1985

Ente promotore
Comune di Bellaria-Igea Marina, Azienda Autonoma di Soggiorno di Bellaria-Igea Marina
Patrocinio
Ministero del Turismo e dello Spettacolo Amministrazione, Provinciale di Forlì
Comitato Tecnico
Enrico Ghezzi, Morando Morandini, Gianni Volpi
Giuria
Stefano Benni, Sylvano Bussotti, Goffredo Fofi, Timin Mantegazza, Maurizio Nichetti, Roberto Silvestri, Dario Zanelli (presidente)
La marginalità attiva dei film-makers
di Gianni Volpi
Torino, Milano, Roma, il Veneto, il Sud; televisioni di stato o private, nazionali o confinanti, università, scuole di cinema, mini - "factory", committenze pubbliche: il cinema indipendente italiano è nato sotto il segno della dispersione. Altri direbbe del decentramento o parlerebbe di cinema espanso. È, invece, il risultato di una necessità che si è fatta coscienza (della realtà di un contesto, dei modi possibili di agire in esso). Sembra definirsi a partire da una serie di assenze. Prima assenza, quella di una vera industria. Industria significa possibilità di realizzare e di esprimersi, efficienza e continuità, ma pure coraggio imprenditoriale, ricambio di quadri, apertura alle forze vive, vicine ai gusti del pubblico e ai loro mutamenti. Il sistema produttivo italiano era ed è invece fondato sulla precarietà, sull’assistenzialismo, sulla chiusura al nuovo e diverso: sulla crisi come condizione permanente. Cinecittà è stata, nell’ultimo decennio, una specie di ’’boomtown”’, di città-fungo dell’effimero, una specie di "ghosttown", di città fantasma abbandonata nella corsa alle nuove realtà industriali e mediologiche. Dopo tante generazioni di ’’bruciati verdi”’ che lo stesso cinema italiano (quello ’’arrivato’’) ha più volte raccontato (gli ’’sconfitti’’ come riflesso amaro della propria condizione e, alla fine, giustificazione dei propri ’’tradimenti’’), i giovani film-makers sembrano rifiutare la strada consueta delle attese kafkiane, delle anticamere del sottopotere e del sottogoverno romano, che non approda a nulla o, al più, a qualcosa che non è ciò che si voleva fare. E in piena decadenza il mito della Roma dei cappuccini e dei progetti, se non per un sottobosco di marginali. Si scelgono altre strade non più facili, ma più concrete. Autonome. Locali. Televisive. La dissoluzione del mito unitario del cinema romano (in senso geografico, ma pure come mentalità) esprime se non altro una volontà di non-resa all’esistente, al cinema com'è. Su come deve essere, poi, ogni film è un caso a sé. Difficile tentarne una tipologia. Più utile sarebbe analizzare, aliena nei modi di produzione, le singole esperienze. Tutto sommato, ci sembrano di tre tipi: quelle cooperative, che oggi tentano di darsi durata e organicità (esempio, la ’’factory”’ su cui lavora Segre); quelle variamente legate alla Terza Rete della RAI e alle sue sedi locali (essenziale, ad esempio, è il ruolo di capistruttura come Dapino, a Torino); quelle che si avvalgono dell’aiuto finanziario di enti locali, di scuole di cinema, di rassegne specializzate, tipo il Film-Maker di Milano che assegna premi al soggetto, non al film fatto. Sono tutte strade provvisorie (almeno le prime due, potrebbero, però, consolidarsi), che tuttavia consentono in una certa misura di essere se stessi, che per ora garantiscono che a prevalere è l’elemento ricerca, l'elemento espressione, in ogni caso una salutare l'elemento indagine. Impongono in ogni caso una salutare necessità di fare i conti con i problemi pratici del fare cinema, di controllo del processo creativo nella sua globalità; impongono di calare le proprie scelte narrative e stilistiche nei concreti modi di produzione, fuori da ogni mito idealistico di Autore. Del resto, già un grande poeta francese diceva che ’’l’arte vive di costrizioni’’, lo scontro con le difficoltà imposte a ogni livello dal proprio contesto è un atto vitale, un momento essenziale del processo