1985

Ente promotore[modifica | modifica sorgente]
Comune di Bellaria-Igea Marina, Azienda Autonoma di Soggiorno di Bellaria-Igea Marina
Patrocinio[modifica | modifica sorgente]
Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Amministrazione Provinciale di Forlì
Comitato Tecnico[modifica | modifica sorgente]
Enrico Ghezzi, Morando Morandini, Gianni Volpi
Giuria[modifica | modifica sorgente]
Stefano Benni, Sylvano Bussotti, Goffredo Fofi, Timin Mantegazza, Maurizio Nichetti, Roberto Silvestri, Dario Zanelli (presidente)
La marginalità attiva dei film-makers[modifica | modifica sorgente]
di Gianni Volpi
Torino, Milano, Roma, il Veneto, il Sud; televisioni di stato o private, nazionali o confinanti, università, scuole di cinema, mini - "factory", committenze pubbliche: il cinema indipendente italiano è nato sotto il segno della dispersione. Altri direbbe del decentramento o parlerebbe di cinema espanso. È, invece, il risultato di una necessità che si è fatta coscienza (della realtà di un contesto, dei modi possibili di agire in esso). Sembra definirsi a partire da una serie di assenze. Prima assenza, quella di una vera industria. Industria significa possibilità di realizzare e di esprimersi, efficienza e continuità, ma pure coraggio imprenditoriale, ricambio di quadri, apertura alle forze vive, vicine ai gusti del pubblico e ai loro mutamenti. Il sistema produttivo italiano era ed è invece fondato sulla precarietà, sull’assistenzialismo, sulla chiusura al nuovo e diverso: sulla crisi come condizione permanente. Cinecittà è stata, nell’ultimo decennio, una specie di ’’boomtown”’, di città-fungo dell’effimero, una specie di "ghosttown", di città fantasma abbandonata nella corsa alle nuove realtà industriali e mediologiche. Dopo tante generazioni di ’’bruciati verdi”’ che lo stesso cinema italiano (quello ’’arrivato’’) ha più volte raccontato (gli ’’sconfitti’’ come riflesso amaro della propria condizione e, alla fine, giustificazione dei propri ’’tradimenti’’), i giovani film-makers sembrano rifiutare la strada consueta delle attese kafkiane, delle anticamere del sottopotere e del sottogoverno romano, che non approda a nulla o, al più, a qualcosa che non è ciò che si voleva fare. E in piena decadenza il mito della Roma dei cappuccini e dei progetti, se non per un sottobosco di marginali. Si scelgono altre strade non più facili, ma più concrete. Autonome. Locali. Televisive. La dissoluzione del mito unitario del cinema romano (in senso geografico, ma pure come mentalità) esprime se non altro una volontà di non-resa all’esistente, al cinema com'è. Su come deve essere, poi, ogni film è un caso a sé. Difficile tentarne una tipologia. Più utile sarebbe analizzare, aliena nei modi di produzione, le singole esperienze. Tutto sommato, ci sembrano di tre tipi: quelle cooperative, che oggi tentano di darsi durata e organicità (esempio, la ’’factory”’ su cui lavora Segre); quelle variamente legate alla Terza Rete della RAI e alle sue sedi locali (essenziale, ad esempio, è il ruolo di capistruttura come Dapino, a Torino); quelle che si avvalgono dell’aiuto finanziario di enti locali, di scuole di cinema, di rassegne specializzate, tipo il Film-Maker di Milano che assegna premi al soggetto, non al film fatto. Sono tutte strade provvisorie (almeno le prime due, potrebbero, però, consolidarsi), che tuttavia consentono in una certa misura di essere se stessi, che per ora garantiscono che a prevalere è l’elemento ricerca, l'elemento espressione, in ogni caso una salutare l'elemento indagine. Impongono in ogni caso una salutare necessità di fare i conti con i problemi pratici del fare cinema, di controllo del processo creativo nella sua globalità; impongono di calare le proprie scelte narrative e stilistiche nei concreti modi di produzione, fuori da