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==== L'istanza di identificazione ==== Questa regola, laddove si applichi, opera principalmente, come abbiamo detto, sotto forma di esclusioni e di cancellazioni. Esclusioni di movimenti di cui gli addetti ai lavori non sono consapevoli, cancellazioni che, in compenso, essi non potrebbero ignorare perché rappresentano una parte importante dell'attività cinematografica. In realtà, queste cancellazioni ed esclusioni costituiscono le operazioni stesse della messa in scena. Eliminando, prima o dopo la ripresa, i riflessi, ad esempio, l'operatore e il regista condannano l’immagine sulla pellicola al sacro imperativo di rendersi riconoscibile all'occhio, ed esigono dunque da quest'ultimo che percepisca l'oggetto o l'insieme di oggetti come il doppio di una situazione supposta reale. L'immagine è rappresentativa perché è riconoscibile, perché si rivolge alla memoria dell'occhio, ai punti di riferimento d'identificazione stabiliti, noti, nel senso di “ben noti”, certi. Questi riferimenti sono l'identità che misura il ritornare e il ritorno* dei movimenti. Formano l'istanza (o il gruppo di istanze) alla quale si fissano tutti i movimenti e grazie alla quale essi assumono inevitabilmente la forma di cicli. Così, ogni allontanamento, ogni disturbo, ogni scarto, perdita e irregolarità può aver luogo, perché non di tratta più di dirottamenti, di derive a perdere ma, a conti fatti, soltanto di percorsi più lunghi per un saldo in attivo. È in questo preciso punto di ritorno a fini di identificazione che la forma cinematografica, intesa come sintesi di movimenti corretti, si articola sull'organizzazione ciclica del capitale. Un esempio tra i tanti: in Joe (film interamente costruito sull'impressione di realtà), il movimento compare alterato in due momenti: la prima volta, quando il padre picchia a morte il giovane hippy con il quale la figlia vive, la seconda quando, “ripulendo” con il fucile una comune hippy, uccide la figlia senza saperlo. Quest'ultima sequenza si ferma su un primo piano del volto e del busto della giovane donna colpita in pieno movimento. Nel primo omicidio, distinguiamo appena, alle soglie minime di percezione, una gragnola di pugni scagliarsi su un volto indifeso che sprofonda presto nel coma. Questi due effetti, uno di immobilizzazione, l’altro di eccesso di mobilità, sono ottenuti in deroga alle norme della rappresentazione, che esigono che il movimento reale, impresso sulla pellicola a 24 fotogrammi al secondo, sia restituito in proiezione alla stessa velocità. Ci si potrebbe aspettare da ciò una forte carica affettiva, dal momento che questa perversione del ritmo realistico, come aumento o diminuzione, risponde a quella del ritmo organico nella grande emozione. E questo in effetti si produce, ma a beneficio della totalità filmica, e dunque, in definitiva, dell'ordine: perché queste due aritmie si producono non in maniera aberrante, ma esattamente in corrispondenza dei punti culminanti della tragedia dell'incesto impossibile padre/figlia che la sceneggiatura lascia intendere. Esse possono così disturbare l'ordine rappresentativo - fino a sopprimere per qualche istante la cancellazione della pellicola, che ne è la condizione essenziale - ma non cessano, al contrario, di soddisfare l'ordine narrativo, al quale imprimono una bella curva melodica, con la prima uccisione accelerata che trova la sua risoluzione nell'immobilizzazione della seconda. La memoria alla quale i film si rivolgono non è dunque nulla in se stessa, esattamente come il capitale non è nient'altro che istanza capitalizzante; è un'istanza, un insieme di istanze vuote che non operano affatto attraverso il loro contenuto: la buona forma, la buona luce, il buon montaggio, il buon missaggio, non sono “buoni” perché conformi alla realtà percettiva o sociale, ma perché, al contrario, sono gli operatori scenografici a priori che determinano gli oggetti da registrare sullo schermo e nella “realtà”.
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