creativo: un limite produttivo, che produce in positivo. Semmai i pericoli sono più sottili, più interni ai filmmakers stessi, vengono da altre tentazioni: quello di una gestione (non direi, concezione cosciente) della tecnica come fatto autonomo, come valore in sé, un ’"saper girare" che non è più soltanto una necessaria premessa, ma che prevale completamente, cancella la classica questione su ’"che cosa filmare"; i miti modaioli (ambienti, comportamenti, look, ritmi giovanili, quali sono imposti dal consumo, pubblicitario e musicale soprattutto, e ’’generi’’ relativi: degrado metropolitano, deriva esistenziale magari in forma di azione violenta e di gesto vitalistico, incubi fantascientifici, uso snobistico dei comics e dei prodotti della cultura di massa...) cui quasi sempre si accompagna la fascinazione per le nuove tecnologie, la fiducia acritica e fideistica per le "magnifiche sorti e progressive" che esse schiudono, anzi l'entusiasmo provinciale, da colonizzati (che è l’altra faccia della stessa medaglia della chiusura aprioristica), non tanto interessato a discutere, analizzare, sperimentare le potenzialità delle nuove realtà tecnologiche e mediologiche, e invece succube della loro versione americana, dell’uso e delle forme che di esse vengono diffuse dai mass-media d’oltreoceano (e in questo hanno non piccole responsabilità certa critica di sinistra, certo pensiero ’’moderno”’ e ’’avanzato”’); infine, tutta una gamma di convenzioni televisive ’"di successo", un gusto medio corrente, anche nelle sue varianti ’’anticonformiste’’. Laddove, ciò che dovrebbe essere più importante per un giovane cineasta (anche in termini promozionali, di carriera) è proprio la differenza. Alla fine, in sostanza, il problema torna a essere quanto si tratti di una ’’indipendenza” scelta e quanto subita. Un altro dato sociologico gioca per ora a favore dell’area indipendente: che essa produce professionalità, ma non assicura una professione. I giovani film-makers si guadagnano perlopiù da vivere con attività legate ai media, pubblicità, servizi e programmi televisivi, realizzano documentari per una committenza privata o pubblica (soprattutto, gli enti locali) che nei casi più sperimentali sono vere e proprie videoriviste, più raramente lavorano in gruppi di ricerca teatrale; cioè, lavorano sull’immagine, sperimentano, si misurano con i concreti problemi di tecnica e realizzazione, tipici di un artigianato su commissione ma con precisi margini creativi che resta una buona scuola. È un affare che evita loro l’assillo della ricerca ansiosa di un produttore, di proporre qualcosa che tira sul mercato o di realizzare l’Opera Assoluta, da grande Poeta o Artista. Le loro opere le realizzano quando se ne presenta l'occasione finanziaria e hanno qualcosa da dire. È una marginalità un po’ da provincia virtuosa e pragmatica, ben diversa da quella del sottobosco bohemien e artistoide romano. Può darsi che sia vissuta dai più come una condizione provvisoria (e la provvisorietà appare l’altra categoria essenziale dell’area indipendente), può darsi che non abbia prospettive. Ma un vero e grande artista come Buñuel ricordava, un po’ marxianamente, che nessuna necessità economica giustifica la prostituzione dell’arte, e che la sua condotta morale restava quella di dire sempre e, soprattutto, soltanto le cose che gli stavano davvero a cuore. Qualcosa, intanto, hanno già dato. Senza volere teorizzare improbabili riappriopriazioni del ’’mezzo’’ cinema, una sua diversa funzione, diverse modalità d’uso. Una linea più o meno sommersa di cinema indipendente, del resto serpeggia lungo tutto il cinema italiano del dopoguerra, dalle esperienze ’’politiche’’ e impegnate di Zavattini, dell’ ANPI negli anni cinquanta ai primi film dei fratelli Taviani, e poi a quelli di Bellocchio, Bene, Nanni Moretti, giù giù sino a Piavoli. Oggi, essa appare però più