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Versione delle 07:10, 7 apr 2025
Enti Promotori
- Comune di Bellaria Igea Marina
- Assessorato alla Cultura
- Ministero per i Beni e le Attività Culturali
- Dipartimento dello Spettacolo
- Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini
- Sindaco: Gianni Scenna
- Assessore alla Cultura: Ugo Baldassarri
- Dirigente Settore Cultura: Stefano Coppini

Direzione
- Direzione Artistica: Antorio Costa, Morando Morandini, Daniele Segre
- Direzione organizzativa, immagine: Antonio Tolo
- Segreteria, ricerca film: Michela Mercuri
- Catalogo, traduzioni: Gian Maria Tore
- Ufficio Stampa: Catia Donini
- Ufficio ospitalità: Cristina Gori
- Ospitalità: VerdeBlu
- Immagine di copertina: Tinin Mantegazza
- Proiezioni video: Mirco Ricci Rosalinda Celentano
- Videointerviste: Alessio Fattori
- Hanno collaborato: Irene Campana, Nicoletta Casali Daniele Segre, Giorgia Lazzari, Manuele Colamedici, Theologos Sideris
Presentazione
di Gianni Scenna (Sindaco) e Ugo Baldassarri (Assessore alla cultura)
Ancora una volta Anteprima alza la mano e chiama l'attenzione da quest'Isola dei Platani di Bellaria Igea Marina dove l'albero del cinema indipendente si accresce del ventesimo anello. A salutare questo festoso compleanno una nuova direzione artistica che scaturisce dalle radici stesse del festival: lo sguardo della critica, il mondo dell'università e la pratica del cinema, ovvero Morando Morandini, Antonio Costa e Daniele Segre i cui prestigiosi, lucidi percorsi già erano intrecciati con la storia di questo festival. Il disegno dei rami resta quello di sempre, ben riconoscibile anche da lontano. Il nuovo è un traguardo formativo e già si fa sentire nella realizzazione di un video magazine quotidiano che chiamerà a raccolta, nei giorni del festival, le energie giovani per un progetto che è, semplicemente, il cinema del cinema. Anteprima - Bellaria Film Festival come display conclusivo del cinema indipendente italiano ma anche (e finalmente) sua nascita, sua causa, sua casa.
Allargare l'orizzonte
di Morando Morandini
Nel suo ventesimo compleanno, dopo un quadriennio monarchico, Anteprima, il Bellaria Film Festival, riprende la sua formula repubblicana con la direzione artistica affidata ad un triumvirato di veterani. Lo è, a modo suo, ciascuno dei tre, anche l'esordiente Daniele Segre che nel 1984 vinse il primo Gabbiano d'oro. Non è la sola novità di quest'edizione. Assecondati e spinti dalla committenza pubblica - nelle persone del sindaco di Bellaria Gianni Scenna e dell'assessore alla cultura Ugo Baldassarri - ci siamo proposti due obiettivi: 1) rafforzare il rapporto di Anteprima con l'Università di Bologna e la Scuola Nazionale di Cinema di Roma; 2) creare le condizioni per dare inizio - nei fatti e non soltanto con parole, promesse, speranze - alle attività permanenti sul territorio. Il primo traguardo riguarda già il presente, l'edizione 2002. Con l'apporto di allievi dei due istituti di Bologna e di Roma si realizzerà dal 6 al 9 giugno un video-magazine per offrire agli ospiti e al pubblico un prodotto che faccia la cronaca giornaliera del festival Il secondo traguardo è più ambizioso, complesso e costoso, richiederà tempi medio-lunghi per la sua realizzazione. L'intento non è soltanto di migliorare l'identità e l'originaria vocazione di Anteprima, ma di trasformarla gradualmente in una Festival Factory. Invece di limitarsi a mostrare una volta all'anno una selezione dei video-film indipendenti, si vorrebbe promuovere e facilitarne la realizzazione. Non soltanto: istituire corsi di formazione professionale audiovisiva per la realizzazione di prodotti di pubblica utilità. E ovvio che questo progetto avrà bisogno della disponibilità della regione e di altri enti, associazioni, organizzazioni del territorio. In questa direzione abbiamo già fatto qualche passo: 1) il concorso “Cinema per la realtà” per proposte di brevi documentari (su due temi: il divertimento, gli stranieri) da girare nel territorio di Bellaria Igea Marina. I vincitori del concorso saranno ospitati nelle fasi della preparazione e delle riprese dei documentari da terminare entro il 15 settembre 2002. I loro lavori saranno mostrati nei mesi successivi in iniziative pubbliche sul territorio e proiettati al Bellaria Film Festival 2003; 2) durante l'edizione 2002 sarà presentato a Bellaria in anteprima Un giorno a Roma, documentario realizzato dagli allievi del primo anno della Scuola Nazionale di Cinema sull'esperienza della Caritas Diocesana Romana. Saranno presenti gli studenti, il direttore didattico della scuola Caterina d'Amico e i responsabili della Caritas: 3) con la partecipazione di A proposito di