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==== Bronte: cronaca di ciò che i critici hanno raccontato ====
==== Bronte: cronaca di ciò che i critici hanno raccontato ====
Da un lato i recensori di destra (capitanati dall'agguerrito Angelo Solmi) che accusarono il film di capziosità, quando non addirittura di falsità storica; sul fronte opposto alcuni critici marxisti (si veda, ad esempio, la posizione di Roberto Alonge su «Cinema Nuovo») che, identificando evidentemente nella figura dell'avvocato Lombardo la posizione di Vancini stesso, videro nella lezione storica di Bronte un esempio di “riformismo politico”. Vi furono, come ricorda Vancini, anche gli “indifferenti”, coloro che per abitudine o incapacità trattarono il film con sufficienza, occultando la problematicità tematica del film dietro il paravento estetico, ma non rappresentarono, per fortuna, la maggioranza. Buona parte dei recensori comprese il senso profondo dell'operazione vanciniana, e, sebbene costretta a far quadrato intorno al film per difenderlo dagli irrazionali strali dei conservatori, trovò comunque la forza per esprimere serenamente dei giudizi sui temi e i significati dell'opera. Vanno annoverati, a tal proposito, almeno gli scritti di Alberto Moravia, Jacques Nobécourt (inviato del quotidiano francese «Le Monde»), Mino Argentieri, Bruno Torri e Lino Miccichè. La copiosità di articoli, dibattiti e animate tavole rotonde che il film di Vancini fece registrare testimonia che l'opinione pubblica non rimase completamente indifferente di fronte alla forza d'urto sprigionata dalla rivisitazione storica dei “fatti di Bronte”; anche se la “querelle” brontina - che sfiorò talvolta la polemica spicciola - non si tradusse immediatamente in una spinta promozionale per il film. Gli attacchi della destra partirono dalle pagine del settimanale «Oggi» [Caro Vancini, Bixio non era nazista, «Oggi», n.21, 20 maggio 1972]. In una lettera aperta, Angelo Solmi, critico del rotocalco rizzoliano, accusò il regista di “lesa patria” e “demagogia elettorale”, sottolineando, altresì, di essersi “vergognato” di fronte alla rappresentazione di un Nîno Bixio “nazista”. l'articolo comincia così: «Caro Vancini, mi sono vergognato che un regista di tanta finezza stilistica e di tanta sensibilità abbia potuto porre il suo innegabile talento al servizio di un autentico falso storico, probabilmente per un'operazione demagogica preelettorale». La recensione di Solmi, in realtà poco articolata, si concentra intorno ad un generico, quanto sciovinistico, panegirico dell’eroe Bixio”, e lascia alquanto in ombra la questione estetica, limitandosi a ricordare ‘en passant’ che «Bronte in sé per sè, è tutt'altro che un film mal fatto». Tito Guerrini su «Umanità» [Tito Guerrini, “Bronte” di Florestano Vane, «Umanità», 30 maggio 1972], rincalzò la dose e accusò Bronte di superficialità ed eccessivo schematismo: "I contadini di Bronte convincono più per la loro passionale violenza (un po' alla “Western”) che non per le precise e intime ragioni che li inducono a comportarsi in un determinato modo. E poi c'è Nino Bixio che il regista dipinge, grosso modo, come un generale nazista. [...] Ritengo insomma, che Florestano Vancini abbia affrontato il problema, peraltro così interessante ed importante, con molta superficialità. Ma questa superficialità è probabilmente connaturata alla sua natura, è la “macchia” del suo indubbio talento registico. E il fatto che le sinistre, per puro gioco politico avvallino questa macchia, è quantomai sintomatico». Quasi tutte le recensioni apparse sulle pagine della stampa conservatrice e filogovernativa condivisero le accuse di "lesa patria” - sorte riservata precedentemente, ricordiamo, anche al Rosi di Uomini contro e al Monicelli de La grande guerra - e “demagogia elettorale”, ma i toni, per fortuna, non furono sempre triviali. Talune speculazioni critiche della destra moderata (quelle perimetrate nell’ambito del civile confronto di idee), per quanto opinabili, contenevano spazi esegetici comunque interessanti. Domenico Meccoli, ad esempio, su «Epoca» [Le lacrime di Nino Bixio e il sangue di Trotsky, «Epoca», n. 1128, 14 maggio 1972] partendo da un assunto di base secondo cui Bronte non sarebbe un racconto cronachistico, come vorrebbe invece far credere il titolo, definisce il film di Vancini un’opera costruita intorno ad una tesi classista e rivoluzionaria che «induce a me dilatare certi eventi della nostra storia dove è possibile scoprire, sia pure in parte, le ragioni del nostro presente. [...] In sintesi, con un vigore spettacolare che ricorda quello dell'opera prima di Vancini, ''La lunga notte del ‘43,'' il film vuole dire che i diseredati del Meridione, beffati di trasformismo delle classi dirigenti, incompresi e strumentalizzati, non avevano allora (e, si sottintende, non hanno
di '''Vincenzo Esposito'''<ref>Vincenzo Esposito, in Pasquale Iaccio, Bronte, cit., p.29 ss.</ref>
 
Da un lato i recensori di destra (capitanati dall'agguerrito Angelo Solmi) che accusarono il film di capziosità, quando non addirittura di falsità storica; sul fronte opposto alcuni critici marxisti (si veda, ad esempio, la posizione di Roberto Alonge su «Cinema Nuovo») che, identificando evidentemente nella figura dell'avvocato Lombardo la posizione di Vancini stesso, videro nella lezione storica di Bronte un esempio di “riformismo politico”. Vi furono, come ricorda Vancini, anche gli “indifferenti”, coloro che per abitudine o incapacità trattarono il film con sufficienza, occultando la problematicità tematica del film dietro il paravento estetico, ma non rappresentarono, per fortuna, la maggioranza. Buona parte dei recensori comprese il senso profondo dell'operazione vanciniana, e, sebbene costretta a far quadrato intorno al film per difenderlo dagli irrazionali strali dei conservatori, trovò comunque la forza per esprimere serenamente dei giudizi sui temi e i significati dell'opera. Vanno annoverati, a tal proposito, almeno gli scritti di Alberto Moravia, Jacques Nobécourt (inviato del quotidiano francese «Le Monde»), Mino Argentieri, Bruno Torri e Lino Miccichè. La copiosità di articoli, dibattiti e animate tavole rotonde che il film di Vancini fece registrare testimonia che l'opinione pubblica non rimase completamente indifferente di fronte alla forza d'urto sprigionata dalla rivisitazione storica dei “fatti di Bronte”; anche se la “querelle” brontina - che sfiorò talvolta la polemica spicciola - non si tradusse immediatamente in una spinta promozionale per il film. Gli attacchi della destra partirono dalle pagine del settimanale «Oggi» [Caro Vancini, Bixio non era nazista, «Oggi», n.21, 20 maggio 1972]. In una lettera aperta, Angelo Solmi, critico del rotocalco rizzoliano, accusò il regista di “lesa patria” e “demagogia elettorale”, sottolineando, altresì, di essersi “vergognato” di fronte alla rappresentazione di un Nîno Bixio “nazista”. l'articolo comincia così: «Caro Vancini, mi sono vergognato che un regista di tanta finezza stilistica e di tanta sensibilità abbia potuto porre il suo innegabile talento al servizio di un autentico falso storico, probabilmente per un'operazione demagogica preelettorale». La recensione di Solmi, in realtà poco articolata, si concentra intorno ad un generico, quanto sciovinistico, panegirico dell’eroe Bixio”, e lascia alquanto in ombra la questione estetica, limitandosi a ricordare ‘en passant’ che «Bronte in sé per sè, è tutt'altro che un film mal fatto». Tito Guerrini su «Umanità» [Tito Guerrini, “Bronte” di Florestano Vane, «Umanità», 30 maggio 1972], rincalzò la dose e accusò Bronte di superficialità ed eccessivo schematismo: "I contadini di Bronte convincono più per la loro passionale violenza (un po' alla “Western”) che non per le precise e intime ragioni che li inducono a comportarsi in un determinato modo. E poi c'è Nino Bixio che il regista dipinge, grosso modo, come un generale nazista. [...] Ritengo insomma, che Florestano Vancini abbia affrontato il problema, peraltro così interessante ed importante, con molta superficialità. Ma questa superficialità è probabilmente connaturata alla sua natura, è la “macchia” del suo indubbio talento registico. E il fatto che le sinistre, per puro gioco politico avvallino questa macchia, è quantomai sintomatico». Quasi tutte le recensioni apparse sulle pagine della stampa conservatrice e filogovernativa condivisero le accuse di "lesa patria” - sorte riservata precedentemente, ricordiamo, anche al Rosi di Uomini contro e al Monicelli de La grande guerra - e “demagogia elettorale”, ma i toni, per fortuna, non furono sempre triviali. Talune speculazioni critiche della destra moderata (quelle perimetrate nell’ambito del civile confronto di idee), per quanto opinabili, contenevano spazi esegetici comunque interessanti. Domenico Meccoli, ad esempio, su «Epoca» [Le lacrime di Nino Bixio e il sangue di Trotsky, «Epoca», n. 1128, 14 maggio 1972] partendo da un assunto di base secondo cui Bronte non sarebbe un racconto cronachistico, come vorrebbe invece far credere il titolo, definisce il film di Vancini un’opera costruita intorno ad una tesi classista e rivoluzionaria che «induce a me dilatare certi eventi della nostra storia dove è possibile scoprire, sia pure in parte, le ragioni del nostro presente. [...] In sintesi, con un vigore spettacolare che ricorda quello dell'opera prima di Vancini, ''La lunga notte del ‘43,'' il film vuole dire che i diseredati del Meridione, beffati di trasformismo delle classi dirigenti, incompresi e strumentalizzati, non avevano allora (e, si sottintende, non hanno oggi) altro modo di risolvere il problema della loro miseria se non con l'acquisizione della coscienza di classe e col rifiuto di un ingannevole riformismo. La tesi è abilmente sostenuta attraverso il fallimento dell'opera dell'avvocato Lombardo». Meccoli, proseguendo nel suo parallelismo tra i “fatti di Bronte” e i “fatti del ‘72” definisce, inoltre, il film «capzioso» perché nella sconfitta finale dell'avvocato Lombardo vi si riscontrerebbe anche «una constatazione che il capo dei carbonai non aveva torto nel prevedere che i ‘galantuomini’ avrebbero trovato la protezione delle baionette garibaldine. Il discorso è ovviamente capzioso. Identifica - tema dei nostri giorni - l'ordine con la repressione». L'articolo di Meccoli trova, paradossalmente, la sua speculare controparte nelle pagine di «Cinema Nuovo» [Roberto Alonge, Una tragedia riformista tra storia e politica, «Cinema Nuovo», n. 222, a. XXII, marzo-aprile 1973, p.16]. Sulla rivista di cultura marxista diretta da Guido Aristarco, Roberto Alonge — partendo ovviamente da posizioni politiche diametralmente opposte a quelle del critico di «Epoca», e, va detto, facendo sfoggio anche di un ben altro rigore interpretativo — arriva a conclusioni “parallelamente convergenti”. Alonge ritiene che Bronte nasconda dietro l'apparenza storica una sostanza politica: «il discorso sul passato lascia intravedere il discorso sul presente, sull'oggi», e, proseguendo sullo stesso binario di Meccoli, intravede nella dicotomia passato-presente la volontà di Vancini di riproporre in chiave polemica il dibattito attuale sulla legalità borghese, il concetto equivoco di libertà e l’uso della violenza. Ma, per il critico, l'esito a cui giunge il regista è «quello polemico del movimento operaio ufficiale verso le avanguardie della sinistra di classe». Per Alonge il discorso che emerge dal film è chiarissimo: «È il rifiuto della violenza, il rifiuto di distinguere violenza che opprime da violenza che libera. [...] L'uomo che nel prologo aveva picchiato il villano e il figlio, è costretto a subire la legge del “contrappasso”: braccato a sua volta nei campi, gettato a terra, spinto a raccogliere delle fascine, e quindi ammazzato con il calcio del fucile. [...] È la nemesi: la vittima di ieri diventa carnefice, e il carnefice diventa la vittima di oggi». Per il recensore di «Cinema Nuovo» la scelta politica di Vancini è racchiusa, chiaramente, nel ritratto a tutto tondo dell'avvocato Lombardo, nell'esaltazione del suo ruolo politico. «Vancini vede in Lombardo non già colui che frena e disarma la violenza rivoluzionaria, ma l'accorto dirigente stretto, a destra, dalle forze reazionarie, e, a sinistra, dall'avventurismo irresponsabile di Gasparazzo. In questa prospettiva lo stesso scappare sui monti di Gasparazzo si connota come vigliaccheria». Il Gasparazzo vanciniano rappresenterebbe, quindi, l'estremista sobillatore che al momento opportuno pensa solo a salvare la propria pelle, colui che spinge «la classe operaia su posizioni estremiste, di rottura, salvo abbandonarla a se stessa nel momento dello scontro. Sicché riproporre la vicenda di Bronte oggi, in questo preciso momento dello scontro di classe - riproporla in questo modo - ha un significato che non può che essere riformistico. Bronte è il fallimento di una classe contadina gettata allo sbaraglio da una dirigenza estremista e irresponsabile che non sa costruire una prospettiva politica vincente, al di là dello scatenamento momentaneo, della devastazione omicida; è il circolo vizioso degli “opposti estremismi”». La teoria degli “opposti estremismi” compare anche in un lungo saggio di Zambetti apparso su «Cineforum» [Vancini: Bronte, cronaca di un massacro, «Cineforum», n. 119, 1973]. Dopo aver lamentato la mancanza di una analisi approfondita del livello di coscienza di classe raggiunto dalle masse, e dopo aver altresì stigmatizzato l'assenza nel film di figure adeguatamente rappresentative del mondo contadino dell'epoca - carenze che peserebbero fino al punto di accentuare «il carattere istintivo della rivolta, facendola percepire come una semplice esplosione di furore non sorretta da una qualsiasi presa di coscienza» - il recensore crede di ravvisare nel Bronte di Vancini l'ombra degli “opposti estremismi”. «Gasparazzo finisce con l'apparire come un elemento anomalo e astratto, che fa pensare alla sinistra extraparlamentare e, in genere, a tutti coloro che si azzardano ancora a parlare di lotta di classe, così come sono presentati dalla stampa borghese (e non solo borghese): un avventurista che pesca nel torbido, magari in buona fede, ma totalmente ignaro di realpolitik, imbevuto di terie incomprensibili [....) e ciecamente portato alla violenza per la violenza. Chei fatti, alla fin fine, diano ragione a lui, è cosa su cur il film non richiama sufficientemente l'attenzione, dato che Gasparazzo è ormai scomparso dalla scena, mentre vi campeggia, sempre più dominante, per l'aureola stessa del sacrificio a cui va nobilmente incontro, la figura di Lombardo, contrapposta a quella di Bixio: ci vuol poco, a questo punto, per tirar fuori la teoria degli opposti estremismi (anche Bixio è un cattivo che ha il suo buono nel colonnello Poulet, come Lombardo è il buono rispetto a Gasparazzo e ai contadini assetati di sangue) e ad innalzare sui rispettivi massacri estremistici (quello dei quindici galantuomini uccisi dai contadini e quello dei cinque fucilati da Bixio) il monumento all'equilibrato buonsenso riformistico ed alla costruttiva centralità democratica». Nel variegato scacchiere ideologico della critica cinematografica italiana di sinistra le posizioni di Alonge e Zambetti occupavano l'ala più estrema, quella vicina alla cosiddetta “Sinistra extraparlamentare”, e si discostavano notevolmente dalle posizioni della “sinistra ufficiale” (sempre ammesso che tali espressioni avessero, anche allora, un senso). Mai loro scritti, pur non prestandosi al gioco della stampa reazionaria, finivano inevitabilmente per sacrificare sull'altare del radicalismo un film arduo e complesso, quasi unico nel panorama cinematografico italiano. Le loro analisi, come quella di Meccoli su «Epoca» del resto, danno per scontato che la posizione dell'avvocato Lombardo coincida con quella dell'autore. A questo proposito Callisto Cosulich [La missione maledetta, «ABO», 28 aprile 1972] è ancora più esplicito: «È evidente che le simpatie dell'autore vanno al Lombardo, cioè al mediatore tra le classi in lotta. Non sembra neppure sfiorano l'ipotesi che sia stato proprio il Lombardo, convincendo gli insorti a deporre le armi e a fraternizzare coi garibaldini, il maggior responsabile del fallimento della rivolta». Per costoro, insomma, il film di Vancini è un'opera ideologica e non fenomenologica; un'opera in cui la dialettica tra l'oggettivo (il dato storico rappresentato) e il soggettivo (l'interpretazione dei fatti) non maschera l'intento ideologico dell'autore (riformistico per Alonge e Zambetti, rivoluzionario per Meccoli). Così facendo, però, non rilevano la vera novità, dettata dalla cifra stilistica & film, che risiede nell'aver saputo ridare al “film storico, una linea oggettiva, nella migliore tradizione rosselliniana, È questa l'interpretazione di Bruno Torri. Su «Mondo Operaio» [I fatti di Bronte e il film storico, «Mondo Operaio», n.5, maggio 1972] il recensore vede nel film di Vancini la consacrazione del primato rosselliniano della «fenomenologia» sulla «ideologia», cioè dei «fatti interni» sui «valori esterni». Prima di giungere ad una analisi diretta dell'opera, Torri traccia succintamente una definizione del “film storico”, nell'intento di far risaltare i valori artistici di Bronte. L'articolista non ricorre a concetti astrati ma ad esempi concreti: due esempi che, a suo avviso, sembrano idonei, anche per le loro alte qualità artistiche, a caratterizzare, e a distinguere il “film storico”. «Questi film sono La marsigliese di Renoir e La presa del potere da pare di Luigi XIV di Rossellini. L'uno e l’altro portano sullo schermo fatti storici realmente accaduti. [...] Ciò che li accomuna è lo stesso atteggiamento, etico ed estetico, di fedeltà alla realtà storica. Ciò che li distingue è la diversa posizione ideologica verso gli argomenti trattati. Renoir, negli anni del Fronte Popolare, ripropone alcuni episodi della Rivoluzione francese non tanto per celebrare una epopea quanto per fissare una continuità tra il 1789 e il 1936, tra due momenti di lotte sociali che vedono il popolo (il progresso) vittorioso su chi lo opprime e lo minaccia (la reazione). Il regista francese cerca nella storia di ieri una lezione ancora attuale e la comunica. [...] Rossellini tende invece, nel suo film, ad una oggettività assoluta; in quanto autor mira a dare una piena credibilità e verosimiglianza alla narrazione, ma senza manifestare la propria posizione soggettiva, anzi sforzandosi di far apparire l'opera tutta fatta dal di dentro, tutta chiusa in sé. Tendenzialmente (e schematicamente), l'opera di Renoir è storico-militante; quella di Rossellini storico-didattica: Renoir prende, e spinge esplicitamente a prendere partito; Rossellini, raccoglie, e spinge implicitamente a usare “documenti”». Secondo il critico di «Mondo Operaio» il film di Vancini segue prevalentemente la linea rosselliniana, perché non indirizza univocamente il giudizio dello spettatore, ma ricerca e testimonia la verità delle situazioni e degli accadimenti’. Anche Alberto Moravia, dalle colonne de «L'Espresso», riconobbe all'opera di Vancini il pregio dell'oggettività [... vedi articolo riportato]. Le peculiarità del discorso storico-politico vanciniano emergono ulteriormente dalle analisi di altri due noti critici di sinistra quali Miccichè e Argentieri. Più inclini a leggere nell'opera di Vancini gli inizi di un itinerario rivoluzionario mancato che non gli esiti di un'opera controrivoluzionaria (come fanno invece Alonge e Zambetti), i recensori si premurano innanzitutto di integrare l’opera di Vancini nella tradizione storiografica gramsciana [... vedi articoli riportatati]. La tesi [...] è in qualche modo suffragata da alcune dichiarazioni rilasciate dallo stesso Florestano Vancini al giornale romano «Il messaggero», raccolte da Costanzo Costantini [30 giugno 1972]. Nell'articolo il regista respinge innanzitutto il giudizio dei critici secondo cui egli avrebbe rivisto l'episodio di Bronte alla luce della problematica politica contemporanea, e in particolar modo entro lo schema “riformismo-rivoluzione”, includendo nel riformismo anche il Partito Comunista e riservando la rivoluzione alla sinistra extraparlamentare”, giacché, ricorda Vancini, «il film l'ho scritto dieci anni fa, quando la sinistra extraparlamentare non esisteva». Poi, incalzato dall'interlocutore, l'autore di Bronte afferma che lungi dall'essere una metafora sulla situazione politica attuale, il suo film contiene semmai delle enucleazioni sulle origini della politica della repressione che si proiettano inevitabilmente su un orizzonte storico-sociale che arriva fino alle soglie dell'attualità. «Da Bronte prende avvio una politica che si svilupperà nei decenni successivi sino ai nostri giorni. È la politica dei governi nazionali nei confronti del Sud: il Sud visto come terra di conquista, in senso coloniale. È la politica della repressione che a Bronte viene posta in atto dai garibaldini ed in seguito dai governi che avevano combattuto il garibaldinismo». Il film di Vancini fu accolto favorevolmente anche da alcuni quotidiani del Mezzogiorno [...] Su «Il Mattino», infatti, de Tiberiis [Bronte e le vestali del mito: la cronaca di un massacro diventa un caso di cultura, «Il Mattino», 22 giugno 1972] .scrive: «A me è sembrato uno spettacolo ottimo, scarno, teso, e soprattutto aderente alla verità. E un lavoro che non si liquida respingendolo fra la paccottiglia aneddotica del genere degli scritti di de Sivo, di Buttà, di Acton e forse anche del mio Ulloa nelle sue pagine peggiori: né tanto meno attribuendogli un'etichetta politica, perché, qualsiasi sia la fazione per la quale si militi, un fatto, una verità restano saldi e fermi. [...] Vancini non impone nuovi miti, retoriche populiste, agiografia con segno mutato. Segue sì una cronaca, quella del Radice. Ma non bisogna dimenticare che fra le fonti riportate nel film - perché Bronte è l'unico lavoro cinematografico con una sua bibliografia - vi è per prima Gli atti del processo di Bronte documento ufficiale e non di parte». Voglio, infine, chiudere questa rassegna di critica cinematografica passando dallo sguardo, per così dire, particolare di un meridionale a quello più distaccato (almeno dal punto di vista strettamente politico) di uno “straniero in Italia”. La recensione di Jacques Nobécourt, corrispondente italiano del prestigioso quotidiano francese «Le Monde», contiene a mio avviso una sintesi esemplare, per lucidità intellettuale e competenza culturale, dei valori universali di un’opera che con la sua perfetta osmosi tra forma e contenuto riesce a trascendere il fatto storico e a elevarsi sul piano della testimonianza umana [... vedi articolo riportatati].
 