diffusa. Per ragioni tecniche (di diffusione di possibilità tecniche più variate e leggere), per ragioni economiche (di costi produttivi), per ragioni di coscienza teorica della realtà cinematografica. Si è detto ’’diffusa’’, non certo sistematica o organizzata. É un’area diffusa in senso geografico (solo per il centro-sud, cioè lontano dall’epicentro del fenomeno, l’asse Milano-Torino, Roberto Silvestri ne ha stilato una fittissima, capillare mappa, regione per regione, provincia per provincia, complicata da migrazioni interne e svariante dai ’’professionisti’’ episodicamente già penetrati nel circuito commerciale ai videoamatori locali), e ancor più lo è quanto ai mezzi, ai formati, anche se film a 16 mm e video in 3/4 sembrano imporsi come i poli essenziali del loro lavoro. Questa frammentazione esasperata ci pare, in questo momento, più che giustificata, doverosa. Non è il momento di fissare "scuole", di definire linee di tendenza, peraltro ancora prive di progetto e di valori in atto. Che mille fiori fioriscano e mille scuole gareggino va di nuovo bene. Senza bisogno di legittimazioni: del mercato, della critica. Si tratta, però, di qualcosa di diverso dalla creatività narcisista tipo ‘77. Alla fine, deve essere qualcosa di utile e interessante per noi spettatori comuni e non. Non può essere soltanto il ricambio dell'esistente o il freddo culto, da replicante, per il feticcio elettronico. Un caos regolato, un delirio organizzato sul piano dell’azione culturale e su quello delle scelte stilistiche, può essere la lezione che hanno ancora da proporre gli ’’irregolari’’ degli ultimi veri ’’nuovi cinema” (e come variante tecnica più agile e economica del cinema è usato il video, e come tale può essere considerato, ma le questioni sopra e sotto la comunicazione elettronica sono ben lontane dall’essere state analizzate e risolte in maniera soddisfacente), i Godard e i Rocha degli anni sessanta. In questo senso, che i film-makers si siano scelti punti di riferimento che saltano completamente Roma e il suo modello di cinema (e di televisione), che si inventino altri padri e recuperino altre tradizioni, è un elemento positivo. New York, ma la New York ’’indipendente’’ di un’arte povera che vale non perché povera, ma perché ricca di idee, perché detector di sensibilità diverse, esercita senza dubbio una forte attrattiva (tanto meglio se depurata dai miti del Rifiuto, dell’ Altro, del Diverso, del Sotterraneo, su cui il pensiero filosofico ha da tempo esercitato una dura e doverosa critica, e invece magari comprensiva dell’interesse per i vecchi ’’generi”’, per i B-film), recuperati in varianti d’autore, intellettuali, in opposizione all’autoritarismo dell’Opera Alta. Più precaria, più contrastata è invece la trasposizione dei suoi stretti nessi con la scena musicale (anche per quello che, in fatto di interpreti, essa ha rappresentato), ché da altrove (dalle video-clip, dall’industria discografica) vengono i rari esempi nostrani, più o meno interni e ironici. L’altra lezione di rilievo sembra essere quella, mai fino in fondo sfruttata nelle sue implicazioni e potenzialità, del cinema-verità, come prodotto di un cinema agile, di un cinema imperfetto ma vitale. Come tentativo di apertura al reale, ma senza più fideismi di vent’anni fa sulla ’’rivelazione’’ della verità dell’esistenza. Come scoperta di realtà in atto 0 progetto di riflessione. Dietro c’è il tanto utile quanto poco praticato metodo dell’inchiesta (che, per inciso, sarebbe forse servita, anche a proposito del cinema indipendente, più di queste osservazioni esterne), metodo finalizzato a un’idea di affabulazione che nasca dall’interno della realtà stessa (con tutto ciò che, anche in termini cinematografici, permette questo gioco di rifrazioni e rapporti tra documentario e finzione), di racconto di figure e situazioni vere. Si apre qui quello che negli