sentimenti a Bellaria si avrà la possibilità di conoscere il lavoro dell'Associazione Italiana Persone Down di Roma alla presenza di ragazze e ragazzi down e di esperti delle associazioni che operano nella regione Emilia- Romagna. La partecipazione al XX Bellaria Film Festival è stata rilevante. A Concorso Anteprima sono stati presentati 332 video-film (dai 2° ai 100 di durata): selezionati 35 per il concorso e 15 fuori concorso. La loro provenienza geografica vede al primo posto la regione Emilia-Romagna con 106 opere (di cui 37 da Modena e 30 da Bologna), seguita da Roma con 82, Milano con 27, Napoli con 13, Torino con 8, Palermo con 6, Ellera Umbra (PG) con 5. Sono giunti tre video-film dalla Svizzera (uno ammesso al concorso), tre da Parigi e uno ciascuno da Bruxelles e dall'Eire (Rep. d'Irlanda). Da quest'anno il concorso era stato esteso ai registi svizzeri, purchè i loro film fossero in lingua italiana: è un altro modo per allargare il nostro orizzonte. Tra i criteri del lavoro di selezione per il concorso c'è anche quello di tenere in equilibrio le proporzioni tra fiction e documentario. Speriamo di esserci riusciti sebbene rimanga il rimpianto di aver sacrificato qualche documentario anche per ragioni i durata. Il caso ci ha aiutati. Tra Bronte (1972), l'originale film di Florestano Vancini, presentato in edizione restaurata e arricchita di 16 minuti per continuare l'iniziativa dei “Trent'anni dopo” cominciata nel 1994, e il documentario Carlo Giuliani, ragazzo di Francesca Comencini, reduce da Cannes, esiste un nesso profondo e significativo: sono entrambi di controinformazione. Non sono novità i film che concorrono al premio Casa Rossa né la retrospettiva francese Paris Films Coop. Abbiamo deciso di presentarli tutti e otto, i film scelti per il Casa Rossa, perché molti di loro appartengono alla maledetta categoria degli “invisibili”, vittime della censura del mercato, cioè così poco e male distribuiti che in qualche caso sfuggono persino ai critici e ai giornalisti. Curata da Antonio Costa, la retrospettiva francese (4 ore di durata) comprende film di corto o di mediometraggio, in gran parte degli anni ‘70, realizzati nell'ambito dell'Università di Vincennes. E una tappa di quella ricognizione del cinema d'avanguardia che a Bellaria cominciò negli anni ‘90. E un altro modo di allargare l'orizzonte alla ricerca del nuovo e di continuare un discorso nel rispetto dell'identità e della vocazione di questo festival.
Concorso
- L'armadio di George Kaplan
- Beatrice Novecento di Carlo Gazzotti
- Caino di Claudio Giovannesi
- Cameracar di Giorgio Carella, Paolo Cognetti
- Les chants de Maldoror di Fabio Bianchini, Alberto Di Cintio
- I corti di Gaia seconda parte di Gaia Bracco
- Dedicatoria di Katyuscia Fantini
- Doggy bag di David Zamagni, Nadia Ranocchi, Monaldo Moretti
- La dolce vita di Tommi & Gigi
- The Fall di Mauro Vecchi
- Farebbero tutti silenzio di Andrea Zambelli
- Fatevi sotto, bastardi! di Umberto Zago
- Fegatelli di Gabriele Anastasio
- Finale di Walter Fasano
- La fine della vita di Fritz Lupica
- Una fuga. DissolvEnza in fiume di di Stefano Beltrami, Riccardo Manfredi
- Il giardino del sonno di Matteo Monti, Davide Zagnoli
- Giochi d'ottobre di Valentina Lari
- I graffiti della mente di Pier Nello, Erika Manoni
- La Guerra d'amore di Annika Giannini
- History of b. di Stefano Odoardi
- Incastro di Gabriele Moro
- InnamorADO di Paolo Vandoni
- remember - genetic memory di Davide Pepe
- K di Simona Mariucci
- Ein Kleines Nachtproblem di Lorenzo Bigagli
- Mater di Vincenzo Mancuso
- Mille non più mille di Marcello Vai
- Non c'è storia di Carla Pagliuca
- Ora dicono fosse un poeta. Conversazioni e divagazioni con Bruno Lauzi di Antonio De Lucia, Filippo Viberti
- Il re è nudo di Alessia Lucchetta
- Senza terra/ Sem terra di Elisabetta Pandimiglio, César Meneghetti
- La spola di Alberto Comandini
- La sua gamba di Francesco Costabile
- Time enough di Stefania Opipari
Concorso 150”a tema fisso: “Emergenza”
- L'abito di Carlo Gazzotti
- Attacco: 11 settembre 2001 di Andrea Baldassarri
- Bio di Claudio Saponara
- The buzz di Mario Tani
- Cell di Gianluca Abbate
- La cinepresa a tracolla di Michele Ceppi
- Così diversi... così simili... se “guardi” col cuore di Francesco D'Imperio
- Così è... (Così vicini così lontani) di Simone Lecca e Michele Ceppi
- Delicious di Michele Senesi
- Di come Eraclito morì annegato di Francesco Giarrusso
- Ecosviluppo di Beatrice Benocci e Davide Scannapieco
- EM 1109 di Andrea Croci
- Emergènza di Francesca Albano
- Emergenza di Stefano Baccherotti
- Emergenza di Giovanni Calamari
- Emergenza! di Marco Colacioppo
- Emergenza di Valentina Di Liddo
- Emergenza di Alice Rosa