ogni mito idealistico di Autore. Del resto, già un grande poeta francese diceva che ’’l’arte vive di costrizioni’’, lo scontro con le difficoltà imposte a ogni livello dal proprio contesto è un atto vitale, un momento essenziale del processo creativo: un limite produttivo, che produce in positivo. Semmai i pericoli sono più sottili, più interni ai filmmakers stessi, vengono da altre tentazioni: quello di una gestione (non direi, concezione cosciente) della tecnica come fatto autonomo, come valore in sé, un ’"saper girare" che non è più soltanto una necessaria premessa, ma che prevale completamente, cancella la classica questione su ’"che cosa filmare"; i miti modaioli (ambienti, comportamenti, look, ritmi giovanili, quali sono imposti dal consumo, pubblicitario e musicale soprattutto, e ’’generi’’ relativi: degrado metropolitano, deriva esistenziale magari in forma di azione violenta e di gesto vitalistico, incubi fantascientifici, uso snobistico dei comics e dei prodotti della cultura di massa...) cui quasi sempre si accompagna la fascinazione per le nuove tecnologie, la fiducia acritica e fideistica per le "magnifiche sorti e progressive" che esse schiudono, anzi l'entusiasmo provinciale, da colonizzati (che è l’altra faccia della stessa medaglia della chiusura aprioristica), non tanto interessato a discutere, analizzare, sperimentare le potenzialità delle nuove realtà tecnologiche e mediologiche, e invece succube della loro versione americana, dell’uso e delle forme che di esse vengono diffuse dai mass-media d’oltreoceano (e in questo hanno non piccole responsabilità certa critica di sinistra, certo pensiero ’’moderno”’ e ’’avanzato”’); infine, tutta una gamma di convenzioni televisive ’"di successo", un gusto medio corrente, anche nelle sue varianti ’’anticonformiste’’. Laddove, ciò che dovrebbe essere più importante per un giovane cineasta (anche in termini promozionali, di carriera) è proprio la differenza. Alla fine, in sostanza, il problema torna a essere quanto si tratti di una ’’indipendenza” scelta e quanto subita. Un altro dato sociologico gioca per ora a favore dell’area indipendente: che essa produce professionalità, ma non assicura una professione. I giovani film-makers si guadagnano perlopiù da vivere con attività legate ai media, pubblicità, servizi e programmi televisivi, realizzano documentari per una committenza privata o pubblica (soprattutto, gli enti locali) che nei casi più sperimentali sono vere e proprie videoriviste, più raramente lavorano in gruppi di ricerca teatrale; cioè, lavorano sull’immagine, sperimentano, si misurano con i concreti problemi di tecnica e realizzazione, tipici di un artigianato su commissione ma con precisi margini creativi che resta una buona scuola. È un affare che evita loro l’assillo della ricerca ansiosa di un produttore, di proporre qualcosa che tira sul mercato o di realizzare l’Opera Assoluta, da grande Poeta o Artista. Le loro opere le realizzano quando se ne presenta l'occasione finanziaria e hanno qualcosa da dire. È una marginalità un po’ da provincia virtuosa e pragmatica, ben diversa da quella del sottobosco bohemien e artistoide romano. Può darsi che sia vissuta dai più come una condizione provvisoria (e la provvisorietà appare l’altra categoria essenziale dell’area indipendente), può darsi che non abbia prospettive. Ma un vero e grande artista come Buñuel ricordava, un po’ marxianamente, che nessuna necessità economica giustifica la prostituzione dell’arte, e che la sua condotta morale restava quella di dire sempre e, soprattutto, soltanto le cose che gli stavano davvero a cuore. Qualcosa, intanto, hanno già dato. Senza volere teorizzare improbabili riappriopriazioni del ’’mezzo’’ cinema, una sua diversa funzione, diverse modalità d’uso. Una linea più o meno sommersa