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==== Bronte: cronaca di ciò che i critici hanno raccontato ==== di '''Vincenzo Esposito'''<ref>Vincenzo Esposito, in Pasquale Iaccio, Bronte, cit., p.29 ss.</ref> Da un lato i recensori di destra (capitanati dall'agguerrito Angelo Solmi) che accusarono il film di capziosità, quando non addirittura di falsità storica; sul fronte opposto alcuni critici marxisti (si veda, ad esempio, la posizione di Roberto Alonge su «Cinema Nuovo») che, identificando evidentemente nella figura dell'avvocato Lombardo la posizione di Vancini stesso, videro nella lezione storica di Bronte un esempio di “riformismo politico”. Vi furono, come ricorda Vancini, anche gli “indifferenti”, coloro che per abitudine o incapacità trattarono il film con sufficienza, occultando la problematicità tematica del film dietro il paravento estetico, ma non rappresentarono, per fortuna, la maggioranza. Buona parte dei recensori comprese il senso profondo dell'operazione vanciniana, e, sebbene costretta a far quadrato intorno al film per difenderlo dagli irrazionali strali dei conservatori, trovò comunque la forza per esprimere serenamente dei giudizi sui temi e i significati dell'opera. Vanno annoverati, a tal proposito, almeno gli scritti di Alberto Moravia, Jacques Nobécourt (inviato del quotidiano francese «Le Monde»), Mino Argentieri, Bruno Torri e Lino Miccichè. La copiosità di articoli, dibattiti e animate tavole rotonde che il film di Vancini fece registrare testimonia che l'opinione pubblica non rimase completamente indifferente di fronte alla forza d'urto sprigionata dalla rivisitazione storica dei “fatti di Bronte”; anche se la “querelle” brontina - che sfiorò talvolta la polemica spicciola - non si tradusse immediatamente in una spinta promozionale per il film. Gli attacchi della destra partirono dalle pagine del settimanale «Oggi» [Caro Vancini, Bixio non era nazista, «Oggi», n.21, 20 maggio 1972]. In una lettera aperta, Angelo Solmi, critico del rotocalco rizzoliano, accusò il regista di “lesa patria” e “demagogia elettorale”, sottolineando, altresì, di essersi “vergognato” di fronte alla rappresentazione di un Nîno Bixio “nazista”. l'articolo comincia così: «Caro Vancini, mi sono vergognato che un regista di tanta finezza stilistica e di tanta sensibilità abbia potuto porre il suo innegabile talento al servizio di un autentico falso storico, probabilmente per un'operazione demagogica preelettorale». La recensione di Solmi, in realtà poco articolata, si concentra intorno ad un generico, quanto sciovinistico, panegirico dell’eroe Bixio”, e lascia alquanto in ombra la questione estetica, limitandosi a ricordare ‘en passant’ che «Bronte in sé per sè, è tutt'altro che un film mal fatto». Tito Guerrini su «Umanità» [Tito Guerrini, “Bronte” di Florestano Vane, «Umanità», 30 maggio 1972], rincalzò la dose e accusò Bronte di superficialità ed eccessivo schematismo: "I contadini di Bronte convincono più per la loro passionale violenza (un po' alla “Western”) che non per le precise e intime ragioni che li inducono a comportarsi in un determinato modo. E poi c'è Nino Bixio che il regista dipinge, grosso modo, come un generale nazista. [...] Ritengo insomma, che Florestano Vancini abbia affrontato il problema, peraltro così interessante ed importante, con molta superficialità. Ma questa superficialità è probabilmente connaturata alla sua natura, è la “macchia” del suo indubbio talento registico. E il fatto che le sinistre, per puro gioco politico avvallino questa macchia, è quantomai sintomatico». Quasi tutte le recensioni apparse sulle pagine della stampa conservatrice e filogovernativa condivisero le accuse di "lesa patria” - sorte riservata precedentemente, ricordiamo, anche al Rosi di Uomini contro e al Monicelli de La grande guerra - e “demagogia elettorale”, ma i toni, per fortuna, non furono sempre triviali. Talune speculazioni critiche della destra moderata (quelle perimetrate nell’ambito del civile confronto di idee), per quanto opinabili, contenevano spazi esegetici comunque interessanti. Domenico Meccoli, ad esempio, su «Epoca» [Le lacrime di Nino Bixio e il sangue di Trotsky, «Epoca», n. 1128, 14 maggio 1972] partendo da un assunto di base secondo cui Bronte non sarebbe un racconto cronachistico, come vorrebbe invece far credere il titolo, definisce il film di Vancini un’opera costruita intorno ad una tesi classista e rivoluzionaria che «induce a me dilatare certi eventi della nostra storia dove è possibile