- Emergenza limbo di Stefano Franceschetti e Cristiano Carloni
- En plein air di Sara Cupaiola
- Giulio è morto di Paolo Grosso
- Glob di Jacopo Martinoni
- Goccioloni di Giò Roseano
- Il grido di Felice Farina
- Immateriale sintetico non infiammabile di Giovanni Lasi e Andrea Righi
- Io non posso entrare di Michelangelo Frammartino
- Locabiotal di Gianluca Abbate e Riccardo Cremona
- Il mondo è di tutti... di Marina Mesnic
- Odissea d'ombre di Beppe Varlotta
- L'ombra di Stefano Giovagnoli
- Onde di neve di Elisa Carpini
- Otter ferrero di Giovanni Bufalini
- Preghiera per un bambino di Alessio Cancellieri
- Pro/gettati di Blumaria e Michela Franzoso
- Qualcuno di Federico Lai
- Ritengotrattenuto di Giacomo Cesari
- River di Luisa Pretolani
- Seminammorbidente di Federico Tinelli
- Sentòre di piazza Luca Berardi
- Sometimes di Federico Della Corte
- Sorpresa di Samuele Romano
- Specchio delle mie brame di Michela Franzoso
- Top gun di Maurizio Failla
- Train de vie di Ettore Ferrettini
- ...Vittoria di Luca Passoni, Giovanni Ziberna, Niccolò Mazzolini, Sergio Bencivenni
- Willer di Stefano Trentini
- 02/04/2002 h 1:38 Deheishe refugees camp di Andrea Zambelli
Premio Casa Rossa
- L'uomo in più di Paolo Sorrentino
- L'amore imperfetto di Giovanni Davide Maderna
- L'amore probabilmente di Giuseppe Bertolucci
- Come si fa un martini di Kiko Stella
- Jurij di Stefano Gabrini
- Sole negli occhi di Andrea Porporati
- Tornando a casa di Vincenzo Marra
- L'ultima lezione di Fabio Rosi
Festa di compleanno: Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini
Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini
Storia di un film storico
Il caso Bronte
di Pasquale Iaccio[1]
Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato è un'opera cinematografica in cui si condensa una straordinaria quantità di elementi diversi. Bronte è - innanzitutto - un film di alto livello estetico e di fattura assai originale che i quasi trent'anni che ci separano dalla sua uscita non hanno intaccato. Ma non è solo un film. È un “evento” in cui il cinema si è intrecciato con molti altri fattori e molte altre discipline, come la storia (del Risorgimento, ma anche degli anni in cui il film è stato realizzato ed è circolato), la letteratura (fu ispirato da un’oscura novella di Verga, Libertà, e tra gli sceneggiatori troviamo un altro grande scrittore siciliano: Leonardo Sciascia), la politica e l'ideologia, per le connotazioni e i significati che, a torto o a ragione, gli sono stati attribuiti da molti recensori. E si potrebbe continuare ancora. Che un film non sia solo un’opera estetica è una caratteristica che connota il cinema narrativo fin dalle sue prime prove, specie se affronta argomenti di carattere storico. Non è un caso che anche il primo film di finzione italiano, La presa di Roma di Filoteo Alberini del 1905, sia un film storico e, cosa da sottolineare, di storia del Risorgimento. La qualità maggiore che gli stessi realizzatori attribuivano a questo film era proprio la sua storicità, la fedeltà che avevano cercato di conseguire rifacendosi a particolari realistici, a cominciare dalla presenza di personaggi storici per finire all'ambientazione sui luoghi in cui l'evento era accaduto, compresa la riproposizione delle divise dei combattenti ricavate da foto d'epoca. Per l'Italia d'inizio secolo la presa di Roma era un episodio quasi sacro della sua storia recente e lo testimonia anche il tipo di percezione che la pellicola ebbe quando venne presentata al pubblico. Il significato storico dell'avvenimento fu di gran lunga preponderante rispetto a qualsiasi altro significato e a qualsiasi considerazione di carattere estetico. Esaltazione del Risorgimento e dei suoi massimi eroi, quindi, nel pieno rispetto della storia ufficiale. Non sarà un caso, in seguito, se anche il primo Kolossal della cinematografia italiana (di molto cresciuta rispetto alla pionieristica opera della ditta Alberini- Santoni) sia il famoso Cabiria di Giuseppe Pastrone del 1913 che si giovò della collaborazione di Gabriele D'Annunzio. [...] Da La presa di Roma del 1905 a Bronte del 1972 si può dire che il cerchio si chiuda e il medesimo tema viene rappresentato prima nella sua massima esaltazione e dopo nella sua massima dissacrazione. Se dovessimo cercare un esempio di intreccio tra storia e cinema, con tutti i significati che comporta col passare del tempo e il mutare delle epoche, non potremmo trovare un caso più calzante. Esaminare come il Risorgimento sia potuto diventare un caso, addirittura imbarazzante, di contro-storia, com'è accaduto col film di Vancini, sarà la cartina di tornasole che ci guiderà nell'analisi del film e delle reazioni che suscitò.