di cinema indipendente, del resto serpeggia lungo tutto il cinema italiano del dopoguerra, dalle esperienze ’’politiche’’ e impegnate di Zavattini, dell’ ANPI negli anni cinquanta ai primi film dei fratelli Taviani, e poi a quelli di Bellocchio, Bene, Nanni Moretti, giù giù sino a Piavoli. Oggi, essa appare però più diffusa. Per ragioni tecniche (di diffusione di possibilità tecniche più variate e leggere), per ragioni economiche (di costi produttivi), per ragioni di coscienza teorica della realtà cinematografica. Si è detto ’’diffusa’’, non certo sistematica o organizzata. É un’area diffusa in senso geografico (solo per il centro-sud, cioè lontano dall’epicentro del fenomeno, l’asse Milano-Torino, Roberto Silvestri ne ha stilato una fittissima, capillare mappa, regione per regione, provincia per provincia, complicata da migrazioni interne e svariante dai ’’professionisti’’ episodicamente già penetrati nel circuito commerciale ai videoamatori locali), e ancor più lo è quanto ai mezzi, ai formati, anche se film a 16 mm e video in 3/4 sembrano imporsi come i poli essenziali del loro lavoro. Questa frammentazione esasperata ci pare, in questo momento, più che giustificata, doverosa. Non è il momento di fissare "scuole", di definire linee di tendenza, peraltro ancora prive di progetto e di valori in atto. Che mille fiori fioriscano e mille scuole gareggino va di nuovo bene. Senza bisogno di legittimazioni: del mercato, della critica. Si tratta, però, di qualcosa di diverso dalla creatività narcisista tipo ‘77. Alla fine, deve essere qualcosa di utile e interessante per noi spettatori comuni e non. Non può essere soltanto il ricambio dell'esistente o il freddo culto, da replicante, per il feticcio elettronico. Un caos regolato, un delirio organizzato sul piano dell’azione culturale e su quello delle scelte stilistiche, può essere la lezione che hanno ancora da proporre gli ’’irregolari’’ degli ultimi veri ’’nuovi cinema” (e come variante tecnica più agile e economica del cinema è usato il video, e come tale può essere considerato, ma le questioni sopra e sotto la comunicazione elettronica sono ben lontane dall’essere state analizzate e risolte in maniera soddisfacente), i Godard e i Rocha degli anni sessanta. In questo senso, che i film-makers si siano scelti punti di riferimento che saltano completamente Roma e il suo modello di cinema (e di televisione), che si inventino altri padri e recuperino altre tradizioni, è un elemento positivo. New York, ma la New York ’’indipendente’’ di un’arte povera che vale non perché povera, ma perché ricca di idee, perché detector di sensibilità diverse, esercita senza dubbio una forte attrattiva (tanto meglio se depurata dai miti del Rifiuto, dell’ Altro, del Diverso, del Sotterraneo, su cui il pensiero filosofico ha da tempo esercitato una dura e doverosa critica, e invece magari comprensiva dell’interesse per i vecchi ’’generi”’, per i B-film), recuperati in varianti d’autore, intellettuali, in opposizione all’autoritarismo dell’Opera Alta. Più precaria, più contrastata è invece la trasposizione dei suoi stretti nessi con la scena musicale (anche per quello che, in fatto di interpreti, essa ha rappresentato), ché da altrove (dalle video-clip, dall’industria discografica) vengono i rari esempi nostrani, più o meno interni e ironici. L’altra lezione di rilievo sembra essere quella, mai fino in fondo sfruttata nelle sue implicazioni e potenzialità, del cinema-verità, come prodotto di un cinema agile, di un cinema imperfetto ma vitale. Come tentativo di apertura al reale, ma senza più fideismi di vent’anni fa sulla ’’rivelazione’’ della verità dell’esistenza. Come scoperta di realtà in atto 0 progetto di riflessione. Dietro c’è il tanto utile quanto poco praticato metodo dell’inchiesta (che, per