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=== La veduta frontale. Antonioni, l'Avventura e l'attesa. === di Gianni Celati Dopo tanti anni mi sembra che L'avventura di Antonioni sia una di quelle opere i cui effetti si vedono dovunque, come una forma di comprensione non più individuale, ma divenuta collettiva ed epocale. Ad esempio, senza questo tipo di comprensione è impensabile il cinema di Wim Wenders e quello di Jim Jarmusch, e sono impensabili molti altri film e racconti in cui i tempi descrittivi lenti, i tempi dell'indugio senza aspettative, hanno trovato ammissione. È qui che si fa avanti una forma di comprensione epocale, come un modo d'attesa non più in balia delle aspettative. Rivedendo L'avventura ho cominciato a pensare a questo partire dal momento in cui la ragazza scompare sull'isola, l'isola nuda, quei personaggi vaganti o immobili, il cielo basso, la visione grigia e siderale, aprono il regno dell'indeterminato (come ogni deserto), in cui le pretese della cultura cominciano a sfaldarsi. Le vedute dell'isola non sono mai descrizioni compiute, ma piuttosto soste nel paesaggio, indugi che producono dei tempi morti. I personaggi vanno avanti e indietro senza meta, semplicemente costretti dall'attesa. E quanto alle aspettative di trovare la ragazza, di scoprire la verità, di ridurre l'accaduto a qualche forma di determinazione o spiegazione, tutto ciò è stato spesso riportato ad un discorso di tipo saggistico che ci parla del “crollo dei valori” nella cultura europea. Ma evidentemente questo discorso presuppone che prima del crollo i cosiddetti valori dell'arte, della cultura e della morale avessero un fondamento. Il semplice svelarsi dei valori come un ordine vuoto, senza determinazioni fuori dal discorso che continuamente li giustifica e li impone, diventa una verità dell'esperienza che la cultura non può mai ammettere. Tutte le constatazioni sul “crollo dei valori” non sono che ansia di determinazione propria della nostra cultura, e crescita di quest'ansia che marca le moderne visioni del mondo. Se il film di Antonioni partecipasse a questa miseria, probabilmente non riusciremmo più a guardarlo. In esso ritroveremmo solo le aspettative della saggistica a cui sembra ispirarsi, ed una visione del mondo, una serie di asserzioni che ci ordinano cosa dobbiamo capire. Ma dal momento in cui la ragazza scompare sull'isola, comincia un itinerario di esautoramento delle aspettative: le aspettative prodotte dai fatti narrati e insieme quelle prodotte dai valori della cultura, dell'arte e della morale, di cui nel film si discute a lungo. Che le istanze di questi valori vengano a poco a poco sostituite dall'abulia, mi sembra l'aspetto liberatorio di questo nuovo tipo di avventura in cui i personaggi non riescono più ad ingannare il tempo. L'avventura in altre epoche è stata appunto una corsa tra i pericoli per ingannare il tempo, per ingannare l'attesa attraverso le aspettative prodotte: ma cosa avviene quando il tempo si fa avanti come qualcosa che non può più essere ingannato? Vorrei solo far notare un aspetto di questa forma di comprensione. Nel film di Antonioni, come nei film di Wenders, la veduta frontale consente indugi senz'ansia, che spesso sono tempi morti sul filo della narrazione. La veduta frontale sfrutta le simmetrie ortogonali, e perciò risulta un modo ordinato e semplice di guardare le cose. Nelle foto di Walker Evans come nei film di Antonioni (con cui mi viene da associarle), la veduta frontale è essenzialmente la scelta di una bassa soglia d’intensità, d'un modo di narrare che evita le eccitazioni, e riporta tutto ad un pacato uso della rappresentazione. E ciò a differenza della veduta obliqua o do scorcio, che ha sempre un'aria di instabilità, e perciò introduce aspettative che annientano la forma semplice del guardare, l'indugio e la sosta senz'ansia. Il film di Antonioni termina con un indugio del