All'origine di Bronte: la novella Libertà di Giovanni Verga
di Giovanni Verga[2]
Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: "Viva la libertà!". Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola. - A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! -A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede - Perché? perché mi ammazzate? - Anche tu! al diavolo! - Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. - Abbasso i cappelli! Viva la libertà! - Te"! tu pure! - Al reverendo che predicava l'inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll'ostia consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! - La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l'inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. - Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse - lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don Paolo il quale tornava dalla vigna a cavallo col somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva il capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone mentre aspettava coi cinque flgliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. - Paolo! Paolo! - Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello. Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l'oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu fuggiva, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare, lo rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e gliel' aveva sfracellata nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni - e tremava come una foglia - Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tu- Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando d'ira in falsetto. - Tu che venivi a pregare il buon Dio colla di seta! - Tu che avevi a schifo d'inginocchiarti accanto alla povera gente! - Te"! Te"! - Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure! La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schioppettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c'era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. Viva la libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulle gradinate, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata - e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch'esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: - Mamà! mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l'uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s'era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. l’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avute cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L'altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria. E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte. Aggiornava; una domenica senza gente in. piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s'era rintanato; di reti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica come i cani! Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio. E come l'ombra s‘impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell'Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra di sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. - Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! - Se non c'era più il perita per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! - E se tu ti mangi la tua parte all'osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? - Ladro tu e ladro io. - Ora che c'era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! - Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure. Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camice rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per schiacciarti tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo. IL generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi, ragazzi come un padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schiopettate în fila come i mortaletti della festa. Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali; arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d'oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell'ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane, il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull'uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, Prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre. Colle proprie mani, e la povera gente, non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L'orfano dello speziale rubava la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che il marito le tagliasse la faccia, all'uscire dal carcere egli ripeteva: - Sta' tranquilla che non ne esce più. Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche che vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano e si persuadevano che all'aria ci vanno i cenci. Il Processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia - ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s'era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell'uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: - Sul mio onore e sulla mia coscienza!... Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In galera? - 0 perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà!...
L'ideazione e la progettazione di Bronte: Florestano Vancini, il regista
di Pasquale Iaccio[3]