inciso, sarebbe forse servita, anche a proposito del cinema indipendente, più di queste osservazioni esterne), metodo finalizzato a un’idea di affabulazione che nasca dall’interno della realtà stessa (con tutto ciò che, anche in termini cinematografici, permette questo gioco di rifrazioni e rapporti tra documentario e finzione), di racconto di figure e situazioni vere. Si apre qui quello che negli ultimi mesi si è venuto proponendo come il problema centrale per i film-makers, il problema della narrazione, dei contenuti, dell'immaginario, secondo un nesso tra i tre piani che è più stretto di quanto non appaia. Che nessuno abbia sinora mostrato un forte segno personale, una vera visione del mondo, è un fatto che va oltre un problema di talento (di cui alcuni non sono davvero sprovvisti) o di modi di produzione, tocca più profonde ragioni generazionali. A metà anni ’60 Bellocchio poteva esordire a Piacenza (a Bobbio) senza essere provinciale, e da Parma Bertolucci s'imponeva come uno dei capifila delle nouvelle vague europee: eppure raccontavano storie radicate in realtà precise, anzi d’ispirazione autobiografica. Ma la perentorietà del loro stile, della loro visione, nasceva anche dalla presenza di una storia e una cultura cui sapevano riferirsi (niente di più). Già la generazione del ’68 non ha prodotto nulla in campo artistico e cinematografico: perché più interessata a distruggere le Istituzioni culturali del Potere, perché la sua cultura era una cultura politica, o subordinata, mediata dalla politica. Oppure c’era, più o meno cosciente, il senso di un’impossibilità, una volta distrutte le morte forme, di consenso o di opposizione, di una cultura che nella sostanza affondava le proprie radici negli anni venti-trenta, a produrne una nuova, organica, forte? È un’ultima, decisiva assenza, quella di esperienze storico-culturali. precise di cui magari costituire le varianti eterodosse, critiche, se non la negazione, in cui si trovano a operare i film-makers di oggi. La scomparsa della metafora, di forme capaci di penetrare le realtà soggiacenti e prime, ne è un altro segno. I soli fenomeni veramente impostisi nel cinema di questi anni sono la Nuova Spettacolarità americana e il Giovane Cinema tedesco (meglio ancora, Wenders e di riflesso Handke). L’uno e l’altro, infine, improponibili. L’uno per ragioni strutturali, oltre che di ruolo, di statuto dei cineasti. Il secondo, dopo essere stato acutissima espressione di una nuova sensibilità, di uno stile di vita che si fa stile di racconto, rischia nei suoi stessi prototipi di chiudersi su se stesso, nella proposta di una forma (se non di una maniera). Proprio una forma è il vero punto di forza e valore che percorre il lavoro di questi giovani video-cineasti; è la forma di un diverso sentire, in sé significativo, compresi la sua frammentarietà e i suoi caratteri indotti, mutuati da altrove, ed è la forma documento che, più che analisi (tranne rarissime eccezioni, in fondo di un’altra generazione), è rapporto esperienza. E il loro dato più nuovo e originale. Ciò che gli può chiedere è di essere più radicalmente se stessi (è l'esatto contrario di un meschino privato), senza rimozioni, anzi puntando, secondo la classica funzione attribuita a ogni esperienza artistica, a portare alla luce ciò che in sé e negli altri è rimosso: di essere capaci di uno sguardo (temi, toni, ritmi, stili, e uno stile rigoroso non è nient'altro che un modo di pensare rigoroso, sapeva già Flaubert) e di un'intelligenza proprie. Fuori dal limbo attuale. Di assenze si può vivere: se non altro, permettono di cantare canzoni non cantate sul piano produttivo come su quello espressivo. Permettono il rischio e la curiosità; insomma, di mettersi in questione e di cercare soluzioni nuove per problemi reali. Nel merito, si vedrà.