==== Alberto Moravia<ref>Il pane sulla punta delle baionette, “L'Espresso”, 7 mag 1972; ora in Id., Al cinema. Centoquarantotto film d'auto, Bompiani, Milano, 1975.</ref> ====
{--] Ora già nel titolo c'è la contraddizione feconda a cui, in fondo, il film deve la sua forza. Qual è questa contraddizione? E il fatto che Vancini e i suoi collaboratori Leonardo Sciascia, Fabio Carpi e Nicola Badalucco hanno voluto fare un film “storico” per quanto riguarda il metodo: ricerca accurata delle fonti, scrupolo di oggettività, ricostruzione fedele dell'ambiente; ma, al tempo stesso, “antistorico” cioè contro la storia: così quella agiografica dei libri di scuola come quella “seria” degli storici di professione. Insomma il film è storico nei mezzi e “antistorico” nel fine. E propone una storia vera, popolare e rivoluzionaria, contro la storia falsa della libertà formale e dell'oppressione reale. Ma perché la cronaca diventi storia, ci vuole la rivoluzione che invece non c'è stata né allora nè dopo. Così, alla fine, quando tutto è stato detto, l'episodio di Bronte rimane fuori della storia, in quella zona moralistica magari più elevata in cui vengono denunziate l'ingiustizia, la malvagità, la corruzione, la menzogna. Appunto questa denunzia, che si configura come critica della storia ufficiale, costituisce la forza del film di Vancini. A questo punto però verrebbe fatto di domandarsi se è possibile una storia che non sia fatta e soprattutto scritta dal potere, prima negli archivi poi nei libri di scuola e finalmente nei testi degli storici. Immaginiamo un momento che venga la rivoluzione e recuperi alla storia il fatto di cronaca di Bronte. Chi potrebbe garantirci che i libri di scuola e magari anche il cinema non ne parlerebbero in maniera agiografica e edificante? Vancini e i suoi collaboratori hanno cercato di evitare l'agiografla con una proposta di rilancio neorealista che è anche, però, il limite del film. Semmai la novità e il pregio di Bronte sta nell'ambizione, come abbiamo già accennato, “storica”, in cui bisogna riconoscere l'influenza di Leonardo Sciascia e del suo moralismo pessimista nutrito di letture e di ricerche di archivio. A quest'ambizione si deve il piglio secco ed energico del film, l'assenza della retorica dei sentimenti e delle idee. Ma, curiosamente, il film è tanto più sentito e personale quanto più si studia di essere fedele alle fonti. Mentre diventa impersonale in senso veristico dove la ricostruzione, per forza di cose, è lasciata all'immaginazione. Così la seconda parte, quella della repressione del generale Bixio, nella quale i personaggi si esprimono con le parole stesse riportate nei documenti dell’epoca, ci sembra superiore alla prima, in cui, senza documenti e forse con eccessiva semplificazione, è descritta la ferocia contadina [...]
 