“Per parlare di questo film devo partire da molto lontano e ricordare il mio rapporto con Giovanni Verga. Ho scoperto Verga mentre ero studente, negli anni quaranta, quando eravamo in pieno fascismo, e ho cominciato a coltivarlo ben oltre i miei doveri scolastici. Per me rappresentò un momento importante di formazione culturale. Verga, inoltre, diventava in quegli anni modello per il gruppo che si andava formando attorno alla rivista “Cinema” e che era il nucleo dei futuri autori del cinema italiano del dopoguerra. Su Verga, De Santis, Lizzani, Pietrangeli, Visconti, Antonioni, costruiscono le basi teoriche di ciò che sarà poi il neorealismo e cioè l'attenzione alla realtà, al mondo del lavoro, alla quotidianità per superare tutti gli orpelli che la cultura fascista aveva messo in campo in quegli anni. Quanto a me, liceale, mi colpisce in particolare una novella, Libertà, nella quale coglievo un Verga diverso da quello delle novelle rusticane e anche da quello dei romanzi. Lui era generalmente preciso e attento alla topografia, oltre che alla geografia, dei luoghi. Era solito nominare località che probabilmente non esistevano nemmeno nelle mappe, per il gusto di calarsi nella piccola realtà di un mondo minuto, quasi di formiche, che spesso raccontava. Libertà, invece, era per me una novella misteriosa, parlava di un paese delle montagne dove dei contadini si sarebbero scagliati contro i padroni, non si capiva quando, nun si capiva deve. La vicenda, stranamente, non era collocata in un luogo preciso. Ad un certo momento arrivava un generale misterioso che faceva dormire i suoi uomini nella chiesa, poi c'era una specie di rappresaglia. Ma cave? Come? Perché? Passò del tempo e negli anni cinquanta comincio a fare cinema. Arrivato a Roma, con un produttore di documentari, pensai ad un progetto di tre documentari da fare in Sicilia e li girai subito dopo. Non ero mai stato in Sicilia prima d'allora. Il mondo dell'isola, la cultura, la storia mi appassionarono molto. Approfondii tutta la narrativa siciliana: Capuana, De Roberto e poi Pirandello... Era il ‘51 e girai un documentario su Verga, su i luoghi e le figure di questo autore per me così importante. L'altro documenta- rio riguardava un paese sul Tirreno rivolto verso le Eolie vicino Sant'Agata di Militello. [...] Quando mi trovavo a Catania, che costituiva la base operativa per i nostri documentari, avevo già l’idea di fare qualcosa che riguardasse questo autore. Non il Verga del mare, cioè I Malavoglia, anche perché, pochi anni prima, Visconti aveva girato La terra trema. Non potevo tornare ad Aci Trezza per un film dello stesso genere. Andai a visitarla ugualmente, in una sorta di doppio pellegrinaggio: per Verga, che amavo già da molto tempo, e per La terra trema, che avevo visto qualche anno prima. Decisi allora di fare un documentario dedicato al fronte “rusticano” della Sicilia, da girare quasi tutto nella zona di Vizzini. Durante le riprese dormivamo a Catania perché a Vizzini non c'era albergo. E proprio a Catania mi capita di conoscere un professore di lettere. Naturalmente ci mettiamo a parlare di Verga e io gli chiedo di spiegarmi i lati oscuri della novella Libertà. Gli faccio il discorso che ho fatto prima. Verga sempre così preciso... E lui mi fa: “Ma come. Non lo sa? Bronte...”. E così mi racconta di Bronte nel 1860, un paesino vicino all'Etna, eccetera. Insomma mi dà molte informazioni e le risposte che aspettavo da quando ero liceale. Da allora non ho abbandonato più l'argomento. Negli anni successivi continuavo a fare ricerche. Intanto vado avanti nella mia attività nel mondo del cinema finché non giunse l'ora del mio primo lungometraggio nel 1960. Dentro di me, però, coltivavo sempre l'interesse per la Sicilia al punto che, mentre giravo La lunga notte del ‘43, continuavo a lavorare alla sceneggiatura di Bronte, che avrebbe dovuto essere il film successivo. Secondo i miei piani, in accordo anche con un produttore, avrei dovuto girarlo immediatamente dopo La lunga notte del ‘43. Invece questo copione, che era già pronto nel ‘61, giacque in un cassetto per nove anni, fino al 1970. Il film infatti fu girato solo nell'estate del 1970 con il contributo della Rai. Quando nel ‘69 mi fu offerta, quasi casualmente, la possibilità di realizzarlo con l'intervento della Rai, naturalmente colsi l'occasione al volo... Finalmente avevo l'occasione di realizzare il mio vecchio progetto, ma, per vederlo ultimato, dovetti penare ancora parecchio. Infatti, a lavoro finito, i dirigenti della Rai rimasero scioccati da alcune immagini del film ed ebbero molti dubbi e molte perplessità a mandarlo in onda, non si decidevano a sbloccarlo. Alla fine, consentirono a me e al produttore, che era Mario Gallo, di rimaneggiarlo e farne un'edizione un po’ più breve per poterlo collocare nelle normali sale cinematografiche. Ci diedero, così la possibilità di tornare alla versione iniziale del film, ripristinando il mio progetto originario. E infatti rimontammo il lavoro in una versione che è poi quella conosciuta. La versione Rai non è stata mai più mandata in onda. [...]
Può brevemente riassumere l'episodio di Bronte? Era un episodio completamente ignorato. Sa il titolo preciso qual è? Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato. Non era stato mai raccontato, non solo dai libri di storia delle scuole, ma neanche dalla grande storiografia. Nel 1960 l'Italia festeggiava il centenario dell'Unità con grandi celebrazioni a tutti i livelli. A Palermo venne organizzato un convegno di tre o quattro giorni con i più grandi storici italiani e del resto del mondo sul tema: La Sicilia e l'Unità d'Italia. Gli atti vennero pubblicati dalla Feltrinelli in due volumi e costituiva il corpus delle ricerche storiografiche più avanzate fino a quel momento. Del problema di Bronte però non si parlava come non si parla del problema dei contadini della Sidi; in quegli anni.