Ultime leve - Un questionario ai film-maker italiani[modifica | modifica sorgente]
a cura di Paola Candiani e Goffredo Fofi
Un questionario ai film-maker italiani[1]
Concorso[modifica | modifica sorgente]
- Aldis di Giuseppe Maria Gaudino
- Andata e ritorno di Daniele Segre
- Attenzione ai camionisti... di Ottavio Mai
- Con che passo la frontiera? di Paola Douglas Scotti
- Contadine in fabbrica di Renato Picco
- Dopo il tramonto di Giuseppe Galeotti, Lorenzo Hendel, Giorgio Rinaldi
- ...e all'operatore la camera di bagnò di Turi Greco
- Fuga senza fine di Giannandrea Pecorelli
- Giulia in Ottobre di Silvio Soldini
- Give me a spell di Guido Chiesa
- Incubi catodici di Maurizio Ferrari, Marina Stroder
- Io e Mandrake di Alberto Riviello
- La rivolta delle macchine di Enza Troianelli
- L'instant fatal di Annick Bouleau
- La zona grigia di Pino Mancini
- L'ombra e la fiamma di Gianluca Farinelli, Nicola Mazzanti
- L'osservatorio nucleare del signor Nanof di Paolo Rosa
- Ouverture di Franco Barberi, Marco Di Castri
- Perchè anche l'occhio di Carla Baroncelli
- Polsi sottili di Giancarlo Soldi
- Ragazzi italiani di Oreste Vidoli
- Rosso di sera di Kiko Stella
- Suicidi e omicidi acrobatici di Alessandro Furlan
- Sulle cesane di Umberto Piersanti
- Tiare di Andrea Centazzo
- Tramonto rosso di Francesco Dal Bosco
- Tra realtà e finzione di Giovanni Martinelli
- Vento divino di Maria Martinelli
- 1984 di Sandro Baldacci
Retrospettiva[modifica | modifica sorgente]
La "22 Dicembre"[modifica | modifica sorgente]
Un' esperienza[modifica | modifica sorgente]
di Tullio Kezich
Storicamente, la 22 Dicembre nacque dalla sezione cinema Edisonvolta che produceva dei documentari, dei film didattici per conto della Edison. Erano soprattutto cose sulle dighe, sulle centrali elettriche e tutti questi aspetti della Società. La sezione cinema era stata creata da Olmi che lavorava all’ufficio approvvigionamenti e, prima, era stato attore occasionale - aveva recitato anche con Besozzi. Naturalmente, col tempo, intorno a questa sezione si era costituito un certo personale, un certo bagaglio tecnico che Olmi utilizzò per Il tempo si è fermato, che andò a Venezia e riscosse un certo successo. Fu con questo film, una produzione Edisonvolta, che nacque l’Olmi regista di lungometraggi. Poi, con un gruppo di amici, finanziatori, fiancheggiatori fra cui c'ero io, fece, al di fuori della società, Il posto, avvalendosi dei mezzi della sezione cinema della Edison che dopo furono pagati alla società a un prezzo ”’politico”. Dopo il successo mondiale di Il posto, fu deciso di staccare una parte della sezione cinema e di costituire una società autonoma formata da un gruppo di amici per il 49% e da un 51% Edison, rappresentato dall'avvocato Bruno Janni il quale in quel momento era Segretario Generale della Edison e, grande cultore di cose artistiche, fece un po’ da papà a questa iniziativa. Ricordo la nascita di questa società un po’ come un disegno del Dorè perché una sera Ermanno mi disse che dovevamo andare a trovare questo avvocato Janni che abitava all’Isolino, sul Lago Maggiore e, quando arrivammo sulle sponde di questo lago, di notte, vedemmo spuntare dalle tenebre una barca a remi su cui c’era appunto Janni che, remigando a poppa come Caron dimonio, ci traghettò sull’Isolino, dove sorgeva una sola villa, la sua. C'era questo clima magico, il buio fondo, e questo anziano signore molto bello che ci guidava da gran navigatore con un remo solo... La casa era stata di Toscanini e traboccava di libri, perché Janni è un grandissimo bibliomane, un raccoglitore di prime edizioni. Parlammo a lungo, gli esponemmo le nostre idee e