==== Lino Micciché<ref>Bronte, “Avanti!”, 28 maggio 1972; riscritto per Il cinema italiano degli anni ‘70. Cronache 19681 Marsilio, Venezia, 1980</ref> ====
Dal 1930 al 1970 la cinematografia italiana ha realizzato (senza considerare le coproduzioni “minoritarie”) qualcosa di più di 4.300 film di lungometraggio. Tra la predominante paccottiglia, poco più poco meno di duecento titoli potrebbero figurare in una storia del cinema italiano sonoro che fosse sufficientemente diffusa e generosa da soffermarsi anche sui minori e sui minimi. Ma, se invece si volesse soltanto considerare il “film storico” — operando evidentemente una netta distinzione con il “film in costume — basterebbero le dita di una mano: ''1860'' di Alessandro Blasetti (1934), ''La pattuglia sperduta'' di Piero Nelli (1954) ''Senso'' di Luchino Visconti (1954), ''Viva l'Italia'' di Roberto Rossellini (1961), ''Il gattopard''o di Luchino Visconti (1963). Cinque film e alcuni tra essi tutt'altro che capolavori. Nient' altro o quasi. Spiegazioni? Poche e semplici. Prima, sotto la dittatura mussoliniana, i “film storici” erano soltanto “film in costume” e quando “storiografavano” era in pieno ossequio alle distorsioni interpretative della “dottrina” fascista. Ci sarebbe da morire dal ridere oggi a rivedere taluni di quegli esemplari di storia patria, se dietro le mistificazioni di cartapesta non si nascondessero le ben più tragiche verità del regime. Poi, nel primo dopoguerra, la fase di realtà immediata dapprima e quindi talune assolutizzazioni teoriche del “neorealismo” — per cui sembrava rinunciatario qualsiasi sguardo retrospettivo — esclusero la Storia dagli schermi. Quando nel secondo dopoguerra vi sì cimentarono cineasti come Nelli o Visconti, il film del primo sparì dalla circolazione appena uscito e il capolavoro del secondo portò un oscuro sottosegretario democristiano a esclamerei indignato: “Hanno infangato anche il Risorgimento!”. Si aggiunga che, per quanto esortati alla storia, gli italiani non sembrano esservi particolarmente inclini neppure a livello della storiografia scritta. Mentre c'è voluto uno storico inglese, Mack Smith, per risvegliare i nostri interessi storiografici nei confronti del Risorgimento, nelle patrie scuole si continua a insegnare, con poche varianti, che Garibaldi disse a Bixio “Qui o si fa l'Italia o si muore” e che a Teano il Generale caracollò verso Vittorio Emanuele II dicendo “Saluto il Re d'Italia” e che questi rispose “Saluto chi l'ha fatta”; Cavour, a Torino, meditava intanto il nostro bene. Cosi abbiamo soltanto cinque “film storici” (o poco più se ci aggiungiamo ad esempio, ''La grande guerra'' di Monicelli e ''Uomini contro di Rosi'', che però riguardano periodi più recenti). Se ne aggiunge ora un sesto: ''Bronte'' di Florestano Vancini, significativamente sottotitolato Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. Già perché, se per rompere il muro di silenzio sulla repressione attuata dai “garibaldini” nei confronti del proletariato e sottoproletariato siciliano nel 1960 fu necessario attendere che nel 1910 un professore siculo, Benedetto Radice, scrivesse su una rivista siciliana una monografia intitolata Nino Bixio a Bronte, l'omertà storiografica continuò per più di mezzo secolo ed è soltanto nel corso degli anni ‘50 che la verità ha cominciato a farsi strada, pur diffondendosi soltanto tra gli addetti ai lavori e i non molti loro lettori. Sarebbe interessante sapere a chi e a cosa hanno creduto che alludesse la novella La libertà di Giovanni Verga, i lettori che essa ha avuto dal 1882 in giù. A dire il vero, il Verga, monarchico e crispino a oltranza, non si discosta affatto nel suo racconto dalla linea storiografica ufficiale. “Anche il lupo allorché capita affamato in una mandria, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia” egli scrive dei rivoltosi di Bronte, nella citata novella. E, più sotto, descrivendo il massacro dei “capeddi” con toni assai più accesi di quanto in effetti fu, e seguendo in questo le false cronache del “liberale” Giuseppe Guerzoni: “Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente”. Ma anche il Verga sfiora il vero quando, descrivendo in chiusura della novella lo stupore attonito del carbonaio che, dopo il processo durato tre anni nella “città” (cioè, storicamente a Catania) viene rimesso in ceppi, gli fa dire: « Dove mi conducete? In galera? o perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà! ...”. E in quei puntini di sospensione finali stanno forse e l'inconscio verghiano, assai meno crispino della sua coscienza, e una delle chiavi interpretative dell'episodio. Ai fatti di Bronte, appunto, ignorata pagina fondamentale della moderna “questione meridionale”, Florestano Vancini ha dedicato il suo ultimo film: un antico progetto che già fu del suo produttore, Mario Gallo, poco dopo il ‘60, e che egli ha potuto realizzare lo scorso anno su una sceneggiatura cui hanno lavorato, oltre al Vancini stesso, Nicola Badalucco, Fabio Carpi e Leonardo Sciascia. Quello che è senza dubbio alcuno il migliore film del regista ferrarese — e anche uno dei pochi e dei più significativi “film storici” italiani, cinque, o dieci, o quindici che essi siamo — è stato tutto interamente costruito sulla base di una ineccepibile documentazione (citata come una bibliografia nei titoli di coda del film: un inedito indice di serietà scientifica), a cominciare dagli atti del processo di Bronte del 9 agosto 1860 [...]. Gli autori non hanno ceduto né alla tentazione di stilizzare il racconto, né a quella di frammentarlo, costruendolo in flashback a partire dal processo. Il film ha probabilmente pagato questa rinuncia sul piano strettamente estetico (la relativa lentezza della prima parte), ma ne ha indubbiamente guadagnato sul piano di un necessario didascalismo storiografico. Il racconto si avvia e prosegue dunque orizzontalmente, dopo una breve premessa che vale a definire le condizioni sociali di Bronte (un poveraccio viene bastonato a sangue assieme al proprio figlioletto 6 sorpreso a rubare legna), lungo le brucianti giornate tra il 3 e il 10 agosto 1860 in cui si svolsero i fatti [...]. Inizia così l'irrisolto dramma del meridione italiano che né il famigerato prefetto Mori in tempo fascista, né la Cassa per il mezzogiorno in periodo repubblicano hanno saputo positivamente risolvere. Vancini e i suoi collaboratori hanno bene inteso il valore emblematico — e storico — dei “fatti di Bronte” e li hanno infatti restituiti nella loro crudezza e nella loro dialettica con uno scrupolo che, anche in questo caso, può forse avere privato il film di qualche impennata stilistica, ma gli dà per altro un notevolissimo valore storiografico. Semmai essi hanno insistito, parcamente ma percepibilmente, su due punti: la funzione sottile e determinante che ebbe sull'intera vicenda la vicinanza della ducea britannica, di cui hanno sottolineato la gattopardesca lungimiranza e il piano di potere che andava ben oltre Bronte; l'alternativa dialettica Lombardo/Gasparazzo, che, in termini attuali, potrebbe essere definita l'alternativa tra riforme e rivoluzione. Su tutto si riaffaccia l'interpretazione comune alla più intelligente storiografia risorgimentale, e già di Gramsci, del Risorgimento italiano come “rivoluzione tradita”, ovvero come sovvertimento politico cui fu artatamente e militarmente impedito di divenire sovvertimento sociale. Mentre è fin troppo ovvio che l'atteggiamento degli autori — e degli spettatori che lo sappiano cogliere — emblematizza in quella grande speranza ottocentesca le altre e più recenti speranze di chi ottantacinque anni dopo, come l'avvocato Lombardo e i contadini di Bronte, non voleva soltanto mutare regime, sia pure ponendo fine a quello atroce della dittatura fascista, ma voleva mutare società. Si potrebbe scrivere a lungo del film di Vancini ed è indubbio indice del suo apporto alla crescita di una coscienza storica che vengano in mente per ultime le considerazioni di natura più strettamente cinematografica. Gli autori si trovavano di fronte un dio corale con pochi ma salienti protagonisti (...) la massa quale protagonista primaria. L'equilibrio tra questi due elementi cosi contrastanti era estremamente difficile ed essi sono riusciti a realizzarlo. Gli autori dovevano altresì dosare la rievocazione vera e propria dei fatti quella necessaria e inevitabile “coscienza del poi", un senso agli eventi storici. A questo hanno raggiunto lo scopo, aiutandosi con (...)  e con un forse lieve eccesso soltanto nel sovraccarico musicale di canzoni “popolari” (per altro assai belle) nella prima parte. Avendo poi a che fare con una piccola (...), dovevano risolvere un problema scenografico non indifferente: ricostruire in modo plausibile, ma leziosaggini figurative e preziosismi archeologici ebbero finito per distogliere l'attenzione dal vero obiettivo. Sono riusciti tutto sommato anche in questo, pure se con occhio attento risulta abbastanza evidente l'orizzonte siciliano della vicenda sottolineato dai volti degli attori jugoslavi (per altro molto bravi). L'operazione è dunque nel complesso nettamente positiva e questo film andava obbligatoriamente proiettato nelle scuole. Perché ad un secolo dall'unità di Italia il vero senso della mar “mille gloriosi guerrieri” a risalire lungo lo “stivale" ancora tutto da definire.
 
==== Mino Argentieri ====
Alcuni recensori che scrivono su giornali di destra si sono risentiti per Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. La loro reazione era prevedibile: ogniqualvolta un regista si appresti a rivedere le bucce delle glorie nazionali, il men che gli avvenga è di essere accusato di lesa patria. E' capitato a Monicelli e a Rosi, rispettivamente per La grande guerra e per Uomini contro; capita adesso a Florestano Vancini, che e andato a spulciare un episodio poco noto della spedizione dei Mille. Il Risorgimento è intoccabile, brontolano i conservatori, di Garibaldi non è lecito “dir male” [...]. Dunque, sarebbe riprovevole tangere Bixio perché i monumenti devono essere protetti e, visto che il garibaldino in ballo era il braccio destro del generale, guai a gettar ombra tramite la sua persona sul biondo esule di Caprera, immortalato nel mito e maltrattato nella realtà dai Savoia che di lui si valsero per poi cacciarlo in disparte. Eppure il mito, procura più torti che rispetto ai suoi soggetti, mummificando Garibaldi nei panni di un generoso, politicamente ingenuo e gabbabile con facilità, e insaccando Bixio nella divisa di un personaggio salgariano; laddove l'uno fu un individuo che visse e soffrì le contraddizioni del Risorgimento e mostrò spesso un realismo ignoto all’apostolo Mazzini, e l’altro non ebbe mai spalle per sollevarsi dal rango dei fegatacci adusi all'obbedienza e all'enfasi. Nel suo film, di Garibaldi Vancini non parla, né bene né male. Piuttosto ci si ricorda che il dittatore della Sicilia, subito dopo lo sbarco, promise che le terre del demanio sarebbero state assegnate a chiunque avesse combattuto per l'unità d’Italia. Non appelli retorici erano stati lanciati, ma promesse che attenevano al problema del consenso popolare alla lotta per l'unificazione nazionale. Come si sa, da cosa non nacque cosa. Furono i ricchi proprietari, i voltagabbana servitori fedeli dei Borboni, rapidamente convertitisi, ad armeggiare per ricavar profitto dalla nuova congiuntura, e ai braccianti ingannati non rimase che lasciar esplodere l'ira aggrumatasi, mandando a morte crudele gli esponenti del privilegio trionfante. Accadde a Bronte un massacro e anche altrove si ebbero sollevazioni e rivolte, su cui gli storici della borghesia hanno preferito sorvolare e che i cronisti garibaldini (i più accessibili alle svogliate letture scolastiche) hanno rappresentato con parzialità. Non a caso, ancora oggi si invocano le testimonianze dell'Abba, che dei Mille fu cronista inattendibile, nel senso che si diede a trasfigurare i contorni di quelle imprese e guardò attorno a sé disposto al canto, non a uno spassionato resoconto. [...] Verga, nella novella Libertà, andò a ripescare gli avvenimenti di Bronte e ne ritagliò una versione letteraria, di cui opportunamente Leonardo Sciascia ha contestato la veridicità storica e l'angolazione. A riequilibrare la bilancia non concorsero davvero gli studiosi borghesi del Risorgimento; ma a riprendere in mano le pagine di Bronte si misero più tardi studiosi locali come Benedetto Radice, che ebbero la pazienza di ricostruire l'episodio taciuto e dimenticato, ricomponendolo pezzo a pezzo sulla traccia di polverosi documenti di archivio. A quest'opera di ricostruzione, integrata negli anni, si ricongiunge il film di Vancini, che non romanza la cronaca ma vi si conforma con scrupolosa 0ggettività. Ancor prima di assumere un valore cinematografico, l'operazione acquista una fisionomia culturale nella misura in cui è intenta a ristabilire la verità e a socializzarla e a diffonderla in un paese ove la storia del Risorgimento non la si conosce ovvero è percepita, al livello delle moltitudini, sul piano ingannevole, emotivo e semplicistico della leggenda. In questa circostanza il cinema più che scoprire divulga e s‘incammina nei campi arati da scrittori e Saggisti îtaliani, per non aggiungere all'elenco lo storico inglese Denis Mack Smith che ha fornito il suo apporto alla esplorazione critica dei nostri trascorsi meno remoti. Ma divulga intanto non per amore dell'aneddotica e dell'archeologia bensì per riaprire la meditazione sul passato sicché la comprensione di esso lumeggi l'odierna esperienza, Affinché, insomma, non si proceda soltanto alla ricerca delle nostre radici ma si colgano i gangli di una conflittualità sociale che perdura e promana da vicende che appartengono alla memoria collettiva. La scelta del “fattaccio di Bronte” e il suo giusto inquadramento sono, anzi, duplice faccia di una cultura che riconsidera la enucleazione dello Stato unitario nel solco tracciato dalle classi lavoratrici e dalle idee socialiste. Si capisce pertanto il livore dei recensori reazionari, che confutano, insieme con il film di Vancini, la storiografia democratica. Costoro, ammettiamolo, cadendo nella provocazione, hanno lo sguardo lungo e il loro presunto patriottismo ferito non abbagli. Se Vancini e i numerosi autori ai quali il regista si è ispirato si fossero limitati a ribaltare uno schema e a rovesciare le tasche della mitologia risorgimentale, forse i protestatari non avrebbero avuto ragione di lamentarsi e di versar lacrime miste a fremiti di indignazione. La denuncia della “conquista regia”, che portò alla aggregazione delle regioni meridionali, non li turba finanche nell'emergere di una episodica spinosa. Non si spiegherebbe altrimenti perché ci si indigni di fronte al Bronte di Vancini e si ignorino invece i capitoli che l'ultimo libro di Carlo Alianello riserva alle nefandezze commesse dagli eserciti liberatori e dalle autorità piemontesi nel Sud. Ma la suscettibilità segue pur essa le regole della convenienza politica, e a decifrarne l'apparente bizzosità ci orienta il volume da noi menzionato, che non è parco di sconcertanti documentazioni. Alianello demitizza non meno di Vancini, e su scala di gran lunga più panoramica; ma lo legittima, a smorzare gli ardori della pubblicistica patriottarda e tradizionale, un punto di vista proteso alla riabilitazione dei Borboni e del regno delle due Sicilie. Lo legittima, è ovvio, agli occhi di coloro che bollano Vancini e gli storici democratici, i quali si addentrano in un'analisi inconcepibile se non lungo la scia di ripensamenti dettati dall'esistenza del movimento operaio. Ed è questo elemento specifico - una valutazione non soltanto in classisti del Risorgimento, ma che si situa sul versante, le classi sfruttate - che essi condannano e rigetta, risiede “lo scandalo” e la novità effettiva di un discorso che nel cinema italiano qualcuno aveva iniziato ed è stato subito interrotto. Visconti vi fece cenno, in Senso, riferendosi a una rivoluzione incompiuta ai suoi albori e timorosa del concorso popolare; e successivamente ribadì il concetto con Il gatto avvinto abbastanza al testo di Lampedusa per non su: il fondamentale antistoricismo e le suggestioni decadentistiche e l'afflato nostalgico, ma anche provviste del minimo distacco necessario a chiarire che non di aborto e di un mero cambio della guardia s'era trattato nell'avvicendarsi delle classi dirigenti, bensì di una rivoluzione tradita. Vancini, rievocando il doppio eccidio di Bronte va più distante di Visconti e percepisce nel dramma siciliano uno spartiacque che suggella il fallimento di una fase storica della borghesia e dischiude una prospettiva diversa. Perno tematico del film non è tanto il trasformismo delle baronie borboniche quanto la paura, per un verso, per l'altro l'ignoranza delle masse popolari e della loro sete di giustizia sociale: fenomeno questo che, a gradi molteplici e con molteplici connotazioni, non risparmiò il nostro Risorgimento e non esentò le menti più acute e i cuori più fervidi. Non Bixio viene condotto alla gogna e paragoni