Lei come è riuscito a ricostruire quell'episodio in manie così precisa come appare nel film? Prima di tutto sono andato a Bronte, dove si trovavano interessanti documenti, tra cui un libro, che non c’erano neanche nelle biblioteche nazionali. Fu pubblicato agli inizi del Novecento da un avvocato di Bronte a sue spese. (costui, figlio di un notaio, all'epoca dei fatti aveva 10-11 anni). Durante la maturità si mette a studiare la storia di Bronte e pubblica tre ponderosi volumi cominciando dalle leggende preistoriche. L'ultimo volume è dedicato ai fatti del 1860. Chi è l'autore? Benedetto Radice, se non sbaglio. Il titolo? Non ricordo il titolo di tutta l'opera, ma l'ultimo volume si intitola intitola Nino Bixio a Bronte. Tornando al mio sopralluogo, dopo qualche giorno trovo questo libro. E' già una grossa conquista perché è molto dettagliato, quasi un diario quotidiano di quei giorni con i personaggi che cominciano ad emergere e una narrazione molto rigorosa. Ma soprattutto mi convinco che, per capire esattamente cosa fosse accaduto, bisognava andare negli archivi del tribunale di Catania a tirar fuori gli atti giudiziari. Mi riferisco al processo che si celebrò a Catania tre anni dopo i fatti, cioè nel 1863, e che culminò con una serie di condanne all'ergastolo. Il cerchio si chiude, perché la novella Libertà di Verga illustra i fatti di Bronte raccontando di un processo che si celebra a Catania, al quale Verga, evidentemente, aveva assistito. E infatti nella novella rievoca, attraverso squarci di racconti e di testimonianze che si erano avute durante il processo, ciò che era accaduto in quello sperduto paese di montagna. È un particolare importante perché conferma che a Catania era stato celebrato un processo al quale Verga aveva assistito. Da qui doveva essere nato lo stimolo a scrivere il racconto. Gli atti giudiziari furono trovati e studiati da un mio amico ricercatore, che si adoperò per mesi e alla fine raccolse una enorme mole di documentazione che fu alla base del mio film. Per quanto riguarda il personaggio di Nino Bixio, ho cercato lettere, documenti, proclami, tutte cose che non erano mai state indagate prima d'allora. [...] Il lavoro di sceneggiatura ebbe varie fasi. La prima versione la scrivemmo io e Fabio Carpi. Pur ritenendoci preparatissimi sulla storia e la cultura siciliana, eravamo pur sempre due padani; io ferrarese, Carpi milanese. Sentimmo il bisogno di avere il contributo di un siciliano autentico perché, anche se ci basavamo sui documenti dell'epoca, avevamo una specie di timore ad affrontare la psicologia siciliana. In quegli anni, 1960-1961, stava affermandosi un giovane scrittore siciliano di cui leggevamo le prime pubblicazioni e che ci interessava moltissimo. Si chiamava Leonardo Sciascia. Lo contattammo e gli chiedemmo di collaborare con noi. Lui fu ben felice. Credo sia stata l’unica volta che Sciascia abbia collaborato a un film perché, anche per i molti film tratti dalle sue opere, non ha mai voluto collaborare alle sceneggiature. Con Sciascia stendemmo il copione del film che rimase fermo, come ho detto, per 8-9 anni. Nel momento in cui noi prendemmo accordi con la Rai ci fu chiesto un ampliamento della sceneggiatura. Era già un copione molto grosso e calcolavamo che avremmo superato le due ore. Ma la Rai ci chiese di farne tre puntate da 50 minuti, come si faceva in quel periodo. Allora, per questa rielaborazione, intervenne un altro sceneggiatore siciliano: Nicola Badaluccio.”
La realizzazione e la circolazione di Bronte: Mario Gallo, il produttore
di Pasquale Iaccio[4]
“Nell'epoca d’oro del cinema italiano oltre alle “sette sorelle” americane, c'erano 15 noleggiatori italiani e un centinaio di produttori i quali, godendo di una sufficiente libertà, intercettavano le idee che nascevano in quel periodo, le facevano maturare dialogando con scrittori e registi, stabilivano contatti con altri produttori europei e contribuivano alla nascita e allo sviluppo di un fenomeno artistico e culturale apprezzato in tutto il mondo. Allora l'Italia possedeva un notevole patrimonio cinematografico, e c'era il terreno (un mercato abbastanza aperto) su cui poteva esprimersi. Voglio dire che non mancavano, come mancano oggi, le condizioni minime ed essenziali per dar vita ad una attività che consenti all'Italia di essere, dopo gli USA, il secondo paese esportatore di film. Purtroppo le situazioni favorevoli che hanno consentito di raggiungere simili traguardi, sì sono create, in gran parte, per una serie di circostanze fortuite e con la consapevolezza, spesso parziale, di una esigua minoranza. Tanto è vero che nessuno ha mai cercato e cerca di ricrearle e percorrere strade che non hanno uno sbocco. Questa succinta premessa è necessaria per capire come sia stato possibile realizzare un film come Bronte che, peraltro, costituiva un'eccezione anche nel panorama cinematografico del 1970, e perché oggi imprese del genere sono non solo ardue ma inimmaginabili. Sono stato sempre molto interessato ai problemi organizzativi, economici, produttivi e politici del cinema, ho diretto e prodotto alcuni documentari, ho esercitato la critica cinematografica, ma fino al 1964 non avevo mai pensato di cimentarmi nella produzione. Fu Florestano Vancini che m'indusse a prendere in esame questa eventualità quando mi parlò di un suo progetto, Le stagioni del nostro amore, che non riusciva realizzare come voleva. De Laurentiis era disposto a produrlo, ma alla condizione che non si parlasse di politica. Il soggetto del film, però, era la crisi politica di un intellettuale di sinistra che diventa anche crisi esistenziale. Senza la politica la storia d'amore tra l'inquieto protagonista e una brava ragazza sarebbe diventata un fumetto. Per di più la tesi politica non era ortodossa e la trasgressione non è stata mai perdonata a Vancini e al sottoscritto. Florestano ed io c'improvvisammo produttori. Costituimmo una società e andammo alla ricerca di un committente. Il progetto piacque a Renzo Ventavoli, un dirigente colto, intelligente della società di distribuzione Medusa. Il film fu realizzato con il minimo garantito del noleggio e un prestito che ci concesse la BNL dando in garanzia le nostre rispettive abitazioni. Le stagioni del nostro amore osteggiato dalla critica di sinistra, ebbe un buon successo di pubblico, vinse il premio della critica internazionale al Festival di Berlino e varcò anche i confini del nostro paese.
