugo. risce che ci sia una specie di sapore che ha luogo per va orale. che non è un sapore delle differenze. E che il dolce, che non, un contrario, è proprio il sapere del sapore o il sapore come sape. re. Il sapore, come sapore della vita, della vita e della mon: indifferenziate, è la dolcezza. E la dolcezza profonda, che è quel la del grigio e del neutro. Sono sicuro che su questo argomento ci siano dei testi indiani. Perché vedi, anche la morte... credo che questo sapore sia come la vita e la morte, e se uno mangia L terra, la terra è dolce, e quando uno mangia la terra vuol dire che è morto.

L'acinéma[modifica | modifica sorgente]

di Jean-Frangois Lyotard

Il nichilismo dei movimenti convenzionali[modifica | modifica sorgente]

Il cinematografo! è iscrizione del movimento, scrittura di movimenti. Ogni tipo di movimento: ad esempio, per quanto riguarda il piano, quello degli attori e degli oggetti mobili, delle luci, dei colori, dell'inquadratura, della focale; per la sequenza, degli stessi elementi ancora e, in più, dei raccordi (del montaggio); per il film, dello stesso découpage e, al di sopra o attraverso tutti questi movimenti, del suono e delle parole, che costituiscono un tutt'uno con essi. C'è, dunque, una moltitudine (per quanto numerabile) di elementi in movimento, una moltitudine di oggetti mobili e possibili candidati all'iscrizione sulla pellicola. Imparare i mestieri del cinema consiste nel diventare capaci di eliminare, al momento della produzione del film, un buon numero di questi movimenti possibili. La composizione dell'immagine della sequenza e del film sembra dover avere luogo a spese di queste esclusioni. Da ciò derivano due interrogativi davvero ingenui rispetto al discorso dell’attuale teoria cinematografica: quali sono questi movimenti e questi oggetti mobili? Perché è necessario selezionarli? Non selezionare alcun movimento significa accettare il fortuito, lo sporco, l’impuro, il non organizzato, il confuso, ciò che è male inquadrato, ciò che è sbilenco e mal fatto... Poniamo, ad esempio, che stiate lavorando ad un piano con una videocamera, magari su una splendida chioma alla Saint-John Perse. AL momento di visionare, notate che c'è stato un vacillamento: di colpo, disordinati profili di isole, paludi e scogliere taglienti invadono in vostri occhi, li colmano, intercalano, nel vostro piano, una scena venuta da chissà dove, che non rappresenta nulla di riconoscibile, che non si ricollega alla logica del vostro piano, che non ha valore neppure come inserto, perché non sarà ripresa, ripetuta, una scena indecidibile che dovrete eliminare. Non rivendichiamo un cinéma brut, come l'art brut di Dubuffet. Non facciamo parte di un'associazione per la salvaguardia dei provini e la riabilitazione del non montato. Per quanto... Pensiamo che se il vacillamento viene eliminato, lo sia per la sua non conformità, che venga rimosso, al tempo stesso, per proteggere l'ordine dell'insieme (del piano e/o della sequenza e/o del film) e per negare l'intensità che veicola. L'ordine dell'insieme ha per scopo solo la funzione del cinema: che ci sia ordine nei movimenti, che i movimenti si facciano in ordine, che facciano ordine. Siamo in grado di concepire e praticare la scrittura con il movimento, il cinematografare, solo come un'incessante organizzazione dei movimenti: regole della rappresentazione per la localizzazione spaziale, regole della narrazione per il farsi istanza del linguaggio, regole della forma “musica da film” per il tempo sonoro. Quella che chiamiamo impressione di realtà è una vera e propria oppressione d'ordini. Questa oppressione consiste nell'applicazione del nichilismo ai movimenti. Nessun movimento, indipendentemente dalla sua provenienza, è dato all’occhio-orecchio dello spettatore per quel che è: una semplice differenza sterile in un campo visivo-sonoro. AL contrario, ogni movimento proposto rinvia ad altro, si iscrive come un più o un meno sul libro dei conti che è il film, ha valore perché in relazione ad altro?, perché è dunque una risorsa? potenziale e vantaggiosa. Il solo vero movimento con il quale si scrive il cinema è dunque quello del valore. La legge del valore (nell'economia cosiddetta politica), sostiene che l'oggetto, nel nostro caso il movimento, vale per quanto è scambiabile, in quantità di un'unità definibile, per quanto è equivalente ad altri oggetti o a quelle stesse quantità. Bisogna dunque che l'oggetto sia suscettibile di movimento perché abbia valore: che proceda da altri oggetti (“produzione” in senso stretto), e che sparisca, ma a condizione di dar luogo ad altri oggetti ancora (consumo). Un processo del genere non è sterile, è produttivo, è produzione nel senso più ampio del termine.

