2003

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Locandina Bellaria Film Festival, Anteprima per il cinema indipendente italiano, 2003

Enti Promotori[modifica | modifica sorgente]

  • Comune di Bellaria Igea Marina
  • Assessorato alla Cultura
  • Ministero per i Beni e le Attività Culturali
  • Dipartimento dello Spettacolo
  • Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini
  • Sindaco: Gianni Scenna
  • Assessore alla Cultura: Ugo Baldassarri
  • Dirigente Settore Cultura: Italo Cecchini

Direzione[modifica | modifica sorgente]

  • Direzione Artistica: Antonio Costa, Morando Morandini, Daniele Segre
  • Direzione organizzativa: Antonio Tolo
  • Segreteria, ricerca film: Nicoletta Casali, Cristina Gori
  • Catalogo, immagine: Antonio Tolo
  • Ufficio Stampa: Studio MIDI, Moira Miele, Diana Massarotto, Paolo Pagliarani (stampa locale)
  • Ufficio ospitalità: Giorgia Lazzari
  • Immagine di copertina: ElleKappa
  • Proiezioni: Brenno Miselli, Angela Miselli, Ugo Baracchi, Fausto Salomoni
  • Proiezioni video: Mirco Ricci, Emanuele Fabbri
  • Hanno collaborato: Manuela Arenella, Arianna Campana, Cinzia Mondaini

Giurie[modifica | modifica sorgente]

  • Giuria del concorso anteprima: Alessandro Baricco, Carla Cattani, Valentina Cervi, Wilma Labate, Pierre Todeschini
  • Segretaria di giuria: Francesca Airaudo
  • Giuria del Premio Casa Rossa: Edoardo Bruno, Mario Calderale, Gianni Canova, Paolo D'Agostini, Silvio Danese, Aldo Fittante, Bruno Fornara, Massimo Lastrucci, Emanuela Martini, Cristiana Peternò, Alberto Pezzotta, Adelina Preziosi, Mario Sesti, Giovanni Spagnoletti, Sandro Zambetti
  • Giuria del concorso 150” a tema fisso: Antonio Costa, Morando Morandini, Daniele Segre

Bellaria Igea Marina e il suo Festival[modifica | modifica sorgente]

Gianni Scenna (Il Sindaco), Ugo Baldassarri (L'Assessore alla Cultura)

La 21a edizione di Anteprima per il cinema indipendente italiano offre l'occasione per una veloce analisi del rapporto che esiste fra il Festival e la città che lo accoglie. Ogni iniziativa culturale per dirsi compiuta deve essere radicata nel territorio che la ospita, deve legarsi ad essa saldamente fino ad una completa identificazione, che permetta, nel nostro caso, al nome Anteprima di divenire sinonimo di Bellaria Igea Marina e viceversa. La nuova sfida che l'Amministrazione Comunale ha lanciato alla Direzione Artistica è stata proprio quella di cercare un ancora maggiore coinvolgimento fra Anteprima e Città. E le risposte non sono mancate: già dallo scorso anno ci sono state iniziative importanti, che vengono quest'anno riproposte, come il Video Magazine e il Concorso Cinema per la Realtà, che hanno visto all'opera numerosi studenti universitari intenti alla realizzazione di diversi film a Bellaria Igea Marina. Si tratta di un primo nucleo di attività formative a cui spero sia possibile aggiungerne presto altre. In conclusione voglio ricordare un episodio della vita politica di questo paese che ha visto Anteprima per il cinema indipendente italiano protagonista di un Consiglio Comunale in cui tutte le forze politiche, sia di governo che di opposizione, hanno riconosciuto il grande valore che questa esperienza ha per la nostra Comunità. Ritengo che quest’episodio sia stato un giusto riconoscimento al lavoro svolto negli corso di questi ventuno anni.