alla fine ci disse che riteneva possibile il nostro progetto e anzi pensava di poter scrivere il copione a Venezia, fare tutta una operazione di documentazione e di sopralluoghi che consentì loro di stendere il copione man mano che scoprivano documenti e luoghi adatti. Quindi fu un lavoro condotto in modo anomalo, come in definitiva nel cinema non si fa mai perché, si sa, si scrive a casa propria e poi si va a cercare, e se non corrisponde si cambia... Dal punto di vista dei contenuti, andammo certamente contro una certa visione celebrativa della Resistenza per inserirne una molto più problematica, con pezzi molto lunghi e anche molto delicati sulle riunioni del CLN. Il film ebbe delle traversie vuoi commerciali vuoi politiche, che ebbero dell’incredibile: tutti i distributori consultati ci ingiunsero di tagliare le scene del CLN, perché nel cinema ”la politica è veleno”. La ”’22 Dicembre” durò così poco perché, secondo me, non eravamo consapevoli della nostra forza e perché in fondo noi per l’avvocato Janni - che era stato un buon papà per la società dato che ci aveva lasciato fare quello che volevamo - rappresentavamo però il cantuccio dei giochi. Non è che lui abbia mai pensato alla '’22 Dicembre” in termini realmente industriali. Dopo ci mandarono anche un consigliere delegato Edison che avrebbe dovuto dare alla società una spinta in senso appunto industriale, e invece era un uomo che, un poco subissato dalla personalità di Olmi un poco dalle cose che erano già in movimento, non lo fece affatto. Direi quindi che la cosa morì di morte naturale perché nessuno l’aveva programmata industrialmente. «Eravamo troppo ingenui, ci avevano messo in mano un giocattolo che ci è servito a realizzare alcuni intenti - cioè a far debuttare giovani autori tipo Prandino Visconti, Caldana (Alberto Caldana, che ha fatto I ragazzi che si amano, un tentativo un po' ingenuo di cinema-verità su due giovani coppie In crisi, un po sul modello di Chronique d’un été di Rouch e Morin) la Wertmüller, a montare il film sulla Resistenza di De Bosio, a far fare a Olmi I fidanzati, a produrre il primo film didattico di Rossellini L’età del ferro, ma, anche se tutti noi avevamo qualcosa da dare a questa società, la somma di queste cose non era sufficiente in un mercato in trasformazione. Perché qui c’è da ricordaterci assicurare una certa tranquillità. Così, al rientro sulla terra ferma, costituimmo questa società che si chiamò ”22 Dicembre” perché quella era la data del giorno in cui ci presentammo davanti al notaio, il 22 dicembre del 1961. L'avvocato Janni aveva un concetto abbastanza moderno del cinematografo, diceva: ”|l cinema, in fondo, è sempre stato messo al servizio del film spettacolare o del documentario puro. lo vorrei fare invece una gamma diversa, più didattica, più letteraria”. Le idee erano abbastanza avanzate perché si parlava di serie per la televisione, di iniziative così, ma erano tutte cose un po’ di là da venire, perché praticamente non c’era ancora un mercato. In realtà, tutto sommato, ciò che a noi premeva di più era produrre dei film. Il momento era buono, il mercato tirava, il cinema esisteva, i giovani affluivano in gran numero e ci pareva che. la politica di Lombardo di quegli anni fosse condizionata ancora da molto vecchio cinema, da scelte sbagliate, mentre noi pensavamo che il cinema si dovesse fare in termini economicamente più ristretti, credevamo molto nel basso costo e in un certo tipo di talento nuovo che doveva emergere. La nostra prima operazione fu Una storia milanese di Eriprando Visconti. Lui aveva pronto un copione di massima e aveva anche alle spalle un produttore, Nello Santi, ma