genere, veduta frontale che sfrutta le simmetrie ortogonali per mettere ordine nello sguardo, con la ragazza in piedi di profilo e l'uomo seduto sulla panchina, nell’alba, mentre sullo sfondo si vede il bianco telone del cielo. C'è un tipo di comprensione che qui comincia a trovare le sue figure, e che ci porta alla sensazione del presente ineluttabile, il vero tempo dell'attesa. Questo presente ineluttabile, tempo che non può essere ingannato, è l'apertura a cui il film ci affida. Se l'essenza di un'epoca si rivela nel modo con cui quest'epoca si affida al tempo, dobbiamo dire che l'essenza della nostra epoca sta nel sogno d'essere un'altra epoca, “più avanzata”, “futura”, sogno continuo delle moderne visioni del mondo. Dunque la nostra epoca è un'epoca che sfugge a se stessa, epoca senza epoca, perché la sua attesa d'un altro tempo è tutta solcata da aspettative che ingannano il tempo, che rendono sempre più occulto il presente, nello stordimento del sapere e della cultura. Percepire il presente vuoto di un'epoca che sogna un'altra epoca, mi sembra allora l'unica ricerca d'una forma di comprensione ambientale. L'unica ricerca che non dipenda dalle pretese della cultura, e che tenda a riaffidarsi al tempo senza ingannarlo preventivamente con le aspettative. Ciò che l'attesa aspetta è lo svelarsi del tempo. Ma il tempo è reso sempre più occulto dalle moderne visioni del mondo, tutte proiettate in un’altra epoca, e dunque senza più nozione del tempo che ci costituisce come esistenti, o mortali. Nel film di Antonioni sono appunto i tempi morti, gli sguardi o gesti d'indugio senza meta, la fissità delle vedute frontali, a riaprire per noi questa comprensione. Credo di aver cominciato a pensare a questo tema dell'attesa guardando una foto di Luigi Ghirri, che può essere considerata un commento o un omaggio ad Antonioni. C'è la veduta frontale di un campo di calcio, col terreno erboso, la linea di fondo tracciata dall'ombra dei grandi alberi che chiudono la visuale, e là in mezzo il rettangolo della porta vuota, in una specie di grande silenzio: non è la porta d'un campo di calcio la meta delle aspettative, qui misteriosamente sospese nel presente senza aspettative? Con questo tipo di comprensione aperto da Antonioni, tutti i luoghi divengono osservabili, non c'è più differenza tra luoghi belli e brutti. Sono tutti possibili luoghi dove indugiare, e l’indugio è la figura del nostro abitare la terra, nel regno dell'indeterminato. Quando smettiamo di sentire un paesaggio come regno dell'indeterminato, dunque come inenarrabile, vuol dire che la nostra comprensione ambientale è andata a rotoli. L’anno scorso in una giornata nuvolosa percorrevo gli argini del Po verso Porto Tolle, nei luoghi ancora quasi uguali dove si svolgono alcune scene del Grido, il film in cui Antonioni ha cominciato a parlarci d'un nostro paesaggio inenarrabile. Pochi giorni dopo ho rivisto Ossessione di Luchino Visconti, che parla dello stesso paesaggio ed è l’ultimo film italiano che parli senza remore della morte e del destino. Subito dopo comincerà a diffondersi l'idea che si muore per colpa della società, e che ci si ammala non perché siamo mortali, ma perché le condizioni economiche non sono come dovrebbero. Comincerà la propaganda totalitaria, secondo cui tutto nella vita d'un uomo dipende dall'ideologia e dalla previdenza sociale. Poi politici e amministratori, assassini d'anime, deliri pubblicitari, imporranno definitivamente a questo paese il sogno d'essere un altro paese, sempre più aspettative d'un “futuro” che comunque sarà catastrofico, e sempre più macchine e spettacoli e discorsi culturali per ingannare il tempo. Qualche mese fa ho incontrato Guido Fink e abbiamo parlato di tutto questo. Lui mi ha chiesto di scrivere i miei pensieri e così ho fatto<ref>(Cinema & Cinema, a. XIV, n.49, giugno1987. Pp-5-6)</ref>.
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