Critica di un film critico
Florestano Vancini: “il film storico”
di Pasquale laccio[5]
Dicevo a me stesso, ai collaboratori e agli operatori che avremmo dovuto girare il film dando la sensazione che in quell'estate del 1860 a Bronte ci fosse un misterioso cineoperatore che, non veduto, riprendeva quanto stava accadendo. Ho cercato di narrare i fatti così come sono risultati dalle ricerche e dai documenti raccolti. Certo, dando anche delle emozioni nel rapporto con un mondo di contadini che vivevano in condizioni assolutamente subumane. Abbiamo trovato un’ampia documentazione che dimostra cos'era la vita in Sicilia in quel momento. I fatti, poi, si svolgono nel giro di soli 2-3 giorni, tutto è molto convulso, drammatico, violentissimo e anche il film è girato in maniera rapida e convulsa, come quegli avvenimenti, con la macchina da presa sempre in movimento, in mezzo alla gente. Solo in quei pochi attimi in cui i personaggi sono perplessi o attoniti nel loro privato, c'è un momento di stasi nella dinamica del racconto e quindi anche nel modo della ripresa. È un film che, praticamente, ho girato senza carrello, non ho mai cercato l'inquadratura perfettamente ricostruita, elegante, equilibrata. Diciamo meglio: le inquadrature sono tutte costruite, ma con l'aria di fare una ripresa da cineattualità, di rappresentare gli avvenimenti mentre accadono [...] Per quanto mi riguarda, il film storico è un film che deve porre dei problemi, che deve guardare ad un certo periodo storico in maniera nuova, diversa. Non a caso La lunga notte del ‘43 è un film ambientato nella mia città, Ferrara, [...] ho assistito ad un episodio tremendo che fu anche il primo massacro commesso in quel periodo e che diede inizio alla Resistenza e alla guerra civile. Si tratta dell'uccisione di persone, assolutamente innocenti, avvenuta al centro di Ferrara. [...] Anche quell'episodio non l'ho affrontato in maniera celebrativa, l'ho trattato in modo problematico, con le domande che avevo cominciato a pormi fin da allora. Cioè che cosa ha significato e che cosa è stata la Resistenza e la guerra civile in Italia in quel periodo? Come il popolo italiano l'ha vissuta, fuori dalla celebrazione, dall'iconografia, dalla visione manichea di tutti buoni, tutti eroi e tutti malvagi. Gli stessi problemi sono presenti in un film, solo in parte storico, come Le stagioni del nostro amore. Siamo nel ‘66, racconta la crisi di un intellettuale comunista che ha vissuto l'esperienza della Resistenza nel Nord e che ripensa e rivisita questi momenti della gioventù. Li inquadra anche in maniera abbastanza critica per approfondire, per capire perché le cose sono andate in un certo modo. E così via fino al Delitto Matteotti, successivo a Bronte. In questo film affronto, non tanto l'episodio dell'uccisione di Matteotti da parte di una squadraccia fascista, che è narrato comunque. Ma il vero problema che mi pongo è perché avviene una crisi in Italia nel secondo semestre del ‘24.