non ce la faceva a quagliare il film perché Santi non riusciva a produrglielo a Milano, c'erano grosse difficoltà. Allora venne l’idea di mettere a disposizione di Eriprando la troupe che aveva fatto Il posto e Olmi stesso fu coinvolto come attore. lo ritengo che tutti i film della ’’22 Dicembre” furono abbastanza pensati. Basta considerare, per esempio, che Una storia milanese ha il commento musicale di John Lewis, e una interpretazione in sei pose di Romolo Valli che per questa si guadagnò il ’Nastro d’argento”. Valli non voleva fare quella parte, fu convinto da me e inventò l'istituto della mezza posa, perché arrivava sul set alle due, ma poi fece delle acrobazie per venire a girare l’unica scena in esterni in Liguria. Con Il terrorista riuscimmo a programmare scientificamente un film. Cioè: prendere il regista con due anni di anticipo, prendere lo sceneggiatore giusto che per noi in quel momento era Luigi Squarzina, piazzarli re che stava arrivando la crisi del 1964 che mise in ginocchio ben altri giganti, e noi non eravamo assolutamente attrezzati per affrontare questo tipo di stravolgimenti. In un certo senso Olmi e Janni avevano delle idee troppo grandi. Ricordo che si parlò molto del famoso Telestar e che attraverso questo, i film della 22 Dicembre potessero essere trasmessi in tutto il mondo. lo mi divertivo molto a sentirli e a guardarli, ormai erano tutti e due: proiettati nello spazio, come se questo Telestar fosse già una cosa fatta.
I film[modifica | modifica sorgente]
- I basilischi di Lina Wertmüller
- I Fidanzati di Ermanno Olmi
- Il terrorista di Gianfranco De Bosio
- I ragazzi che si amano di Alberto Caldana
- L'età del ferro di Renzo Rossellini Jr.
- Una storia milanese di Eriprando Visconti
Spazio Aperto[modifica | modifica sorgente]
Video d'autore indipendente[modifica | modifica sorgente]
a cura di IF-Italian Factory - Longiano (FO) e Centro Cinema - Comune di Forlì
di Franco dell'Amore
Il Premio "ANTEPRIMA" di Bellaria non poteva essere migliore occasione per allestire uno spazio destinato al video d’autore indipendente. In questa terza edizione nasce, tra le varie altre sezioni del Festival, lo ”Spazio Aperto” dedicato alle produzioni video d’autore che si collocano a margine dell’attuale meccanismo distributivo. La storia della produzione indipendente italiana è anche una storia di disagi. Difficoltà che traspaiono dalla mancanza di budget adeguati, a volte nella mancanza di idee, in altri casi nella mancanza di una adeguata rete distributiva già presente e collaudata in altri Paesi. Mettiamo le mani avanti dicendo che questo ”’Spazio Aperto” non è esempio di un sistema distributivo e nemmeno il nucleo attorno al quale dovrà girare un futuro circuito video. Le ambizioni sono, per il momento, queste: creare l’occasione per gli autori di video di incontrarsi ed affrontare i comuni problemi distributivi. Per questo abbiamo organizzato un incontro nazionale di video makers che affronti analisi e prospettive della ’’Distribuzione del video d’autore Indipendente”. Lo ’’Spazio Aperto” è anche una vetrina delle ultime produzioni video. Gli allestimenti di batterie di monitor per strada o in alcuni bar definiscono ambiti e criteri di fruizione. AI di fuori di spazi riservati ed a contatto di un pubblico casuale, al di là di suddivisioni e contenimenti in generi spesso incontinenti il video si troverà so/o ad affrontare un pubblico, a ridefinire uno spazio, a giustificare un lavoro. In questo Spazio Aperto” cinquanta video ed altrettanti autori in una rassegna che non ha fatto preselezioni per un azzeramento delle: competenze ed una massimizzazione delle possibilità.