La pirotecnica[modifica | modifica sorgente]

Distinguiamolo bene dal movimento sterile. Un fiammifero acceso si consuma. Ma se con esso accendete il gas, grazie al quale scaldate l’acqua per farvi il caffè di cui ogni mattina avete bisogno prima di andare al lavoro, il suo non è un bruciare sterile, ma un movimento che appartiene al circuito del capitale: merce-fiammifero _ merce-forza lavoro _ denaro-salario _ merce-fiammifero. Tuttavia, quando un bambino accende la capocchia rossa del fiammifero solo per vedere, senz'altra ragione, lo fa perché ama il movimento, i colori che sfumano l'uno nell'altro, le luci che esplodono in tutto il loro splendore, la morte del pezzetto di legno, lo sfrigolio. A lui, dunque, piacciono le differenze sterili, quelle che non portano a nulla, che non sono ammortizzabili e compensabili, a lui piacciono le perdite e ciò che il fisico chiamerebbe degradazione d'energia. Il godimento, per quanto fornisca occasione di perversione e non solo di propagazione, si distingue per questa sterilità. Al termine di Al di là del principio di piacere, Freud lo pone come esempio della combinazione della pulsione di vita (Eros) e delle pulsioni di morte. Ma si riferisce al godimento ottenuto attraverso la genitalità “normale”: come ogni godimento, compreso quello che dà occasione alla stasi isterica o allo scenario perverso, il godimento normale include la componente letale, ma la nasconde in un movimento di ritorno, che è quello della genitalità. La sessualità genitale, se è normale, dà luogo ad una nascita e quel che nasce è il prodotto‘ del suo movimento. Ma il movimento di piacere in quanto tale, più o meno genitale o sessuale, se non inserito nel movimento di propagazione della specie, diverrebbe ciò che, oltrepassando il punto di non ritorno, riversa le forze libidiche al di fuori dell'insieme e a spese di esso (a spese della distruzione e della disintegrazione dell'insieme). Quando il fiammifero prende fuoco, al bambino piace questo dirottamento® (la parola è cara a Klossowski) dispendioso di energia. Egli produce, attraverso il suo movimento, un simulacro del godimento nella sua componente cosiddetta di morte. Se è un artista, certo lo è perché produce un simulacro, ma soprattutto perché questo simulacro non è un oggetto di valore che vale per un altro oggetto, con il quale si comporrebbe, si compenserebbe e si richiuderebbe in un insieme regolato da una qualche legge costitutiva (in struttura di gruppo, per esempio). Conta invece che tutta la forza erotica investita nel simulacro sia in esso promossa, dispiegata e bruciata invano. Per questo Adorno diceva che la sola grande arte è quella degli artificieri: la pirotecnica, infatti, simulerebbe alla perfezione il consumarsi sterile delle energie libidiche. Joyce accredita questa prerogativa nella sequenza sulla spiaggia (Ulysses). Un simulacro inteso in senso klossowskiano, che non va concepito sotto la categoria della rappresentazione, come ciò che, ad esempio, mima il godimento, ma in una problematica cinesica, come prodotto paradossale del disordine delle pulsioni, come combinazione di decomposizioni. La discussione sul cinema, e sull'arte rappresentativo-narrativa in genere, comincia proprio da qui. Perché si schiudono due direzioni per concepire (e produrre) un oggetto, cinematografico in particolare, conforme all'esigenza pirotecnica: due correnti apparentemente contrarie, le stesse che paiono oggi attrarre ciò che vi è di intenso nella pittura ed operare anche nelle forme realmente attive del cinema sperimentale e underground. Questi due polarità sono rappresentate dall'immobilità e dalle. cesso di movimento. Attratto verso questi opposti, il cinema smette impercettibilmente d'essere una forza dell'ordine: produce dei veri - cioè vani - simulacri, delle intensità di godimento, invece che oggetti consumabili-produttivi.