Bronte: cronaca di ciò che i critici hanno raccontato
Da un lato i recensori di destra (capitanati dall'agguerrito Angelo Solmi) che accusarono il film di capziosità, quando non addirittura di falsità storica; sul fronte opposto alcuni critici marxisti (si veda, ad esempio, la posizione di Roberto Alonge su «Cinema Nuovo») che, identificando evidentemente nella figura dell'avvocato Lombardo la posizione di Vancini stesso, videro nella lezione storica di Bronte un esempio di “riformismo politico”. Vi furono, come ricorda Vancini, anche gli “indifferenti”, coloro che per abitudine o incapacità trattarono il film con sufficienza, occultando la problematicità tematica del film dietro il paravento estetico, ma non rappresentarono, per fortuna, la maggioranza. Buona parte dei recensori comprese il senso profondo dell'operazione vanciniana, e, sebbene costretta a far quadrato intorno al film per difenderlo dagli irrazionali strali dei conservatori, trovò comunque la forza per esprimere serenamente dei giudizi sui temi e i significati dell'opera. Vanno annoverati, a tal proposito, almeno gli scritti di Alberto Moravia, Jacques Nobécourt (inviato del quotidiano francese «Le Monde»), Mino Argentieri, Bruno Torri e Lino Miccichè. La copiosità di articoli, dibattiti e animate tavole rotonde che il film di Vancini fece registrare testimonia che l'opinione pubblica non rimase completamente indifferente di fronte alla forza d'urto sprigionata dalla rivisitazione storica dei “fatti di Bronte”; anche se la “querelle” brontina - che sfiorò talvolta la polemica spicciola - non si tradusse immediatamente in una spinta promozionale per il film. Gli attacchi della destra partirono dalle pagine del settimanale «Oggi» [Caro Vancini, Bixio non era nazista, «Oggi», n.21, 20 maggio 1972]. In una lettera aperta, Angelo Solmi, critico del rotocalco rizzoliano, accusò il regista di “lesa patria” e “demagogia elettorale”, sottolineando, altresì, di essersi “vergognato” di fronte alla rappresentazione di un Nîno Bixio “nazista”. l'articolo comincia così: «Caro Vancini, mi sono vergognato che un regista di tanta finezza stilistica e di tanta sensibilità abbia potuto porre il suo innegabile talento al servizio di un autentico falso storico, probabilmente per un'operazione demagogica preelettorale». La recensione di Solmi, in realtà poco articolata, si concentra intorno ad un generico, quanto sciovinistico, panegirico dell’eroe Bixio”, e lascia alquanto in ombra la questione estetica, limitandosi a ricordare ‘en passant’ che «Bronte in sé per sè, è tutt'altro che un film mal fatto». Tito Guerrini su «Umanità» [Tito Guerrini, “Bronte” di Florestano Vane, «Umanità», 30 maggio 1972], rincalzò la dose e accusò Bronte di superficialità ed eccessivo schematismo: "I contadini di Bronte convincono più per la loro passionale violenza (un po' alla “Western”) che non per le precise e intime ragioni che li inducono a comportarsi in un determinato modo. E poi c'è Nino Bixio che il regista dipinge, grosso modo, come un generale nazista. [...] Ritengo insomma, che Florestano Vancini abbia affrontato il problema, peraltro così interessante ed importante, con molta superficialità. Ma questa superficialità è probabilmente connaturata alla sua natura, è la “macchia” del suo indubbio talento registico. E il fatto che le sinistre, per puro gioco politico avvallino questa macchia, è quantomai sintomatico». Quasi tutte le recensioni apparse sulle pagine della stampa conservatrice e filogovernativa condivisero le accuse di "lesa patria” - sorte riservata precedentemente, ricordiamo, anche al Rosi di Uomini contro e al Monicelli de La grande guerra - e “demagogia elettorale”, ma i toni, per fortuna, non furono sempre triviali. Talune speculazioni critiche della destra moderata (quelle perimetrate nell’ambito del civile confronto di idee), per quanto opinabili, contenevano spazi esegetici comunque interessanti. Domenico Meccoli, ad esempio, su «Epoca» [Le lacrime di Nino Bixio e il sangue di Trotsky, «Epoca», n. 1128, 14 maggio 1972] partendo da un assunto di base secondo cui Bronte non sarebbe un racconto cronachistico, come vorrebbe invece far credere il titolo, definisce il film di Vancini un’opera costruita intorno ad una tesi classista e rivoluzionaria che «induce a me dilatare certi eventi della nostra storia dove è possibile scoprire, sia pure in parte, le ragioni del nostro presente. [...] In sintesi, con un vigore spettacolare che ricorda quello dell'opera prima di Vancini, La lunga notte del ‘43, il film vuole dire che i diseredati del Meridione, beffati di trasformismo delle classi dirigenti, incompresi e strumentalizzati, non avevano allora (e, si sottintende, non hanno
(...)
- ↑ Pasquale Iaccio, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, Liguori, Napoli, 2002, pp.1-3
- ↑ Giovanni Verga, Libertà, in “Novelle rusticane”, Treves, 1883
- ↑ Pasquale Iaccio, Cinema e storia. Percorsi immagini testimonianze, Liguori Editore, Napoli, 2000, p. 414 ss.
- ↑ Pasquale Iaccio, Bronte, cit., p. 59 ss.
- ↑ Pasquale laccio, Cinema e storia, cit., pp. 421 ss.