(...)
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Versione delle 08:24, 8 apr 2025

Enti Promotori

  • Comune di Bellaria Igea Marina
  • Assessorato alla Cultura
  • Ministero per i Beni e le Attività Culturali
  • Dipartimento dello Spettacolo
  • Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini
  • Sindaco: Gianni Scenna
  • Assessore alla Cultura: Ugo Baldassarri
  • Dirigente Settore Cultura: Stefano Coppini
Locandina Bellaria Film Festival, Anteprima per il cinema indipendente italiano, 2002

Direzione

  • Direzione Artistica: Antorio Costa, Morando Morandini, Daniele Segre
  • Direzione organizzativa, immagine: Antonio Tolo
  • Segreteria, ricerca film: Michela Mercuri
  • Catalogo, traduzioni: Gian Maria Tore
  • Ufficio Stampa: Catia Donini
  • Ufficio ospitalità: Cristina Gori
  • Ospitalità: VerdeBlu
  • Immagine di copertina: Tinin Mantegazza
  • Proiezioni video: Mirco Ricci Rosalinda Celentano
  • Videointerviste: Alessio Fattori
  • Hanno collaborato: Irene Campana, Nicoletta Casali Daniele Segre, Giorgia Lazzari, Manuele Colamedici, Theologos Sideris

Presentazione

di Gianni Scenna (Sindaco) e Ugo Baldassarri (Assessore alla cultura)

Ancora una volta Anteprima alza la mano e chiama l'attenzione da quest'Isola dei Platani di Bellaria Igea Marina dove l'albero del cinema indipendente si accresce del ventesimo anello. A salutare questo festoso compleanno una nuova direzione artistica che scaturisce dalle radici stesse del festival: lo sguardo della critica, il mondo dell'università e la pratica del cinema, ovvero Morando Morandini, Antonio Costa e Daniele Segre i cui prestigiosi, lucidi percorsi già erano intrecciati con la storia di questo festival. Il disegno dei rami resta quello di sempre, ben riconoscibile anche da lontano. Il nuovo è un traguardo formativo e già si fa sentire nella realizzazione di un video magazine quotidiano che chiamerà a raccolta, nei giorni del festival, le energie giovani per un progetto che è, semplicemente, il cinema del cinema. Anteprima - Bellaria Film Festival come display conclusivo del cinema indipendente italiano ma anche (e finalmente) sua nascita, sua causa, sua casa.

Allargare l'orizzonte

di Morando Morandini

Nel suo ventesimo compleanno, dopo un quadriennio monarchico, Anteprima, il Bellaria Film Festival, riprende la sua formula repubblicana con la direzione artistica affidata ad un triumvirato di veterani. Lo è, a modo suo, ciascuno dei tre, anche l'esordiente Daniele Segre che nel 1984 vinse il primo Gabbiano d'oro. Non è la sola novità di quest'edizione. Assecondati e spinti dalla committenza pubblica - nelle persone del sindaco di Bellaria Gianni Scenna e dell'assessore alla cultura Ugo Baldassarri - ci siamo proposti due obiettivi: 1) rafforzare il rapporto di Anteprima con l'Università di Bologna e la Scuola Nazionale di Cinema di Roma; 2) creare le condizioni per dare inizio - nei fatti e non soltanto con parole, promesse, speranze - alle attività permanenti sul territorio. Il primo traguardo riguarda già il presente, l'edizione 2002. Con l'apporto di allievi dei due istituti di Bologna e di Roma si realizzerà dal 6 al 9 giugno un video-magazine per offrire agli ospiti e al pubblico un prodotto che faccia la cronaca giornaliera del festival Il secondo traguardo è più ambizioso, complesso e costoso, richiederà tempi medio-lunghi per la sua realizzazione. L'intento non è soltanto di migliorare l'identità e l'originaria vocazione di Anteprima, ma di trasformarla gradualmente in una Festival Factory. Invece di limitarsi a mostrare una volta all'anno una selezione dei video-film indipendenti, si vorrebbe promuovere e facilitarne la realizzazione. Non soltanto: istituire corsi di formazione professionale audiovisiva per la realizzazione di prodotti di pubblica utilità. E ovvio che questo progetto avrà bisogno della disponibilità della regione e di altri enti, associazioni, organizzazioni del territorio. In questa direzione abbiamo già fatto qualche passo: 1) il concorso “Cinema per la realtà” per proposte di brevi documentari (su due temi: il divertimento, gli stranieri) da girare nel territorio di Bellaria Igea Marina. I vincitori del concorso saranno ospitati nelle fasi della preparazione e delle riprese dei documentari da terminare entro il 15 settembre 2002. I loro lavori saranno mostrati nei mesi successivi in iniziative pubbliche sul territorio e proiettati al Bellaria Film Festival 2003; 2) durante l'edizione 2002 sarà presentato a Bellaria in anteprima Un giorno a Roma, documentario realizzato dagli allievi del primo anno della Scuola Nazionale di Cinema sull'esperienza della Caritas Diocesana Romana. Saranno presenti gli studenti, il direttore didattico della scuola Caterina d'Amico e i responsabili della Caritas: 3) con la partecipazione di A proposito di sentimenti a Bellaria si avrà la possibilità di conoscere il lavoro dell'Associazione Italiana Persone Down di Roma alla presenza di ragazze e ragazzi down e di esperti delle associazioni che operano nella regione Emilia- Romagna. La partecipazione al XX Bellaria Film Festival è stata rilevante. A Concorso Anteprima sono stati presentati 332 video-film (dai 2° ai 100 di durata): selezionati 35 per il concorso e 15 fuori concorso. La loro provenienza geografica vede al primo posto la regione Emilia-Romagna con 106 opere (di cui 37 da Modena e 30 da Bologna), seguita da Roma con 82, Milano con 27, Napoli con 13, Torino con 8, Palermo con 6, Ellera Umbra (PG) con 5. Sono giunti tre video-film dalla Svizzera (uno ammesso al concorso), tre da Parigi e uno ciascuno da Bruxelles e dall'Eire (Rep. d'Irlanda). Da quest'anno il concorso era stato esteso ai registi svizzeri, purchè i loro film fossero in lingua italiana: è un altro modo per allargare il nostro orizzonte. Tra i criteri del lavoro di selezione per il concorso c'è anche quello di tenere in equilibrio le proporzioni tra fiction e documentario. Speriamo di esserci riusciti sebbene rimanga il rimpianto di aver sacrificato qualche documentario anche per ragioni i durata. Il caso ci ha aiutati. Tra Bronte (1972), l'originale film di Florestano Vancini, presentato in edizione restaurata e arricchita di 16 minuti per continuare l'iniziativa dei “Trent'anni dopo” cominciata nel 1994, e il documentario Carlo Giuliani, ragazzo di Francesca Comencini, reduce da Cannes, esiste un nesso profondo e significativo: sono entrambi di controinformazione. Non sono novità i film che concorrono al premio Casa Rossa né la retrospettiva francese Paris Films Coop. Abbiamo deciso di presentarli tutti e otto, i film scelti per il Casa Rossa, perché molti di loro appartengono alla maledetta categoria degli “invisibili”, vittime della censura del mercato, cioè così poco e male distribuiti che in qualche caso sfuggono persino ai critici e ai giornalisti. Curata da Antonio Costa, la retrospettiva francese (4 ore di durata) comprende film di corto o di mediometraggio, in gran parte degli anni ‘70, realizzati nell'ambito dell'Università di Vincennes. E una tappa di quella ricognizione del cinema d'avanguardia che a Bellaria cominciò negli anni ‘90. E un altro modo di allargare l'orizzonte alla ricerca del nuovo e di continuare un discorso nel rispetto dell'identità e della vocazione di questo festival.

Concorso

Concorso 150”a tema fisso: “Emergenza”

  • L'abito di Carlo Gazzotti
  • Attacco: 11 settembre 2001 di Andrea Baldassarri
  • Bio di Claudio Saponara
  • The buzz di Mario Tani
  • Cell di Gianluca Abbate
  • La cinepresa a tracolla di Michele Ceppi
  • Così diversi... così simili... se “guardi” col cuore di Francesco D'Imperio
  • Così è... (Così vicini così lontani) di Simone Lecca e Michele Ceppi
  • Delicious di Michele Senesi
  • Di come Eraclito morì annegato di Francesco Giarrusso
  • Ecosviluppo di Beatrice Benocci e Davide Scannapieco
  • EM 1109 di Andrea Croci
  • Emergènza di Francesca Albano
  • Emergenza di Stefano Baccherotti
  • Emergenza di Giovanni Calamari
  • Emergenza! di Marco Colacioppo
  • Emergenza di Valentina Di Liddo
  • Emergenza di Alice Rosa
  • Emergenza limbo di Stefano Franceschetti e Cristiano Carloni
  • En plein air di Sara Cupaiola
  • Giulio è morto di Paolo Grosso
  • Glob di Jacopo Martinoni
  • Goccioloni di Giò Roseano
  • Il grido di Felice Farina
  • Immateriale sintetico non infiammabile di Giovanni Lasi e Andrea Righi
  • Io non posso entrare di Michelangelo Frammartino
  • Locabiotal di Gianluca Abbate e Riccardo Cremona
  • Il mondo è di tutti... di Marina Mesnic
  • Odissea d'ombre di Beppe Varlotta
  • L'ombra di Stefano Giovagnoli
  • Onde di neve di Elisa Carpini
  • Otter ferrero di Giovanni Bufalini
  • Preghiera per un bambino di Alessio Cancellieri
  • Pro/gettati di Blumaria e Michela Franzoso
  • Qualcuno di Federico Lai
  • Ritengotrattenuto di Giacomo Cesari
  • River di Luisa Pretolani
  • Seminammorbidente di Federico Tinelli
  • Sentòre di piazza Luca Berardi
  • Sometimes di Federico Della Corte
  • Sorpresa di Samuele Romano
  • Specchio delle mie brame di Michela Franzoso
  • Top gun di Maurizio Failla
  • Train de vie di Ettore Ferrettini
  • ...Vittoria di Luca Passoni, Giovanni Ziberna, Niccolò Mazzolini, Sergio Bencivenni
  • Willer di Stefano Trentini
  • 02/04/2002 h 1:38 Deheishe refugees camp di Andrea Zambelli

Premio Casa Rossa

Festa di compleanno: Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini

Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini

Storia di un film storico

Il caso Bronte

di Pasquale Iaccio[1]

Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato è un'opera cinematografica in cui si condensa una straordinaria quantità di elementi diversi. Bronte è - innanzitutto - un film di alto livello estetico e di fattura assai originale che i quasi trent'anni che ci separano dalla sua uscita non hanno intaccato. Ma non è solo un film. È un “evento” in cui il cinema si è intrecciato con molti altri fattori e molte altre discipline, come la storia (del Risorgimento, ma anche degli anni in cui il film è stato realizzato ed è circolato), la letteratura (fu ispirato da un’oscura novella di Verga, Libertà, e tra gli sceneggiatori troviamo un altro grande scrittore siciliano: Leonardo Sciascia), la politica e l'ideologia, per le connotazioni e i significati che, a torto o a ragione, gli sono stati attribuiti da molti recensori. E si potrebbe continuare ancora. Che un film non sia solo un’opera estetica è una caratteristica che connota il cinema narrativo fin dalle sue prime prove, specie se affronta argomenti di carattere storico. Non è un caso che anche il primo film di finzione italiano, La presa di Roma di Filoteo Alberini del 1905, sia un film storico e, cosa da sottolineare, di storia del Risorgimento. La qualità maggiore che gli stessi realizzatori attribuivano a questo film era proprio la sua storicità, la fedeltà che avevano cercato di conseguire rifacendosi a particolari realistici, a cominciare dalla presenza di personaggi storici per finire all'ambientazione sui luoghi in cui l'evento era accaduto, compresa la riproposizione delle divise dei combattenti ricavate da foto d'epoca. Per l'Italia d'inizio secolo la presa di Roma era un episodio quasi sacro della sua storia recente e lo testimonia anche il tipo di percezione che la pellicola ebbe quando venne presentata al pubblico. Il significato storico dell'avvenimento fu di gran lunga preponderante rispetto a qualsiasi altro significato e a qualsiasi considerazione di carattere estetico. Esaltazione del Risorgimento e dei suoi massimi eroi, quindi, nel pieno rispetto della storia ufficiale. Non sarà un caso, in seguito, se anche il primo Kolossal della cinematografia italiana (di molto cresciuta rispetto alla pionieristica opera della ditta Alberini- Santoni) sia il famoso Cabiria di Giuseppe Pastrone del 1913 che si giovò della collaborazione di Gabriele D'Annunzio. [...] Da La presa di Roma del 1905 a Bronte del 1972 si può dire che il cerchio si chiuda e il medesimo tema viene rappresentato prima nella sua massima esaltazione e dopo nella sua massima dissacrazione. Se dovessimo cercare un esempio di intreccio tra storia e cinema, con tutti i significati che comporta col passare del tempo e il mutare delle epoche, non potremmo trovare un caso più calzante. Esaminare come il Risorgimento sia potuto diventare un caso, addirittura imbarazzante, di contro-storia, com'è accaduto col film di Vancini, sarà la cartina di tornasole che ci guiderà nell'analisi del film e delle reazioni che suscitò.