scoprire, sia pure in parte, le ragioni del nostro presente. [...] In sintesi, con un vigore spettacolare che ricorda quello dell'opera prima di Vancini, ''La lunga notte del ‘43,'' il film vuole dire che i diseredati del Meridione, beffati di trasformismo delle classi dirigenti, incompresi e strumentalizzati, non avevano allora (e, si sottintende, non hanno oggi) altro modo di risolvere il problema della loro miseria se non con l'acquisizione della coscienza di classe e col rifiuto di un ingannevole riformismo. La tesi è abilmente sostenuta attraverso il fallimento dell'opera dell'avvocato Lombardo». Meccoli, proseguendo nel suo parallelismo tra i “fatti di Bronte” e i “fatti del ‘72” definisce, inoltre, il film «capzioso» perché nella sconfitta finale dell'avvocato Lombardo vi si riscontrerebbe anche «una constatazione che il capo dei carbonai non aveva torto nel prevedere che i ‘galantuomini’ avrebbero trovato la protezione delle baionette garibaldine. Il discorso è ovviamente capzioso. Identifica - tema dei nostri giorni - l'ordine con la repressione». L'articolo di Meccoli trova, paradossalmente, la sua speculare controparte nelle pagine di «Cinema Nuovo» [Roberto Alonge, Una tragedia riformista tra storia e politica, «Cinema Nuovo», n. 222, a. XXII, marzo-aprile 1973, p.16]. Sulla rivista di cultura marxista diretta da Guido Aristarco, Roberto Alonge — partendo ovviamente da posizioni politiche diametralmente opposte a quelle del critico di «Epoca», e, va detto, facendo sfoggio anche di un ben altro rigore interpretativo — arriva a conclusioni “parallelamente convergenti”. Alonge ritiene che Bronte nasconda dietro l'apparenza storica una sostanza politica: «il discorso sul passato lascia intravedere il discorso sul presente, sull'oggi», e, proseguendo sullo stesso binario di Meccoli, intravede nella dicotomia passato-presente la volontà di Vancini di riproporre in chiave polemica il dibattito attuale sulla legalità borghese, il concetto equivoco di libertà e l’uso della violenza. Ma, per il critico, l'esito a cui giunge il regista è «quello polemico del movimento operaio ufficiale verso le avanguardie della sinistra di classe». Per Alonge il discorso che emerge dal film è chiarissimo: «È il rifiuto della violenza, il rifiuto di distinguere violenza che opprime da violenza che libera. [...] L'uomo che nel prologo aveva picchiato il villano e il figlio, è costretto a subire la legge del “contrappasso”: braccato a sua volta nei campi, gettato a terra, spinto a raccogliere delle fascine, e quindi ammazzato con il calcio del fucile. [...] È la nemesi: la vittima di ieri diventa carnefice, e il carnefice diventa la vittima di oggi». Per il recensore di «Cinema Nuovo» la scelta politica di Vancini è racchiusa, chiaramente, nel ritratto a tutto tondo dell'avvocato Lombardo, nell'esaltazione del suo ruolo politico. «Vancini vede in Lombardo non già colui che frena e disarma la violenza rivoluzionaria, ma l'accorto dirigente stretto, a destra, dalle forze reazionarie, e, a sinistra, dall'avventurismo irresponsabile di Gasparazzo. In questa prospettiva lo stesso scappare sui monti di Gasparazzo si connota come vigliaccheria». Il Gasparazzo vanciniano rappresenterebbe, quindi, l'estremista sobillatore che al momento opportuno pensa solo a salvare la propria pelle, colui che spinge «la classe operaia su posizioni estremiste, di rottura, salvo abbandonarla a se stessa nel momento dello scontro. Sicché riproporre la vicenda di Bronte oggi, in questo preciso momento dello scontro di classe - riproporla in questo modo - ha un significato che non può che essere riformistico. Bronte è il fallimento di una classe contadina gettata allo sbaraglio da una dirigenza estremista e irresponsabile che non sa costruire una prospettiva politica vincente, al di là dello scatenamento momentaneo, della devastazione omicida; è il circolo vizioso degli “opposti estremismi”». La teoria degli “opposti estremismi” compare anche in un lungo saggio di Zambetti apparso su «Cineforum» [Vancini: Bronte, cronaca di un massacro, «Cineforum», n. 119, 1973]. Dopo aver lamentato la mancanza di una analisi approfondita del livello di coscienza di classe raggiunto dalle masse, e dopo aver altresì stigmatizzato l'assenza nel film di figure adeguatamente rappresentative del mondo contadino dell'epoca - carenze che peserebbero fino al punto di accentuare «il carattere istintivo della rivolta, facendola percepire come una semplice esplosione di furore non sorretta da una qualsiasi