Il movimento di ritorno[modifica | modifica sorgente]

Facciamo qualche passo indietro. Che cosa hanno a che fare questi movimenti di ritorno o questi movimenti reiterati con la forma rappresentativa e narrativa nel cinema di grande distribuzione? Sarebbe insufficiente rispondere a questa domanda in termini di semplice funzione sovrastrutturale di un'industria, il cinema i cui prodotti, i film, dovrebbero agire sulla coscienza del pubblico per addormentarlo con i suoi infusi ideologici. Se la messa in scena è messa in ordine di movimenti, non lo è in quanto propaganda (a favore della borghesia, direbbero alcuni, e della burocrazia, aggiungerebbero gli altri), ma in quanto propagazione, Nello stesso modo in cui la libido deve rinunciare alle sue eccedenze perverse per poter assicurare, all'interno di una genitalità normale, la propagazione della specie - solo fine per il quale permette la costituzione del “corpo sessuato”, così il film prodotto dall'artista nell'industria capitalistica (e ogni industria conosciuta al momento lo è), e risultante, l'abbiamo detto, dall'eliminazione dei movimenti anomali, dai dispendi inutili, dagli scarti di puro disfacimento, è composto come un corpo omogeneo e propagatore, un insieme riassemblato e fecondo che saprà tra. smettere, non perdere, ciò che porta con sé. Il racconto chiuderà la sintesi dei movimenti nell'ordine dei tempi e la rappresentazione prospettica nell'ordine degli spazi. Ora, in che cosa possono consistere tali chiusure, se non nel disporre la materia cinematografica secondo la figura del ritorno. Non parliamo qui solo dell'esigenza di guadagno imposta dal produttore all'artista, ma dell'esigenza di forma che l'artista fa gravare sul materiale. Ogni forma cosiddetta “buona” implica la riapparizione dell'identico, la riconversione della diversità nell'unità identica, In pittura, tutto questo può tradursi in rima plastica o in equilibrio di colori; in musica, può essere la risoluzione di una dissonanza nell'accordo di dominante; in architettura, una proporzione. La ripetizione, principio proprio non soltanto della metrica ma anche della ritmica, considerata nel senso della ripetizione dello stesso (dello stesso colore, della stessa linea, dello stesso angolo, dello stesso accordo o intervallo), è ciò che conviene a Eros-e-Apollo, ciò ce disciplina i movimenti riconduce ai limiti di tolleranza caratteristici del sistema o dell'insieme considerato. Quanto alla ripetizione, siamo stati fortemente tratti in inganno quando abbiamo creduto, con Freud, di scoprire in essa il movimento stesso delle pulsioni. Perché Freud, in Al di là del principio di piacere’ fa sempre ben attenzione a tenere distinti la ripetizione dello stesso, che segnala il regime delle pulsioni di vita, e la ripetizione dell'altro, che non può che essere altro dalla prima ripetizione indicata, corrispondente alle pulsioni di morte: essendo queste fuori dal regime assegnabile dal corpo o dall'insieme, non è possibile distinguervi ciò che ritorna, quando, con esse, a ripresentarsi è l'intensità di estremo godimento e pericolo di cui esse sono portatrici. AL punto che bisogna chiedersi se si tratta proprio di ripetizione, o se invece non si tratti ogni volta di altro, e se l'eterno ritorno di queste sterili esplosioni di investimenti libidici non debba essere concepito in un diverso ordine spazio-temporale rispetto a quello della ripetizione dello stesso, come loro copresenza incompossibile [coprésence incompossible]. Qui ci si scontra certamente con l'insufficienza del pensiero, che necessariamente passa per il medesimo che è il concetto. I movimenti del cinema sono in generale quelli del ritorno, cioè della ripetizione dello stesso e della sua propagazione. La sceneggiatura, un intrigo con epilogo, rappresenta, nell'ordine degli affetti relativi ai “significati” (denotati e connotati, direbbe Metz), la stessa risoluzione di una dissonanza che la forma della sonata in musica. A questo proposito, ogni fine, anche mortale, è buona in quanto fine, come risoluzione di una dissonanza. Nel registro degli affetti relativi ai “significanti” cinematografici e filmici, troverete applicati a tutti i campi (focale, messa in quadro, raccordo, illuminazione, stampa, ecc...) la stessa regola di riassorbimento della diversità nell'unità, la legge del ritorno dello stesso attraverso una parvenza d’alterità che, in realtà, non è che un espediente.

  1. “L'Espresso”, 1973; poi in A. Moravia, Al cinema, Bompiani, Milano, 1975, pp. 280-282
  2. “Rinascita”, 4 maggio 1973
  3. Il Giorno, 17 maggio 1973
  4. Corriere della Sera, 5 gennaio 1977)