All'origine di Bronte: la novella Libertà di Giovanni Verga

di Giovanni Verga[2]

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: "Viva la libertà!". Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola. - A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! -A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede - Perché? perché mi ammazzate? - Anche tu! al diavolo! - Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. - Abbasso i cappelli! Viva la libertà! - Te"! tu pure! - Al reverendo che predicava l'inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll'ostia consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! - La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l'inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. - Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse - lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don Paolo il quale tornava dalla vigna a cavallo col somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva il capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone mentre aspettava coi cinque flgliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. - Paolo! Paolo! - Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello. Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l'oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu fuggiva, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare, lo rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e gliel' aveva sfracellata nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni - e tremava come una foglia - Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tu- Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando d'ira in falsetto. - Tu che venivi a pregare il buon Dio colla di seta! - Tu che avevi a schifo d'inginocchiarti accanto alla povera gente! - Te"! Te"! - Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure! La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schioppettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c'era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. Viva la libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulle gradinate, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata - e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch'esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: - Mamà! mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l'uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s'era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. l’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avute cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L'altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria. E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte. Aggiornava; una domenica senza gente in. piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s'era rintanato; di reti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica come i cani! Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio. E come l'ombra s‘impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell'Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra di sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. - Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! - Se non c'era più il perita per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! - E se tu ti mangi la tua parte all'osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? - Ladro tu e ladro io. - Ora che c'era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! - Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure. Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camice rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per schiacciarti tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo. IL generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi, ragazzi come un padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schiopettate în fila come i mortaletti della festa. Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali; arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d'oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell'ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane, il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull'uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, Prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre. Colle proprie mani, e la povera gente, non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L'orfano dello speziale rubava la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che il marito le tagliasse la faccia, all'uscire dal carcere egli ripeteva: - Sta' tranquilla che non ne esce più. Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche che vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano e si persuadevano che all'aria ci vanno i cenci. Il Processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia - ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s'era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell'uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: - Sul mio onore e sulla mia coscienza!... Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In galera? - 0 perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà!...

L'ideazione e la progettazione di Bronte: Florestano Vancini, il regista

di Pasquale Iaccio[3]

“Per parlare di questo film devo partire da molto lontano e ricordare il mio rapporto con Giovanni Verga. Ho scoperto Verga mentre ero studente, negli anni quaranta, quando eravamo in pieno fascismo, e ho cominciato a coltivarlo ben oltre i miei doveri scolastici. Per me rappresentò un momento importante di formazione culturale. Verga, inoltre, diventava in quegli anni modello per il gruppo che si andava formando attorno alla rivista “Cinema” e che era il nucleo dei futuri autori del cinema italiano del dopoguerra. Su Verga, De Santis, Lizzani, Pietrangeli, Visconti, Antonioni, costruiscono le basi teoriche di ciò che sarà poi il neorealismo e cioè l'attenzione alla realtà, al mondo del lavoro, alla quotidianità per superare tutti gli orpelli che la cultura fascista aveva messo in campo in quegli anni. Quanto a me, liceale, mi colpisce in particolare una novella, Libertà, nella quale coglievo un Verga diverso da quello delle novelle rusticane e anche da quello dei romanzi. Lui era generalmente preciso e attento alla topografia, oltre che alla geografia, dei luoghi. Era solito nominare località che probabilmente non esistevano nemmeno nelle mappe, per il gusto di calarsi nella piccola realtà di un mondo minuto, quasi di formiche, che spesso raccontava. Libertà, invece, era per me una novella misteriosa, parlava di un paese delle montagne dove dei contadini si sarebbero scagliati contro i padroni, non si capiva quando, nun si capiva deve. La vicenda, stranamente, non era collocata in un luogo preciso. Ad un certo momento arrivava un generale misterioso che faceva dormire i suoi uomini nella chiesa, poi c'era una specie di rappresaglia. Ma cave? Come? Perché? Passò del tempo e negli anni cinquanta comincio a fare cinema. Arrivato a Roma, con un produttore di documentari, pensai ad un progetto di tre documentari da fare in Sicilia e li girai subito dopo. Non ero mai stato in Sicilia prima d'allora. Il mondo dell'isola, la cultura, la storia mi appassionarono molto. Approfondii tutta la narrativa siciliana: Capuana, De Roberto e poi Pirandello... Era il ‘51 e girai un documentario su Verga, su i luoghi e le figure di questo autore per me così importante. L'altro documenta- rio riguardava un paese sul Tirreno rivolto verso le Eolie vicino Sant'Agata di Militello. [...] Quando mi trovavo a Catania, che costituiva la base operativa per i nostri documentari, avevo già l’idea di fare qualcosa che riguardasse questo autore. Non il Verga del mare, cioè I Malavoglia, anche perché, pochi anni prima, Visconti aveva girato La terra trema. Non potevo tornare ad Aci Trezza per un film dello stesso genere. Andai a visitarla ugualmente, in una sorta di doppio pellegrinaggio: per Verga, che amavo già da molto tempo, e per La terra trema, che avevo visto qualche anno prima. Decisi allora di fare un documentario dedicato al fronte “rusticano” della Sicilia, da girare quasi tutto nella zona di Vizzini. Durante le riprese dormivamo a Catania perché a Vizzini non c'era albergo. E proprio a Catania mi capita di conoscere un professore di lettere. Naturalmente ci mettiamo a parlare di Verga e io gli chiedo di spiegarmi i lati oscuri della novella Libertà. Gli faccio il discorso che ho fatto prima. Verga sempre così preciso... E lui mi fa: “Ma come. Non lo sa? Bronte...”. E così mi racconta di Bronte nel 1860, un paesino vicino all'Etna, eccetera. Insomma mi dà molte informazioni e le risposte che aspettavo da quando ero liceale. Da allora non ho abbandonato più l'argomento. Negli anni successivi continuavo a fare ricerche. Intanto vado avanti nella mia attività nel mondo del cinema finché non giunse l'ora del mio primo lungometraggio nel 1960. Dentro di me, però, coltivavo sempre l'interesse per la Sicilia al punto che, mentre giravo La lunga notte del ‘43, continuavo a lavorare alla sceneggiatura di Bronte, che avrebbe dovuto essere il film successivo. Secondo i miei piani, in accordo anche con un produttore, avrei dovuto girarlo immediatamente dopo La lunga notte del ‘43. Invece questo copione, che era già pronto nel ‘61, giacque in un cassetto per nove anni, fino al 1970. Il film infatti fu girato solo nell'estate del 1970 con il contributo della Rai. Quando nel ‘69 mi fu offerta, quasi casualmente, la possibilità di realizzarlo con l'intervento della Rai, naturalmente colsi l'occasione al volo... Finalmente avevo l'occasione di realizzare il mio vecchio progetto, ma, per vederlo ultimato, dovetti penare ancora parecchio. Infatti, a lavoro finito, i dirigenti della Rai rimasero scioccati da alcune immagini del film ed ebbero molti dubbi e molte perplessità a mandarlo in onda, non si decidevano a sbloccarlo. Alla fine, consentirono a me e al produttore, che era Mario Gallo, di rimaneggiarlo e farne un'edizione un po’ più breve per poterlo collocare nelle normali sale cinematografiche. Ci diedero, così la possibilità di tornare alla versione iniziale del film, ripristinando il mio progetto originario. E infatti rimontammo il lavoro in una versione che è poi quella conosciuta. La versione Rai non è stata mai più mandata in onda. [...]

Può brevemente riassumere l'episodio di Bronte? Era un episodio completamente ignorato. Sa il titolo preciso qual è? Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato. Non era stato mai raccontato, non solo dai libri di storia delle scuole, ma neanche dalla grande storiografia. Nel 1960 l'Italia festeggiava il centenario dell'Unità con grandi celebrazioni a tutti i livelli. A Palermo venne organizzato un convegno di tre o quattro giorni con i più grandi storici italiani e del resto del mondo sul tema: La Sicilia e l'Unità d'Italia. Gli atti vennero pubblicati dalla Feltrinelli in due volumi e costituiva il corpus delle ricerche storiografiche più avanzate fino a quel momento. Del problema di Bronte però non si parlava come non si parla del problema dei contadini della Sidi; in quegli anni.

Lei come è riuscito a ricostruire quell'episodio in manie così precisa come appare nel film? Prima di tutto sono andato a Bronte, dove si trovavano interessanti documenti, tra cui un libro, che non c’erano neanche nelle biblioteche nazionali. Fu pubblicato agli inizi del Novecento da un avvocato di Bronte a sue spese. (costui, figlio di un notaio, all'epoca dei fatti aveva 10-11 anni). Durante la maturità si mette a studiare la storia di Bronte e pubblica tre ponderosi volumi cominciando dalle leggende preistoriche. L'ultimo volume è dedicato ai fatti del 1860. Chi è l'autore? Benedetto Radice, se non sbaglio. Il titolo? Non ricordo il titolo di tutta l'opera, ma l'ultimo volume si intitola intitola Nino Bixio a Bronte. Tornando al mio sopralluogo, dopo qualche giorno trovo questo libro. E' già una grossa conquista perché è molto dettagliato, quasi un diario quotidiano di quei giorni con i personaggi che cominciano ad emergere e una narrazione molto rigorosa. Ma soprattutto mi convinco che, per capire esattamente cosa fosse accaduto, bisognava andare negli archivi del tribunale di Catania a tirar fuori gli atti giudiziari. Mi riferisco al processo che si celebrò a Catania tre anni dopo i fatti, cioè nel 1863, e che culminò con una serie di condanne all'ergastolo. Il cerchio si chiude, perché la novella Libertà di Verga illustra i fatti di Bronte raccontando di un processo che si celebra a Catania, al quale Verga, evidentemente, aveva assistito. E infatti nella novella rievoca, attraverso squarci di racconti e di testimonianze che si erano avute durante il processo, ciò che era accaduto in quello sperduto paese di montagna. È un particolare importante perché conferma che a Catania era stato celebrato un processo al quale Verga aveva assistito. Da qui doveva essere nato lo stimolo a scrivere il racconto. Gli atti giudiziari furono trovati e studiati da un mio amico ricercatore, che si adoperò per mesi e alla fine raccolse una enorme mole di documentazione che fu alla base del mio film. Per quanto riguarda il personaggio di Nino Bixio, ho cercato lettere, documenti, proclami, tutte cose che non erano mai state indagate prima d'allora. [...] Il lavoro di sceneggiatura ebbe varie fasi. La prima versione la scrivemmo io e Fabio Carpi. Pur ritenendoci preparatissimi sulla storia e la cultura siciliana, eravamo pur sempre due padani; io ferrarese, Carpi milanese. Sentimmo il bisogno di avere il contributo di un siciliano autentico perché, anche se ci basavamo sui documenti dell'epoca, avevamo una specie di timore ad affrontare la psicologia siciliana. In quegli anni, 1960-1961, stava affermandosi un giovane scrittore siciliano di cui leggevamo le prime pubblicazioni e che ci interessava moltissimo. Si chiamava Leonardo Sciascia. Lo contattammo e gli chiedemmo di collaborare con noi. Lui fu ben felice. Credo sia stata l’unica volta che Sciascia abbia collaborato a un film perché, anche per i molti film tratti dalle sue opere, non ha mai voluto collaborare alle sceneggiature. Con Sciascia stendemmo il copione del film che rimase fermo, come ho detto, per 8-9 anni. Nel momento in cui noi prendemmo accordi con la Rai ci fu chiesto un ampliamento della sceneggiatura. Era già un copione molto grosso e calcolavamo che avremmo superato le due ore. Ma la Rai ci chiese di farne tre puntate da 50 minuti, come si faceva in quel periodo. Allora, per questa rielaborazione, intervenne un altro sceneggiatore siciliano: Nicola Badaluccio.”

La realizzazione e la circolazione di Bronte: Mario Gallo, il produttore

di Pasquale Iaccio[4]

“Nell'epoca d’oro del cinema italiano oltre alle “sette sorelle” americane, c'erano 15 noleggiatori italiani e un centinaio di produttori i quali, godendo di una sufficiente libertà, intercettavano le idee che nascevano in quel periodo, le facevano maturare dialogando con scrittori e registi, stabilivano contatti con altri produttori europei e contribuivano alla nascita e allo sviluppo di un fenomeno artistico e culturale apprezzato in tutto il mondo. Allora l'Italia possedeva un notevole patrimonio cinematografico, e c'era il terreno (un mercato abbastanza aperto) su cui poteva esprimersi. Voglio dire che non mancavano, come mancano oggi, le condizioni minime ed essenziali per dar vita ad una attività che consenti all'Italia di essere, dopo gli USA, il secondo paese esportatore di film. Purtroppo le situazioni favorevoli che hanno consentito di raggiungere simili traguardi, sì sono create, in gran parte, per una serie di circostanze fortuite e con la consapevolezza, spesso parziale, di una esigua minoranza. Tanto è vero che nessuno ha mai cercato e cerca di ricrearle e percorrere strade che non hanno uno sbocco. Questa succinta premessa è necessaria per capire come sia stato possibile realizzare un film come Bronte che, peraltro, costituiva un'eccezione anche nel panorama cinematografico del 1970, e perché oggi imprese del genere sono non solo ardue ma inimmaginabili. Sono stato sempre molto interessato ai problemi organizzativi, economici, produttivi e politici del cinema, ho diretto e prodotto alcuni documentari, ho esercitato la critica cinematografica, ma fino al 1964 non avevo mai pensato di cimentarmi nella produzione. Fu Florestano Vancini che m'indusse a prendere in esame questa eventualità quando mi parlò di un suo progetto, Le stagioni del nostro amore, che non riusciva realizzare come voleva. De Laurentiis era disposto a produrlo, ma alla condizione che non si parlasse di politica. Il soggetto del film, però, era la crisi politica di un intellettuale di sinistra che diventa anche crisi esistenziale. Senza la politica la storia d'amore tra l'inquieto protagonista e una brava ragazza sarebbe diventata un fumetto. Per di più la tesi politica non era ortodossa e la trasgressione non è stata mai perdonata a Vancini e al sottoscritto. Florestano ed io c'improvvisammo produttori. Costituimmo una società e andammo alla ricerca di un committente. Il progetto piacque a Renzo Ventavoli, un dirigente colto, intelligente della società di distribuzione Medusa. Il film fu realizzato con il minimo garantito del noleggio e un prestito che ci concesse la BNL dando in garanzia le nostre rispettive abitazioni. Le stagioni del nostro amore osteggiato dalla critica di sinistra, ebbe un buon successo di pubblico, vinse il premio della critica internazionale al Festival di Berlino e varcò anche i confini del nostro paese.