presa di coscienza» - il recensore crede di ravvisare nel Bronte di Vancini l'ombra degli “opposti estremismi”. «Gasparazzo finisce con l'apparire come un elemento anomalo e astratto, che fa pensare alla sinistra extraparlamentare e, in genere, a tutti coloro che si azzardano ancora a parlare di lotta di classe, così come sono presentati dalla stampa borghese (e non solo borghese): un avventurista che pesca nel torbido, magari in buona fede, ma totalmente ignaro di realpolitik, imbevuto di terie incomprensibili [....) e ciecamente portato alla violenza per la violenza. Chei fatti, alla fin fine, diano ragione a lui, è cosa su cur il film non richiama sufficientemente l'attenzione, dato che Gasparazzo è ormai scomparso dalla scena, mentre vi campeggia, sempre più dominante, per l'aureola stessa del sacrificio a cui va nobilmente incontro, la figura di Lombardo, contrapposta a quella di Bixio: ci vuol poco, a questo punto, per tirar fuori la teoria degli opposti estremismi (anche Bixio è un cattivo che ha il suo buono nel colonnello Poulet, come Lombardo è il buono rispetto a Gasparazzo e ai contadini assetati di sangue) e ad innalzare sui rispettivi massacri estremistici (quello dei quindici galantuomini uccisi dai contadini e quello dei cinque fucilati da Bixio) il monumento all'equilibrato buonsenso riformistico ed alla costruttiva centralità democratica». Nel variegato scacchiere ideologico della critica cinematografica italiana di sinistra le posizioni di Alonge e Zambetti occupavano l'ala più estrema, quella vicina alla cosiddetta “Sinistra extraparlamentare”, e si discostavano notevolmente dalle posizioni della “sinistra ufficiale” (sempre ammesso che tali espressioni avessero, anche allora, un senso). Mai loro scritti, pur non prestandosi al gioco della stampa reazionaria, finivano inevitabilmente per sacrificare sull'altare del radicalismo un film arduo e complesso, quasi unico nel panorama cinematografico italiano. Le loro analisi, come quella di Meccoli su «Epoca» del resto, danno per scontato che la posizione dell'avvocato Lombardo coincida con quella dell'autore. A questo proposito Callisto Cosulich [La missione maledetta, «ABO», 28 aprile 1972] è ancora più esplicito: «È evidente che le simpatie dell'autore vanno al Lombardo, cioè al mediatore tra le classi in lotta. Non sembra neppure sfiorano l'ipotesi che sia stato proprio il Lombardo, convincendo gli insorti a deporre le armi e a fraternizzare coi garibaldini, il maggior responsabile del fallimento della rivolta». Per costoro, insomma, il film di Vancini è un'opera ideologica e non fenomenologica; un'opera in cui la dialettica tra l'oggettivo (il dato storico rappresentato) e il soggettivo (l'interpretazione dei fatti) non maschera l'intento ideologico dell'autore (riformistico per Alonge e Zambetti, rivoluzionario per Meccoli). Così facendo, però, non rilevano la vera novità, dettata dalla cifra stilistica & film, che risiede nell'aver saputo ridare al “film storico, una linea oggettiva, nella migliore tradizione rosselliniana, È questa l'interpretazione di Bruno Torri. Su «Mondo Operaio» [I fatti di Bronte e il film storico, «Mondo Operaio», n.5, maggio 1972] il recensore vede nel film di Vancini la consacrazione del primato rosselliniano della «fenomenologia» sulla «ideologia», cioè dei «fatti interni» sui «valori esterni». Prima di giungere ad una analisi diretta dell'opera, Torri traccia succintamente una definizione del “film storico”, nell'intento di far risaltare i valori artistici di Bronte. L'articolista non ricorre a concetti astrati ma ad esempi concreti: due esempi che, a suo avviso, sembrano idonei, anche per le loro alte qualità artistiche, a caratterizzare, e a distinguere il “film storico”. «Questi film sono La marsigliese di Renoir e La presa del potere da pare di Luigi XIV di Rossellini. L'uno e l’altro portano sullo schermo fatti storici realmente accaduti. [...] Ciò che li accomuna è lo stesso atteggiamento, etico ed estetico, di fedeltà alla realtà storica. Ciò che li distingue è la diversa posizione ideologica verso gli argomenti trattati. Renoir, negli anni del Fronte Popolare, ripropone alcuni episodi della Rivoluzione francese non tanto per celebrare una epopea quanto per fissare una continuità tra il 1789 e il 1936, tra due momenti di lotte sociali che vedono il popolo (il progresso) vittorioso su chi lo opprime e lo minaccia (la reazione). Il regista francese cerca nella storia di ieri una lezione ancora attuale e la comunica. [...] Rossellini