Resistere[modifica | modifica sorgente]

Ventunesimo compleanno del Bellaria Film Festival-Anteprima per il cinema indipendente italiano, e secondo anno del triumvirato composto, oltre che dal padre fondatore Morando Morandini, da Antonio Costa e Daniele Segre. Un tempo, a ventun anni, si diventava maggiorenni. Oggi lo si diventa un po’ prima, ma resta sempre valido il detto che è facile fare il primo film, ma è con il secondo che cominciano i guai. Guai non sono mancati: inutile fare l'elenco... Dopo l’espansionistico motto allargare l'orizzonte dello scorso anno (che a conti fatti è stato realizzato), la riduzione del budget e i tempi infausti ci inducono ad adottarne un altro, attuale in tutti i sensi: resistere... Lo scorso anno, pur nel rispetto della tradizione di Anteprima, si è riusciti effettivamente ad aggiungere nuove aree di interesse; in particolare, ci sono state aperture significative ad una dimensione di documentazione e di intervento, secondo la formula “cinema utile”, introdotta con il contributo determinante di Daniele Segre. Essa viene riproposta quest'anno: in collaborazione con l'Agenzia Redattore Sociale, verranno presentati film e video sull'handicap e sui rifugiati politici (tra questi Piovono mucche di Luca Vendruscolo). Dedicate all'attualità sono le anteprime o riproposte, tra le quali vanno segnalati Firenze, il nostro domani, il film collettivo montato da Franco Giraldi sulla manifestazione dei no-global a Firenze, e Sintonie di primavera, documentario sulla guerra dell'Iraq realizzato dagli studenti della Scuola Nazionale di Cinema. Strettamente collegato a queste sezioni, il concorso Cinema per la realtà: verranno selezionate le migliori sceneggiature sul tema “Lavori flessibili, vite precarie” e i vincitori potranno realizzare i loro video a Bellaria-Igea Marina, fruendo dell'assistenza e dell'ospitalità dell'Ente locale. I video così realizzati lo scorso anno, Stranieri no-strani e Samir e Slavko (il tema era “Stranieri”) verranno proiettati nella presente edizione e poi fatti circolare nel territorio. Risulta potenziato il rapporto con le Università e la Scuola Nazionale di Cinema: altre sedi, oltre al DAMS di Bologna e la SNC, hanno selezionato gli studenti che, sotto la direzione di Segre, realizzeranno il videomagazine che ogni sera presenterà al pubblico una documentazione sugli eventi del festival. In collaborazione con la CUC (Consulta Universitaria peri l Cinema), vengono riproposti gli incontri “I mestieri del cinema” (tra i docenti di quest'anno, i registi Franco Giraldi e Marco Puccioni, il direttore della fotografia Paolo Ferrari, il produttore Mario Mazzarotto, il critico Alberto Crespi e l'editore Dino Audino). Le opere inviate alla selezione per il concorso Anteprima sono state 467, contro le 332 dello scorso anno, con un incremento di oltre il 30%. Quanto a provenienza, 68 sono le province italiane rappresentate. Lo storico primato dell'Emilia Romagna viene clamorosamente ribaltato: Roma risulta in testa con 119 opere, contro le 59 complessive dell'Emilia Romagna (che è il numero di opere inviate dalla sola Milano). 15 sono le opere provenienti dall'estero, con un forte incremento rispetto allo scorso anno (più che effetto della nostra apertura alla Svizzera Italiana, ci sembra che il fenomeno sia legato alla maggior circolazione dei nostri studenti in programmi Erasmus e simili). Le opere ammesse al concorso sono state 38. Per documentare la varietà (ma anche la qualità) della partecipazione, abbiamo dovuto organizzare varie sezioni fuori concorso: come sempre nutrita quella dedicata a fatti e persone del cinema, della musica e del teatro (“A partire dallo spettacolo”), ma lavori molto interessanti sono presenti anche nelle sezione del cinema d'animazione (“Stati d'animazione”), in quella delle produzioni “assistite” da scuole e laboratori (“Senza cattedra”), oltre che in quella dei documentari particolarmente attenti all'attualità (“Storie di immigrati”, Attualità”). Il programma segue nelle sue grandi linee l'impostazione messa a punto lo scorso anno, cercando di mantenere i livelli della precedente edizione, nonostante