Critica di un film critico

Florestano Vancini: “il film storico”

di Pasquale laccio[5]

Dicevo a me stesso, ai collaboratori e agli operatori che avremmo dovuto girare il film dando la sensazione che in quell'estate del 1860 a Bronte ci fosse un misterioso cineoperatore che, non veduto, riprendeva quanto stava accadendo. Ho cercato di narrare i fatti così come sono risultati dalle ricerche e dai documenti raccolti. Certo, dando anche delle emozioni nel rapporto con un mondo di contadini che vivevano in condizioni assolutamente subumane. Abbiamo trovato un’ampia documentazione che dimostra cos'era la vita in Sicilia in quel momento. I fatti, poi, si svolgono nel giro di soli 2-3 giorni, tutto è molto convulso, drammatico, violentissimo e anche il film è girato in maniera rapida e convulsa, come quegli avvenimenti, con la macchina da presa sempre in movimento, in mezzo alla gente. Solo in quei pochi attimi in cui i personaggi sono perplessi o attoniti nel loro privato, c'è un momento di stasi nella dinamica del racconto e quindi anche nel modo della ripresa. È un film che, praticamente, ho girato senza carrello, non ho mai cercato l'inquadratura perfettamente ricostruita, elegante, equilibrata. Diciamo meglio: le inquadrature sono tutte costruite, ma con l'aria di fare una ripresa da cineattualità, di rappresentare gli avvenimenti mentre accadono [...] Per quanto mi riguarda, il film storico è un film che deve porre dei problemi, che deve guardare ad un certo periodo storico in maniera nuova, diversa. Non a caso La lunga notte del ‘43 è un film ambientato nella mia città, Ferrara, [...] ho assistito ad un episodio tremendo che fu anche il primo massacro commesso in quel periodo e che diede inizio alla Resistenza e alla guerra civile. Si tratta dell'uccisione di persone, assolutamente innocenti, avvenuta al centro di Ferrara. [...] Anche quell'episodio non l'ho affrontato in maniera celebrativa, l'ho trattato in modo problematico, con le domande che avevo cominciato a pormi fin da allora. Cioè che cosa ha significato e che cosa è stata la Resistenza e la guerra civile in Italia in quel periodo? Come il popolo italiano l'ha vissuta, fuori dalla celebrazione, dall'iconografia, dalla visione manichea di tutti buoni, tutti eroi e tutti malvagi. Gli stessi problemi sono presenti in un film, solo in parte storico, come Le stagioni del nostro amore. Siamo nel ‘66, racconta la crisi di un intellettuale comunista che ha vissuto l'esperienza della Resistenza nel Nord e che ripensa e rivisita questi momenti della gioventù. Li inquadra anche in maniera abbastanza critica per approfondire, per capire perché le cose sono andate in un certo modo. E così via fino al Delitto Matteotti, successivo a Bronte. In questo film affronto, non tanto l'episodio dell'uccisione di Matteotti da parte di una squadraccia fascista, che è narrato comunque. Ma il vero problema che mi pongo è perché avviene una crisi in Italia nel secondo semestre del ‘24.

Bronte: cronaca di ciò che i critici hanno raccontato

di Vincenzo Esposito[6]

Da un lato i recensori di destra (capitanati dall'agguerrito Angelo Solmi) che accusarono il film di capziosità, quando non addirittura di falsità storica; sul fronte opposto alcuni critici marxisti (si veda, ad esempio, la posizione di Roberto Alonge su «Cinema Nuovo») che, identificando evidentemente nella figura dell'avvocato Lombardo la posizione di Vancini stesso, videro nella lezione storica di Bronte un esempio di “riformismo politico”. Vi furono, come ricorda Vancini, anche gli “indifferenti”, coloro che per abitudine o incapacità trattarono il film con sufficienza, occultando la problematicità tematica del film dietro il paravento estetico, ma non rappresentarono, per fortuna, la maggioranza. Buona parte dei recensori comprese il senso profondo dell'operazione vanciniana, e, sebbene costretta a far quadrato intorno al film per difenderlo dagli irrazionali strali dei conservatori, trovò comunque la forza per esprimere serenamente dei giudizi sui temi e i significati dell'opera. Vanno annoverati, a tal proposito, almeno gli scritti di Alberto Moravia, Jacques Nobécourt (inviato del quotidiano francese «Le Monde»), Mino Argentieri, Bruno Torri e Lino Miccichè. La copiosità di articoli, dibattiti e animate tavole rotonde che il film di Vancini fece registrare testimonia che l'opinione pubblica non rimase completamente indifferente di fronte alla forza d'urto sprigionata dalla rivisitazione storica dei “fatti di Bronte”; anche se la “querelle” brontina - che sfiorò talvolta la polemica spicciola - non si tradusse immediatamente in una spinta promozionale per il film. Gli attacchi della destra partirono dalle pagine del settimanale «Oggi» [Caro Vancini, Bixio non era nazista, «Oggi», n.21, 20 maggio 1972]. In una lettera aperta, Angelo Solmi, critico del rotocalco rizzoliano, accusò il regista di “lesa patria” e “demagogia elettorale”, sottolineando, altresì, di essersi “vergognato” di fronte alla rappresentazione di un Nîno Bixio “nazista”. l'articolo comincia così: «Caro Vancini, mi sono vergognato che un regista di tanta finezza stilistica e di tanta sensibilità abbia potuto porre il suo innegabile talento al servizio di un autentico falso storico, probabilmente per un'operazione demagogica preelettorale». La recensione di Solmi, in realtà poco articolata, si concentra intorno ad un generico, quanto sciovinistico, panegirico dell’eroe Bixio”, e lascia alquanto in ombra la questione estetica, limitandosi a ricordare ‘en passant’ che «Bronte in sé per sè, è tutt'altro che un film mal fatto». Tito Guerrini su «Umanità» [Tito Guerrini, “Bronte” di Florestano Vane, «Umanità», 30 maggio 1972], rincalzò la dose e accusò Bronte di superficialità ed eccessivo schematismo: "I contadini di Bronte convincono più per la loro passionale violenza (un po' alla “Western”) che non per le precise e intime ragioni che li inducono a comportarsi in un determinato modo. E poi c'è Nino Bixio che il regista dipinge, grosso modo, come un generale nazista. [...] Ritengo insomma, che Florestano Vancini abbia affrontato il problema, peraltro così interessante ed importante, con molta superficialità. Ma questa superficialità è probabilmente connaturata alla sua natura, è la “macchia” del suo indubbio talento registico. E il fatto che le sinistre, per puro gioco politico avvallino questa macchia, è quantomai sintomatico». Quasi tutte le recensioni apparse sulle pagine della stampa conservatrice e filogovernativa condivisero le accuse di "lesa patria” - sorte riservata precedentemente, ricordiamo, anche al Rosi di Uomini contro e al Monicelli de La grande guerra - e “demagogia elettorale”, ma i toni, per fortuna, non furono sempre triviali. Talune speculazioni critiche della destra moderata (quelle perimetrate nell’ambito del civile confronto di idee), per quanto opinabili, contenevano spazi esegetici comunque interessanti. Domenico Meccoli, ad esempio, su «Epoca» [Le lacrime di Nino Bixio e il sangue di Trotsky, «Epoca», n. 1128, 14 maggio 1972] partendo da un assunto di base secondo cui Bronte non sarebbe un racconto cronachistico, come vorrebbe invece far credere il titolo, definisce il film di Vancini un’opera costruita intorno ad una tesi classista e rivoluzionaria che «induce a me dilatare certi eventi della nostra storia dove è possibile scoprire, sia pure in parte, le ragioni del nostro presente. [...] In sintesi, con un vigore spettacolare che ricorda quello dell'opera prima di Vancini, La lunga notte del ‘43, il film vuole dire che i diseredati del Meridione, beffati di trasformismo delle classi dirigenti, incompresi e strumentalizzati, non avevano allora (e, si sottintende, non hanno oggi) altro modo di risolvere il problema della loro miseria se non con l'acquisizione della coscienza di classe e col rifiuto di un ingannevole riformismo. La tesi è abilmente sostenuta attraverso il fallimento dell'opera dell'avvocato Lombardo». Meccoli, proseguendo nel suo parallelismo tra i “fatti di Bronte” e i “fatti del ‘72” definisce, inoltre, il film «capzioso» perché nella sconfitta finale dell'avvocato Lombardo vi si riscontrerebbe anche «una constatazione che il capo dei carbonai non aveva torto nel prevedere che i ‘galantuomini’ avrebbero trovato la protezione delle baionette garibaldine. Il discorso è ovviamente capzioso. Identifica - tema dei nostri giorni - l'ordine con la repressione». L'articolo di Meccoli trova, paradossalmente, la sua speculare controparte nelle pagine di «Cinema Nuovo» [Roberto Alonge, Una tragedia riformista tra storia e politica, «Cinema Nuovo», n. 222, a. XXII, marzo-aprile 1973, p.16]. Sulla rivista di cultura marxista diretta da Guido Aristarco, Roberto Alonge — partendo ovviamente da posizioni politiche diametralmente opposte a quelle del critico di «Epoca», e, va detto, facendo sfoggio anche di un ben altro rigore interpretativo — arriva a conclusioni “parallelamente convergenti”. Alonge ritiene che Bronte nasconda dietro l'apparenza storica una sostanza politica: «il discorso sul passato lascia intravedere il discorso sul presente, sull'oggi», e, proseguendo sullo stesso binario di Meccoli, intravede nella dicotomia passato-presente la volontà di Vancini di riproporre in chiave polemica il dibattito attuale sulla legalità borghese, il concetto equivoco di libertà e l’uso della violenza. Ma, per il critico, l'esito a cui giunge il regista è «quello polemico del movimento operaio ufficiale verso le avanguardie della sinistra di classe». Per Alonge il discorso che emerge dal film è chiarissimo: «È il rifiuto della violenza, il rifiuto di distinguere violenza che opprime da violenza che libera. [...] L'uomo che nel prologo aveva picchiato il villano e il figlio, è costretto a subire la legge del “contrappasso”: braccato a sua volta nei campi, gettato a terra, spinto a raccogliere delle fascine, e quindi ammazzato con il calcio del fucile. [...] È la nemesi: la vittima di ieri diventa carnefice, e il carnefice diventa la vittima di oggi». Per il recensore di «Cinema Nuovo» la scelta politica di Vancini è racchiusa, chiaramente, nel ritratto a tutto tondo dell'avvocato Lombardo, nell'esaltazione del suo ruolo politico. «Vancini vede in Lombardo non già colui che frena e disarma la violenza rivoluzionaria, ma l'accorto dirigente stretto, a destra, dalle forze reazionarie, e, a sinistra, dall'avventurismo irresponsabile di Gasparazzo. In questa prospettiva lo stesso scappare sui monti di Gasparazzo si connota come vigliaccheria». Il Gasparazzo vanciniano rappresenterebbe, quindi, l'estremista sobillatore che al momento opportuno pensa solo a salvare la propria pelle, colui che spinge «la classe operaia su posizioni estremiste, di rottura, salvo abbandonarla a se stessa nel momento dello scontro. Sicché riproporre la vicenda di Bronte oggi, in questo preciso momento dello scontro di classe - riproporla in questo modo - ha un significato che non può che essere riformistico. Bronte è il fallimento di una classe contadina gettata allo sbaraglio da una dirigenza estremista e irresponsabile che non sa costruire una prospettiva politica vincente, al di là dello scatenamento momentaneo, della devastazione omicida; è il circolo vizioso degli “opposti estremismi”». La teoria degli “opposti estremismi” compare anche in un lungo saggio di Zambetti apparso su «Cineforum» [Vancini: Bronte, cronaca di un massacro, «Cineforum», n. 119, 1973]. Dopo aver lamentato la mancanza di una analisi approfondita del livello di coscienza di classe raggiunto dalle masse, e dopo aver altresì stigmatizzato l'assenza nel film di figure adeguatamente rappresentative del mondo contadino dell'epoca - carenze che peserebbero fino al punto di accentuare «il carattere istintivo della rivolta, facendola percepire come una semplice esplosione di furore non sorretta da una qualsiasi presa di coscienza» - il recensore crede di ravvisare nel Bronte di Vancini l'ombra degli “opposti estremismi”. «Gasparazzo finisce con l'apparire come un elemento anomalo e astratto, che fa pensare alla sinistra extraparlamentare e, in genere, a tutti coloro che si azzardano ancora a parlare di lotta di classe, così come sono presentati dalla stampa borghese (e non solo borghese): un avventurista che pesca nel torbido, magari in buona fede, ma totalmente ignaro di realpolitik, imbevuto di terie incomprensibili [....) e ciecamente portato alla violenza per la violenza. Chei fatti, alla fin fine, diano ragione a lui, è cosa su cur il film non richiama sufficientemente l'attenzione, dato che Gasparazzo è ormai scomparso dalla scena, mentre vi campeggia, sempre più dominante, per l'aureola stessa del sacrificio a cui va nobilmente incontro, la figura di Lombardo, contrapposta a quella di Bixio: ci vuol poco, a questo punto, per tirar fuori la teoria degli opposti estremismi (anche Bixio è un cattivo che ha il suo buono nel colonnello Poulet, come Lombardo è il buono rispetto a Gasparazzo e ai contadini assetati di sangue) e ad innalzare sui rispettivi massacri estremistici (quello dei quindici galantuomini uccisi dai contadini e quello dei cinque fucilati da Bixio) il monumento all'equilibrato buonsenso riformistico ed alla costruttiva centralità democratica». Nel variegato scacchiere ideologico della critica cinematografica italiana di sinistra le posizioni di Alonge e Zambetti occupavano l'ala più estrema, quella vicina alla cosiddetta “Sinistra extraparlamentare”, e si discostavano notevolmente dalle posizioni della “sinistra ufficiale” (sempre ammesso che tali espressioni avessero, anche allora, un senso). Mai loro scritti, pur non prestandosi al gioco della stampa reazionaria, finivano inevitabilmente per sacrificare sull'altare del radicalismo un film arduo e complesso, quasi unico nel panorama cinematografico italiano. Le loro analisi, come quella di Meccoli su «Epoca» del resto, danno per scontato che la posizione dell'avvocato Lombardo coincida con quella dell'autore. A questo proposito Callisto Cosulich [La missione maledetta, «ABO», 28 aprile 1972] è ancora più esplicito: «È evidente che le simpatie dell'autore vanno al Lombardo, cioè al mediatore tra le classi in lotta. Non sembra neppure sfiorano l'ipotesi che sia stato proprio il Lombardo, convincendo gli insorti a deporre le armi e a fraternizzare coi garibaldini, il maggior responsabile del fallimento della rivolta». Per costoro, insomma, il film di Vancini è un'opera ideologica e non fenomenologica; un'opera in cui la dialettica tra l'oggettivo (il dato storico rappresentato) e il soggettivo (l'interpretazione dei fatti) non maschera l'intento ideologico dell'autore (riformistico per Alonge e Zambetti, rivoluzionario per Meccoli). Così facendo, però, non rilevano la vera novità, dettata dalla cifra stilistica & film, che risiede nell'aver saputo ridare al “film storico, una linea oggettiva, nella migliore tradizione rosselliniana, È questa l'interpretazione di Bruno Torri. Su «Mondo Operaio» [I fatti di Bronte e il film storico, «Mondo Operaio», n.5, maggio 1972] il recensore vede nel film di Vancini la consacrazione del primato rosselliniano della «fenomenologia» sulla «ideologia», cioè dei «fatti interni» sui «valori esterni». Prima di giungere ad una analisi diretta dell'opera, Torri traccia succintamente una definizione del “film storico”, nell'intento di far risaltare i valori artistici di Bronte. L'articolista non ricorre a concetti astrati ma ad esempi concreti: due esempi che, a suo avviso, sembrano idonei, anche per le loro alte qualità artistiche, a caratterizzare, e a distinguere il “film storico”. «Questi film sono La marsigliese di Renoir e La presa del potere da pare di Luigi XIV di Rossellini. L'uno e l’altro portano sullo schermo fatti storici realmente accaduti. [...] Ciò che li accomuna è lo stesso atteggiamento, etico ed estetico, di fedeltà alla realtà storica. Ciò che li distingue è la diversa posizione ideologica verso gli argomenti trattati. Renoir, negli anni del Fronte Popolare, ripropone alcuni episodi della Rivoluzione francese non tanto per celebrare una epopea quanto per fissare una continuità tra il 1789 e il 1936, tra due momenti di lotte sociali che vedono il popolo (il progresso) vittorioso su chi lo opprime e lo minaccia (la reazione). Il regista francese cerca nella storia di ieri una lezione ancora attuale e la comunica. [...] Rossellini tende invece, nel suo film, ad una oggettività assoluta; in quanto autor mira a dare una piena credibilità e verosimiglianza alla narrazione, ma senza manifestare la propria posizione soggettiva, anzi sforzandosi di far apparire l'opera tutta fatta dal di dentro, tutta chiusa in sé. Tendenzialmente (e schematicamente), l'opera di Renoir è storico-militante; quella di Rossellini storico-didattica: Renoir prende, e spinge esplicitamente a prendere partito; Rossellini, raccoglie, e spinge implicitamente a usare “documenti”». Secondo il critico di «Mondo Operaio» il film di Vancini segue prevalentemente la linea rosselliniana, perché non indirizza univocamente il giudizio dello spettatore, ma ricerca e testimonia la verità delle situazioni e degli accadimenti’. Anche Alberto Moravia, dalle colonne de «L'Espresso», riconobbe all'opera di Vancini il pregio dell'oggettività [... vedi articolo riportato]. Le peculiarità del discorso storico-politico vanciniano emergono ulteriormente dalle analisi di altri due noti critici di sinistra quali Miccichè e Argentieri. Più inclini a leggere nell'opera di Vancini gli inizi di un itinerario rivoluzionario mancato che non gli esiti di un'opera controrivoluzionaria (come fanno invece Alonge e Zambetti), i recensori si premurano innanzitutto di integrare l’opera di Vancini nella tradizione storiografica gramsciana [... vedi articoli riportatati]. La tesi [...] è in qualche modo suffragata da alcune dichiarazioni rilasciate dallo stesso Florestano Vancini al giornale romano «Il messaggero», raccolte da Costanzo Costantini [30 giugno 1972]. Nell'articolo il regista respinge innanzitutto il giudizio dei critici secondo cui egli avrebbe rivisto l'episodio di Bronte alla luce della problematica politica contemporanea, e in particolar modo entro lo schema “riformismo-rivoluzione”, includendo nel riformismo anche il Partito Comunista e riservando la rivoluzione alla sinistra extraparlamentare”, giacché, ricorda Vancini, «il film l'ho scritto dieci anni fa, quando la sinistra extraparlamentare non esisteva». Poi, incalzato dall'interlocutore, l'autore di Bronte afferma che lungi dall'essere una metafora sulla situazione politica attuale, il suo film contiene semmai delle enucleazioni sulle origini della politica della repressione che si proiettano inevitabilmente su un orizzonte storico-sociale che arriva fino alle soglie dell'attualità. «Da Bronte prende avvio una politica che si svilupperà nei decenni successivi sino ai nostri giorni. È la politica dei governi nazionali nei confronti del Sud: il Sud visto come terra di conquista, in senso coloniale. È la politica della repressione che a Bronte viene posta in atto dai garibaldini ed in seguito dai governi che avevano combattuto il garibaldinismo». Il film di Vancini fu accolto favorevolmente anche da alcuni quotidiani del Mezzogiorno [...] Su «Il Mattino», infatti, de Tiberiis [Bronte e le vestali del mito: la cronaca di un massacro diventa un caso di cultura, «Il Mattino», 22 giugno 1972] .scrive: «A me è sembrato uno spettacolo ottimo, scarno, teso, e soprattutto aderente alla verità. E un lavoro che non si liquida respingendolo fra la paccottiglia aneddotica del genere degli scritti di de Sivo, di Buttà, di Acton e forse anche del mio Ulloa nelle sue pagine peggiori: né tanto meno attribuendogli un'etichetta politica, perché, qualsiasi sia la fazione per la quale si militi, un fatto, una verità restano saldi e fermi. [...] Vancini non impone nuovi miti, retoriche populiste, agiografia con segno mutato. Segue sì una cronaca, quella del Radice. Ma non bisogna dimenticare che fra le fonti riportate nel film - perché Bronte è l'unico lavoro cinematografico con una sua bibliografia - vi è per prima Gli atti del processo di Bronte documento ufficiale e non di parte». Voglio, infine, chiudere questa rassegna di critica cinematografica passando dallo sguardo, per così dire, particolare di un meridionale a quello più distaccato (almeno dal punto di vista strettamente politico) di uno “straniero in Italia”. La recensione di Jacques Nobécourt, corrispondente italiano del prestigioso quotidiano francese «Le Monde», contiene a mio avviso una sintesi esemplare, per lucidità intellettuale e competenza culturale, dei valori universali di un’opera che con la sua perfetta osmosi tra forma e contenuto riesce a trascendere il fatto storico e a elevarsi sul piano della testimonianza umana [... vedi articolo riportatati].