Partecipano allo Spazio Aperto”: Loretta Amadori, Vincenzo Badolisani, Rosangela Betti, Andrea Bini, Lia Bottanelli, Art Core, Caterina Borelli, Roberto Borroni, Marco Cacciamani, Stefano Campana, Antonio Caronia, Nico Cirasola, Franco Corli, G.B. Corsetti, Raimondo Damiani, Flavia De Giovanni, Theo Eshetu, Laura Falqui, Marco Feno, Elisabetta Ferrari, Alessandro Furlan, Gaia Scienza, Angela Galeotti, Carlo Giunchi, Graffio, Evandro Inetti, Marco Maccaferri, Sara Maggi, Ottavio Mai, Magnetica Attrattive, Inze Mastace, Linea Maginot, "Aldo Merisi, Raffaele Milani, Luciano Monti, Claudio Montini, Sabrina Nevi, Paolo Nitti, Paolo Orsatti, Moreno Pagliari, Guido e Giorgio Pagliarino, Andrea Pellizzer, Riccardo Ponasso, Patrizia Ragusa, Reve- Gardentivision, Giorgio Rosso, Gianriccardo Schieri, Giulio Stambrini, Giorgio Tarocco, Damiano Tavoliere, Mauro Tesauro, Giacomo Verde, Roberto Zaccarini, Enrico Zavalloni.
Incontro Nazionale sul "Video d’autore indipendente e distribuzione” Palazzo del Turismo di Bellaria - Igea Marina Sabato 3 agosto 1985, ore 10.
Sono previsti i seguenti contributi:
- Carlo Giunchi, IF Italian Factory, Longiano: Tendenze del video d’autore indipendente in Italia
- Cristiano Buffa, Centro Video, Milano: Il video d’autore indipendente in Europa: produzione e diffusione.
- Kate Borelli, Video maker: Il video indipendente negli USA.
- Elio Andalò, Roma, Softvideo: la distribuzione del video d’autore italiano in Italia e all’estero.
- Maia Borelli, The tape connection, Roma: Il mercato del video d'autore indipendente italiano: genesi, condizioni e prospettive.
Sulla Spiaggia[modifica | modifica sorgente]
Concorso per video di 3 minuti su tema fisso[modifica | modifica sorgente]
La Giuria composta da Enrico Ghezzi, Morando Morandini, Gianni Volpi, e da Luigi Barberini, in rappresentanza dell'Azienda Autonoma di Soggiorno, e da Nerio Zanzini, in rappresentanza del Comune di Bellaria - Igea Marina, ha selezionato tra i video partecipanti:
- Una storia così di Alberto Achilli
- Sound and sour on the sand di Lia Bottanelli
- Mare Mary di Rosangela Betti
- Klidas di Danilo Conti, Maria Martinelli
- Body Beach di Francesco Montelli
- Il turista di Luciano Monti
- The Shave After di Claudio Montini, Moreno Pagliari
- Lo straniero di Eugenio Sandri
La proclamazione del video vincitore avverrà nel corso della rassegna ANTEPRIMA.
Premi[modifica | modifica sorgente]
- Gabbiano d’oro alla migliore opera in concorso ex-aequo a Giulia in ottobre di Silvio Soldini e L’osservatorio nucleare del signor Nanof di Paolo Rosa
- Gabbiano d’argento a Perché anche l’occhio di Carlo Baronchelli e a Rosso di sera di Kiko Stella
- Concorso Tre minuti a tema fisso - La spiaggia a Klidas di Danilo Conti e Maria Martinelli
Note[modifica | modifica sorgente]
- ↑ Parte presente nel catalogo. Interviste ai registi sull'indipendente. Resta da implementare in wiki, è però consultabile scaricando il catalogo.