ultimi mesi si è venuto proponendo come il problema centrale per i film-makers, il problema della narrazione, dei contenuti, dell'immaginario, secondo un nesso tra i tre piani che è più stretto di quanto non appaia. Che nessuno abbia sinora mostrato un forte segno personale, una vera visione del mondo, è un fatto che va oltre un problema di talento (di cui alcuni non sono davvero sprovvisti) o di modi di produzione, tocca più profonde ragioni generazionali. A metà anni ’60 Bellocchio poteva esordire a Piacenza (a Bobbio) senza essere provinciale, e da Parma Bertolucci s'imponeva come uno dei capifila delle nouvelle vague europee: eppure raccontavano storie radicate in realtà precise, anzi d’ispirazione autobiografica. Ma la perentorietà del loro stile, della loro visione, nasceva anche dalla presenza di una storia e una cultura cui sapevano riferirsi (niente di più). Già la generazione del ’68 non ha prodotto nulla in campo artistico e cinematografico: perché più interessata a distruggere le Istituzioni culturali del Potere, perché la sua cultura era una cultura politica, o subordinata, mediata dalla politica. Oppure c’era, più o meno cosciente, il senso di un’impossibilità, una volta distrutte le morte forme, di consenso o di opposizione, di una cultura che nella sostanza affondava le proprie radici negli anni venti-trenta, a produrne una nuova, organica, forte? È un’ultima, decisiva assenza, quella di esperienze storico-culturali. precise di cui magari costituire le varianti eterodosse, critiche, se non la negazione, in cui si trovano a operare i film-makers di oggi. La scomparsa della metafora, di forme capaci di penetrare le realtà soggiacenti e prime, ne è un altro segno. I soli fenomeni veramente impostisi nel cinema di questi anni sono la Nuova Spettacolarità americana e il Giovane Cinema tedesco (meglio ancora, Wenders e di riflesso Handke). L’uno e l’altro, infine, improponibili. L’uno per ragioni strutturali, oltre che di ruolo, di statuto dei cineasti. Il secondo, dopo essere stato acutissima espressione di una nuova sensibilità, di uno stile di vita che si fa stile di racconto, rischia nei suoi stessi prototipi di chiudersi su se stesso, nella proposta di una forma (se non di una maniera). Proprio una forma è il vero punto di forza e valore che percorre il lavoro di questi giovani video-cineasti; è la forma di un diverso sentire, in sé significativo, compresi la sua frammentarietà e i suoi caratteri indotti, mutuati da altrove, ed è la forma documento che, più che analisi (tranne rarissime eccezioni, in fondo di un’altra generazione), è rapporto esperienza. E il loro dato più nuovo e originale. Ciò che gli può chiedere è di essere più radicalmente se stessi (è l'esatto contrario di un meschino privato), senza rimozioni, anzi puntando, secondo la classica funzione attribuita a ogni esperienza artistica, a portare alla luce ciò che in sé e negli altri è rimosso: di essere capaci di uno sguardo (temi, toni, ritmi, stili, e uno stile rigoroso non è nient'altro che un modo di pensare rigoroso, sapeva già Flaubert) e di un'intelligenza proprie. Fuori dal limbo attuale. Di assenze si può vivere: se non altro, permettono di cantare canzoni non cantate sul piano produttivo come su quello espressivo. Permettono il rischio e la curiosità; insomma, di mettersi in questione e di cercare soluzioni nuove per problemi reali. Nel merito, si vedrà.
Ultime leve - Un questionario ai film-maker italiani
a cura di Paola Candiani e Goffredo Fofi
Un questionario ai film-maker italiani[1]
Concorso
- Aldis di Giuseppe Maria Gaudino
- Andata e ritorno di Daniele Segre
- Attenzione ai camionisti
Retrospettiva
La "22 Dicembre"
di Tullio Kezich
I film
- I basilischi di Lina Wertmüller
- Il terrorista di Gianfranco De Bosio
- I Fidanzati di Ermanno Olmi
Note
- ↑ Parte presente nel catalogo. Intervesti ai registi. Da implementare.