Alberto Moravia[7]

{--] Ora già nel titolo c'è la contraddizione feconda a cui, in fondo, il film deve la sua forza. Qual è questa contraddizione? E il fatto che Vancini e i suoi collaboratori Leonardo Sciascia, Fabio Carpi e Nicola Badalucco hanno voluto fare un film “storico” per quanto riguarda il metodo: ricerca accurata delle fonti, scrupolo di oggettività, ricostruzione fedele dell'ambiente; ma, al tempo stesso, “antistorico” cioè contro la storia: così quella agiografica dei libri di scuola come quella “seria” degli storici di professione. Insomma il film è storico nei mezzi e “antistorico” nel fine. E propone una storia vera, popolare e rivoluzionaria, contro la storia falsa della libertà formale e dell'oppressione reale. Ma perché la cronaca diventi storia, ci vuole la rivoluzione che invece non c'è stata né allora nè dopo. Così, alla fine, quando tutto è stato detto, l'episodio di Bronte rimane fuori della storia, in quella zona moralistica magari più elevata in cui vengono denunziate l'ingiustizia, la malvagità, la corruzione, la menzogna. Appunto questa denunzia, che si configura come critica della storia ufficiale, costituisce la forza del film di Vancini. A questo punto però verrebbe fatto di domandarsi se è possibile una storia che non sia fatta e soprattutto scritta dal potere, prima negli archivi poi nei libri di scuola e finalmente nei testi degli storici. Immaginiamo un momento che venga la rivoluzione e recuperi alla storia il fatto di cronaca di Bronte. Chi potrebbe garantirci che i libri di scuola e magari anche il cinema non ne parlerebbero in maniera agiografica e edificante? Vancini e i suoi collaboratori hanno cercato di evitare l'agiografla con una proposta di rilancio neorealista che è anche, però, il limite del film. Semmai la novità e il pregio di Bronte sta nell'ambizione, come abbiamo già accennato, “storica”, in cui bisogna riconoscere l'influenza di Leonardo Sciascia e del suo moralismo pessimista nutrito di letture e di ricerche di archivio. A quest'ambizione si deve il piglio secco ed energico del film, l'assenza della retorica dei sentimenti e delle idee. Ma, curiosamente, il film è tanto più sentito e personale quanto più si studia di essere fedele alle fonti. Mentre diventa impersonale in senso veristico dove la ricostruzione, per forza di cose, è lasciata all'immaginazione. Così la seconda parte, quella della repressione del generale Bixio, nella quale i personaggi si esprimono con le parole stesse riportate nei documenti dell’epoca, ci sembra superiore alla prima, in cui, senza documenti e forse con eccessiva semplificazione, è descritta la ferocia contadina [...]

Lino Micciché[8]