tende invece, nel suo film, ad una oggettività assoluta; in quanto autor mira a dare una piena credibilità e verosimiglianza alla narrazione, ma senza manifestare la propria posizione soggettiva, anzi sforzandosi di far apparire l'opera tutta fatta dal di dentro, tutta chiusa in sé. Tendenzialmente (e schematicamente), l'opera di Renoir è storico-militante; quella di Rossellini storico-didattica: Renoir prende, e spinge esplicitamente a prendere partito; Rossellini, raccoglie, e spinge implicitamente a usare “documenti”». Secondo il critico di «Mondo Operaio» il film di Vancini segue prevalentemente la linea rosselliniana, perché non indirizza univocamente il giudizio dello spettatore, ma ricerca e testimonia la verità delle situazioni e degli accadimenti’. Anche Alberto Moravia, dalle colonne de «L'Espresso», riconobbe all'opera di Vancini il pregio dell'oggettività [... vedi articolo riportato]. Le peculiarità del discorso storico-politico vanciniano emergono ulteriormente dalle analisi di altri due noti critici di sinistra quali Miccichè e Argentieri. Più inclini a leggere nell'opera di Vancini gli inizi di un itinerario rivoluzionario mancato che non gli esiti di un'opera controrivoluzionaria (come fanno invece Alonge e Zambetti), i recensori si premurano innanzitutto di integrare l’opera di Vancini nella tradizione storiografica gramsciana [... vedi articoli riportatati]. La tesi [...] è in qualche modo suffragata da alcune dichiarazioni rilasciate dallo stesso Florestano Vancini al giornale romano «Il messaggero», raccolte da Costanzo Costantini [30 giugno 1972]. Nell'articolo il regista respinge innanzitutto il giudizio dei critici secondo cui egli avrebbe rivisto l'episodio di Bronte alla luce della problematica politica contemporanea, e in particolar modo entro lo schema “riformismo-rivoluzione”, includendo nel riformismo anche il Partito Comunista e riservando la rivoluzione alla sinistra extraparlamentare”, giacché, ricorda Vancini, «il film l'ho scritto dieci anni fa, quando la sinistra extraparlamentare non esisteva». Poi, incalzato dall'interlocutore, l'autore di Bronte afferma che lungi dall'essere una metafora sulla situazione politica attuale, il suo film contiene semmai delle enucleazioni sulle origini della politica della repressione che si proiettano inevitabilmente su un orizzonte storico-sociale che arriva fino alle soglie dell'attualità. «Da Bronte prende avvio una politica che si svilupperà nei decenni successivi sino ai nostri giorni. È la politica dei governi nazionali nei confronti del Sud: il Sud visto come terra di conquista, in senso coloniale. È la politica della repressione che a Bronte viene posta in atto dai garibaldini ed in seguito dai governi che avevano combattuto il garibaldinismo». Il film di Vancini fu accolto favorevolmente anche da alcuni quotidiani del Mezzogiorno [...] Su «Il Mattino», infatti, de Tiberiis [Bronte e le vestali del mito: la cronaca di un massacro diventa un caso di cultura, «Il Mattino», 22 giugno 1972] .scrive: «A me è sembrato uno spettacolo ottimo, scarno, teso, e soprattutto aderente alla verità. E un lavoro che non si liquida respingendolo fra la paccottiglia aneddotica del genere degli scritti di de Sivo, di Buttà, di Acton e forse anche del mio Ulloa nelle sue pagine peggiori: né tanto meno attribuendogli un'etichetta politica, perché, qualsiasi sia la fazione per la quale si militi, un fatto, una verità restano saldi e fermi. [...] Vancini non impone nuovi miti, retoriche populiste, agiografia con segno mutato. Segue sì una cronaca, quella del Radice. Ma non bisogna dimenticare che fra le fonti riportate nel film - perché Bronte è l'unico lavoro cinematografico con una sua bibliografia - vi è per prima Gli atti del processo di Bronte documento ufficiale e non di parte». Voglio, infine, chiudere questa rassegna di critica cinematografica passando dallo sguardo, per così dire, particolare di un meridionale a quello più distaccato (almeno dal punto di vista strettamente politico) di uno “straniero in Italia”. La recensione di Jacques Nobécourt, corrispondente italiano del prestigioso quotidiano francese «Le Monde», contiene a mio avviso una sintesi esemplare, per lucidità intellettuale e competenza culturale, dei valori universali di un’opera che con la sua perfetta osmosi tra forma e contenuto riesce a trascendere il fatto storico e a elevarsi sul piano della testimonianza umana [... vedi articolo riportatati].
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