Dal 1930 al 1970 la cinematografia italiana ha realizzato (senza considerare le coproduzioni “minoritarie”) qualcosa di più di 4.300 film di lungometraggio. Tra la predominante paccottiglia, poco più poco meno di duecento titoli potrebbero figurare in una storia del cinema italiano sonoro che fosse sufficientemente diffusa e generosa da soffermarsi anche sui minori e sui minimi. Ma, se invece si volesse soltanto considerare il “film storico” — operando evidentemente una netta distinzione con il “film in costume — basterebbero le dita di una mano: 1860 di Alessandro Blasetti (1934), La pattuglia sperduta di Piero Nelli (1954) Senso di Luchino Visconti (1954), Viva l'Italia di Roberto Rossellini (1961), Il gattopardo di Luchino Visconti (1963). Cinque film e alcuni tra essi tutt'altro che capolavori. Nient' altro o quasi. Spiegazioni? Poche e semplici. Prima, sotto la dittatura mussoliniana, i “film storici” erano soltanto “film in costume” e quando “storiografavano” era in pieno ossequio alle distorsioni interpretative della “dottrina” fascista. Ci sarebbe da morire dal ridere oggi a rivedere taluni di quegli esemplari di storia patria, se dietro le mistificazioni di cartapesta non si nascondessero le ben più tragiche verità del regime. Poi, nel primo dopoguerra, la fase di realtà immediata dapprima e quindi talune assolutizzazioni teoriche del “neorealismo” — per cui sembrava rinunciatario qualsiasi sguardo retrospettivo — esclusero la Storia dagli schermi. Quando nel secondo dopoguerra vi sì cimentarono cineasti come Nelli o Visconti, il film del primo sparì dalla circolazione appena uscito e il capolavoro del secondo portò un oscuro sottosegretario democristiano a esclamerei indignato: “Hanno infangato anche il Risorgimento!”. Si aggiunga che, per quanto esortati alla storia, gli italiani non sembrano esservi particolarmente inclini neppure a livello della storiografia scritta. Mentre c'è voluto uno storico inglese, Mack Smith, per risvegliare i nostri interessi storiografici nei confronti del Risorgimento, nelle patrie scuole si continua a insegnare, con poche varianti, che Garibaldi disse a Bixio “Qui o si fa l'Italia o si muore” e che a Teano il Generale caracollò verso Vittorio Emanuele II dicendo “Saluto il Re d'Italia” e che questi rispose “Saluto chi l'ha fatta”; Cavour, a Torino, meditava intanto il nostro bene. Cosi abbiamo soltanto cinque “film storici” (o poco più se ci aggiungiamo ad esempio, La grande guerra di Monicelli e Uomini contro di Rosi, che però riguardano periodi più recenti). Se ne aggiunge ora un sesto: Bronte di Florestano Vancini, significativamente sottotitolato Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. Già perché, se per rompere il muro di silenzio sulla repressione attuata dai “garibaldini” nei confronti del proletariato e sottoproletariato siciliano nel 1960 fu necessario attendere che nel 1910 un professore siculo, Benedetto Radice, scrivesse su una rivista siciliana una monografia intitolata Nino Bixio a Bronte, l'omertà storiografica continuò per più di mezzo secolo ed è soltanto nel corso degli anni ‘50 che la verità ha cominciato a farsi strada, pur diffondendosi soltanto tra gli addetti ai lavori e i non molti loro lettori. Sarebbe interessante sapere a chi e a cosa hanno creduto che alludesse la novella La libertà di Giovanni Verga, i lettori che essa ha avuto dal 1882 in giù. A dire il vero, il Verga, monarchico e crispino a oltranza, non si discosta affatto nel suo racconto dalla linea storiografica ufficiale. “Anche il lupo allorché capita affamato in una mandria, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia” egli scrive dei rivoltosi di Bronte, nella citata novella. E, più sotto, descrivendo il massacro dei “capeddi” con toni assai più accesi di quanto in effetti fu, e seguendo in questo le false cronache del “liberale” Giuseppe Guerzoni: “Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente”. Ma anche il Verga sfiora il vero quando, descrivendo in chiusura della novella lo stupore attonito del carbonaio che, dopo il processo durato tre anni nella “città” (cioè, storicamente a Catania) viene rimesso in ceppi, gli fa dire: « Dove mi conducete? In galera? o perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà! ...”. E in quei puntini di sospensione finali stanno forse e l'inconscio verghiano, assai meno crispino della sua coscienza, e una delle chiavi interpretative dell'episodio. Ai fatti di Bronte, appunto, ignorata pagina fondamentale della moderna “questione meridionale”, Florestano Vancini ha dedicato il suo ultimo film: un antico progetto che già fu del suo produttore, Mario Gallo, poco dopo il ‘60, e che egli ha potuto realizzare lo scorso anno su una sceneggiatura cui hanno lavorato, oltre al Vancini stesso, Nicola Badalucco, Fabio Carpi e Leonardo Sciascia. Quello che è senza dubbio alcuno il migliore film del regista ferrarese — e anche uno dei pochi e dei più significativi “film storici” italiani, cinque, o dieci, o quindici che essi siamo — è stato tutto interamente costruito sulla base di una ineccepibile documentazione (citata come una bibliografia nei titoli di coda del film: un inedito indice di serietà scientifica), a cominciare dagli atti del processo di Bronte del 9 agosto 1860 [...]. Gli autori non hanno ceduto né alla tentazione di stilizzare il racconto, né a quella di frammentarlo, costruendolo in flashback a partire dal processo. Il film ha probabilmente pagato questa rinuncia sul piano strettamente estetico (la relativa lentezza della prima parte), ma ne ha indubbiamente guadagnato sul piano di un necessario didascalismo storiografico. Il racconto si avvia e prosegue dunque orizzontalmente, dopo una breve premessa che vale a definire le condizioni sociali di Bronte (un poveraccio viene bastonato a sangue assieme al proprio figlioletto 6 sorpreso a rubare legna), lungo le brucianti giornate tra il 3 e il 10 agosto 1860 in cui si svolsero i fatti [...]. Inizia così l'irrisolto dramma del meridione italiano che né il famigerato prefetto Mori in tempo fascista, né la Cassa per il mezzogiorno in periodo repubblicano hanno saputo positivamente risolvere. Vancini e i suoi collaboratori hanno bene inteso il valore emblematico — e storico — dei “fatti di Bronte” e li hanno infatti restituiti nella loro crudezza e nella loro dialettica con uno scrupolo che, anche in questo caso, può forse avere privato il film di qualche impennata stilistica, ma gli dà per altro un notevolissimo valore storiografico. Semmai essi hanno insistito, parcamente ma percepibilmente, su due punti: la funzione sottile e determinante che ebbe sull'intera vicenda la vicinanza della ducea britannica, di cui hanno sottolineato la gattopardesca lungimiranza e il piano di potere che andava ben oltre Bronte; l'alternativa dialettica Lombardo/Gasparazzo, che, in termini attuali, potrebbe essere definita l'alternativa tra riforme e rivoluzione. Su tutto si riaffaccia l'interpretazione comune alla più intelligente storiografia risorgimentale, e già di Gramsci, del Risorgimento italiano come “rivoluzione tradita”, ovvero come sovvertimento politico cui fu artatamente e militarmente impedito di divenire sovvertimento sociale. Mentre è fin troppo ovvio che l'atteggiamento degli autori — e degli spettatori che lo sappiano cogliere — emblematizza in quella grande speranza ottocentesca le altre e più recenti speranze di chi ottantacinque anni dopo, come l'avvocato Lombardo e i contadini di Bronte, non voleva soltanto mutare regime, sia pure ponendo fine a quello atroce della dittatura fascista, ma voleva mutare società. Si potrebbe scrivere a lungo del film di Vancini ed è indubbio indice del suo apporto alla crescita di una coscienza storica che vengano in mente per ultime le considerazioni di natura più strettamente cinematografica. Gli autori si trovavano di fronte un dio corale con pochi ma salienti protagonisti (...) la massa quale protagonista primaria. L'equilibrio tra questi due elementi cosi contrastanti era estremamente difficile ed essi sono riusciti a realizzarlo. Gli autori dovevano altresì dosare la rievocazione vera e propria dei fatti quella necessaria e inevitabile “coscienza del poi", un senso agli eventi storici. A questo hanno raggiunto lo scopo, aiutandosi con (...) e con un forse lieve eccesso soltanto nel sovraccarico musicale di canzoni “popolari” (per altro assai belle) nella prima parte. Avendo poi a che fare con una piccola (...), dovevano risolvere un problema scenografico non indifferente: ricostruire in modo plausibile, ma leziosaggini figurative e preziosismi archeologici ebbero finito per distogliere l'attenzione dal vero obiettivo. Sono riusciti tutto sommato anche in questo, pure se con occhio attento risulta abbastanza evidente l'orizzonte siciliano della vicenda sottolineato dai volti degli attori jugoslavi (per altro molto bravi). L'operazione è dunque nel complesso nettamente positiva e questo film andava obbligatoriamente proiettato nelle scuole. Perché ad un secolo dall'unità di Italia il vero senso della mar “mille gloriosi guerrieri” a risalire lungo lo “stivale" ancora tutto da definire.

Mino Argentieri

Alcuni recensori che scrivono su giornali di destra si sono risentiti per Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. La loro reazione era prevedibile: ogniqualvolta un regista si appresti a rivedere le bucce delle glorie nazionali, il men che gli avvenga è di essere accusato di lesa patria. E' capitato a Monicelli e a Rosi, rispettivamente per La grande guerra e per Uomini contro; capita adesso a Florestano Vancini, che e andato a spulciare un episodio poco noto della spedizione dei Mille. Il Risorgimento è intoccabile, brontolano i conservatori, di Garibaldi non è lecito “dir male” [...]. Dunque, sarebbe riprovevole tangere Bixio perché i monumenti devono essere protetti e, visto che il garibaldino in ballo era il braccio destro del generale, guai a gettar ombra tramite la sua persona sul biondo esule di Caprera, immortalato nel mito e maltrattato nella realtà dai Savoia che di lui si valsero per poi cacciarlo in disparte. Eppure il mito, procura più torti che rispetto ai suoi soggetti, mummificando Garibaldi nei panni di un generoso, politicamente ingenuo e gabbabile con facilità, e insaccando Bixio nella divisa di un personaggio salgariano; laddove l'uno fu un individuo che visse e soffrì le contraddizioni del Risorgimento e mostrò spesso un realismo ignoto all’apostolo Mazzini, e l’altro non ebbe mai spalle per sollevarsi dal rango dei fegatacci adusi all'obbedienza e all'enfasi. Nel suo film, di Garibaldi Vancini non parla, né bene né male. Piuttosto ci si ricorda che il dittatore della Sicilia, subito dopo lo sbarco, promise che le terre del demanio sarebbero state assegnate a chiunque avesse combattuto per l'unità d’Italia. Non appelli retorici erano stati lanciati, ma promesse che attenevano al problema del consenso popolare alla lotta per l'unificazione nazionale. Come si sa, da cosa non nacque cosa. Furono i ricchi proprietari, i voltagabbana servitori fedeli dei Borboni, rapidamente convertitisi, ad armeggiare per ricavar profitto dalla nuova congiuntura, e ai braccianti ingannati non rimase che lasciar esplodere l'ira aggrumatasi, mandando a morte crudele gli esponenti del privilegio trionfante. Accadde a Bronte un massacro e anche altrove si ebbero sollevazioni e rivolte, su cui gli storici della borghesia hanno preferito sorvolare e che i cronisti garibaldini (i più accessibili alle svogliate letture scolastiche) hanno rappresentato con parzialità. Non a caso, ancora oggi si invocano le testimonianze dell'Abba, che dei Mille fu cronista inattendibile, nel senso che si diede a trasfigurare i contorni di quelle imprese e guardò attorno a sé disposto al canto, non a uno spassionato resoconto. [...] Verga, nella novella Libertà, andò a ripescare gli avvenimenti di Bronte e ne ritagliò una versione letteraria, di cui opportunamente Leonardo Sciascia ha contestato la veridicità storica e l'angolazione. A riequilibrare la bilancia non concorsero davvero gli studiosi borghesi del Risorgimento; ma a riprendere in mano le pagine di Bronte si misero più tardi studiosi locali come Benedetto Radice, che ebbero la pazienza di ricostruire l'episodio taciuto e dimenticato, ricomponendolo pezzo a pezzo sulla traccia di polverosi documenti di archivio. A quest'opera di ricostruzione, integrata negli anni, si ricongiunge il film di Vancini, che non romanza la cronaca ma vi si conforma con scrupolosa 0ggettività. Ancor prima di assumere un valore cinematografico, l'operazione acquista una fisionomia culturale nella misura in cui è intenta a ristabilire la verità e a socializzarla e a diffonderla in un paese ove la storia del Risorgimento non la si conosce ovvero è percepita, al livello delle moltitudini, sul piano ingannevole, emotivo e semplicistico della leggenda. In questa circostanza il cinema più che scoprire divulga e s‘incammina nei campi arati da scrittori e Saggisti îtaliani, per non aggiungere all'elenco lo storico inglese Denis Mack Smith che ha fornito il suo apporto alla esplorazione critica dei nostri trascorsi meno remoti. Ma divulga intanto non per amore dell'aneddotica e dell'archeologia bensì per riaprire la meditazione sul passato sicché la comprensione di esso lumeggi l'odierna esperienza, Affinché, insomma, non si proceda soltanto alla ricerca delle nostre radici ma si colgano i gangli di una conflittualità sociale che perdura e promana da vicende che appartengono alla memoria collettiva. La scelta del “fattaccio di Bronte” e il suo giusto inquadramento sono, anzi, duplice faccia di una cultura che riconsidera la enucleazione dello Stato unitario nel solco tracciato dalle classi lavoratrici e dalle idee socialiste. Si capisce pertanto il livore dei recensori reazionari, che confutano, insieme con il film di Vancini, la storiografia democratica. Costoro, ammettiamolo, cadendo nella provocazione, hanno lo sguardo lungo e il loro presunto patriottismo ferito non abbagli. Se Vancini e i numerosi autori ai quali il regista si è ispirato si fossero limitati a ribaltare uno schema e a rovesciare le tasche della mitologia risorgimentale, forse i protestatari non avrebbero avuto ragione di lamentarsi e di versar lacrime miste a fremiti di indignazione. La denuncia della “conquista regia”, che portò alla aggregazione delle regioni meridionali, non li turba finanche nell'emergere di una episodica spinosa. Non si spiegherebbe altrimenti perché ci si indigni di fronte al Bronte di Vancini e si ignorino invece i capitoli che l'ultimo libro di Carlo Alianello riserva alle nefandezze commesse dagli eserciti liberatori e dalle autorità piemontesi nel Sud. Ma la suscettibilità segue pur essa le regole della convenienza politica, e a decifrarne l'apparente bizzosità ci orienta il volume da noi menzionato, che non è parco di sconcertanti documentazioni. Alianello demitizza non meno di Vancini, e su scala di gran lunga più panoramica; ma lo legittima, a smorzare gli ardori della pubblicistica patriottarda e tradizionale, un punto di vista proteso alla riabilitazione dei Borboni e del regno delle due Sicilie. Lo legittima, è ovvio, agli occhi di coloro che bollano Vancini e gli storici democratici, i quali si addentrano in un'analisi inconcepibile se non lungo la scia di ripensamenti dettati dall'esistenza del movimento operaio. Ed è questo elemento specifico - una valutazione non soltanto in classisti del Risorgimento, ma che si situa sul versante, le classi sfruttate - che essi condannano e rigetta, risiede “lo scandalo” e la novità effettiva di un discorso che nel cinema italiano qualcuno aveva iniziato ed è stato subito interrotto. Visconti vi fece cenno, in Senso, riferendosi a una rivoluzione incompiuta ai suoi albori e timorosa del concorso popolare; e successivamente ribadì il concetto con Il gatto avvinto abbastanza al testo di Lampedusa per non su: il fondamentale antistoricismo e le suggestioni decadentistiche e l'afflato nostalgico, ma anche provviste del minimo distacco necessario a chiarire che non di aborto e di un mero cambio della guardia s'era trattato nell'avvicendarsi delle classi dirigenti, bensì di una rivoluzione tradita. Vancini, rievocando il doppio eccidio di Bronte va più distante di Visconti e percepisce nel dramma siciliano uno spartiacque che suggella il fallimento di una fase storica della borghesia e dischiude una prospettiva diversa. Perno tematico del film non è tanto il trasformismo delle baronie borboniche quanto la paura, per un verso, per l'altro l'ignoranza delle masse popolari e della loro sete di giustizia sociale: fenomeno questo che, a gradi molteplici e con molteplici connotazioni, non risparmiò il nostro Risorgimento e non esentò le menti più acute e i cuori più fervidi. Non Bixio viene condotto alla gogna e paragoni

  1. Pasquale Iaccio, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, Liguori, Napoli, 2002, pp.1-3
  2. Giovanni Verga, Libertà, in “Novelle rusticane”, Treves, 1883
  3. Pasquale Iaccio, Cinema e storia. Percorsi immagini testimonianze, Liguori Editore, Napoli, 2000, p. 414 ss.
  4. Pasquale Iaccio, Bronte, cit., p. 59 ss.
  5. Pasquale laccio, Cinema e storia, cit., pp. 421 ss.
  6. Vincenzo Esposito, in Pasquale Iaccio, Bronte, cit., p.29 ss.
  7. Il pane sulla punta delle baionette, “L'Espresso”, 7 mag 1972; ora in Id., Al cinema. Centoquarantotto film d'auto, Bompiani, Milano, 1975.
  8. Bronte, “Avanti!”, 28 maggio 1972; riscritto per Il cinema italiano degli anni ‘70. Cronache 19681 Marsilio, Venezia, 1980