la diminuzione delle risorse. Non ci sono novità nell'evento che forse più appassiona il pubblico: il concorso per un video a tema di 150" (quest'anno è Sospetto l'argomento da trattare). Lo stesso si può dire del Premio Casa Rossa, il riconoscimento che il Bellaria Film Festival riserva ai film italiani della scorsa stagione, attraverso un referendum tra i critici delle maggiori testate. Come già lo scorso anno, Anteprima ripropone la proiezione di tutti i film selezionati per il Casa Rossa, dal momento che essi spesso appartengono a quella categoria di film invisibili (ahinoi in preoccupante aumento), scarsamente visti dagli stessi addetti ai lavori. Gli scrittori e i loro rapporti con il cinema sono il filo conduttore dell'edizione di quest'anno. Alessandro Baricco, uno scrittore con significati legami con il cinema, fa parte della giuria (gli altri componenti sono Pierre Todeschini, Wilma Labate, Carla Cattani, rt ) Edoardo Sanguineti, uno dei padri fondatori del Gruppo 63, è il coautore della sceneggiatura del film cui è dedicata la festa di compleanno: Non ho tempo (1973) di Ansano Giannarelli. Per quanto prodotto dalla Rai come sceneggiato, Giannarelli dovette attendere il successo di Cannes prima che l'Ente pubblico prendesse la decisione di programmare il suo lavoro (quest'anno non è capitato qualcosa di simile anche a La meglio gioventù di Giordana?). Il film di Giannarelli affrontava un tema difficile, i rapporti tra scienza e società attraverso la biografia del matematico francese Evariste Galois (1811-1832). E lo faceva attraverso una ricerca sul linguaggio filmico che, nonostante quanto si andava predicando allora, restò all'epoca piuttosto isolata. Un motivo di più per ritornare su questa significativa esperienza che non ha molti uguali nella storia del nostro cinema. Il compleanno sarà anche l'occasione per una tavola rotonda sui rapporti tra cinema e scienza, alla quale parteciperà, oltre a Giannarelli e ad insegnanti impegnati nel piano nazionale per il cinema nella scuola, il matematico Michele Emmer. A Gianni Celati, è dedicato l'evento speciale, “Il cinema delle pianure”, con la presentazione di tre film-documentari realizzati dallo scrittore tra il 91 e il 2003 (Strada provinciale delle anime, Il mondo di Luigi Ghirri, Case sparse): un'altra occasione per riflettere sul problematico rapporto tra letteratura e cinema. Infine a un filosofo con forti interessi in campo estetico, Jean- Frangois Lyotard (1934-1998), è dedicata la retrospettiva che solitamente riserviamo al cinema di ricerca: a trent'anni dalla sua uscita, pubblichiamo in catalogo la traduzione italiana del suo saggio L'acinéma (1973), un testo che è nato nel clima della sperimentazione del dopo ‘68 e che, attraverso un fitto intreccio tra riflessione teorica e pratica sperimentale, è diventato un punto di riferimento essenziale dell'avanguardia francese degli anni settanta (alla quale era dedicata la retrospettiva Paris Films Coop dello scorso anno).

Mercoledì 2 aprile al cinema Anteo di Milano la cerimonia di addio al docente e critico di cinema Alberto Farassino, amico assiduo di “Anteprima”, fu aperta da queste parole di Morando Morandini. Le pubblichiamo per ricordare l'amico scomparso.

Da qualche anno mi capita di usare un'espressione: “il malinconico privilegio dell'età”. Non posso invocarlo per giustificare la mia presenza qui, oggi. Non lo è e, se lo fosse, ne farei volentieri a meno. Sono spinto da un dovere, da una necessità, da un dolore. S'usa dire che la perdita di un'amico c'impoverisce. Spesso è soltanto una frase retorica, presto rimossa e scancellata dalla terribile e banale, ma irrefutabile constatazione che la vita continua. Pochi di voi, però, hanno l'età per capire bene che la morte di una persona cara può essere sentita come un'ingiustizia alla quale ci si ribella. È il dolore dell'ingiustizia che provai quando morì Enzo Ungari che non aveva ancora 40 anni oppure Gianni Buttafava quando ne aveva poco più di 50. Con una differenza, però. In questi casi la notizia mi colpì come una fiondata che veniva da lontano, di sorpresa. Per Alberto è qualcosa di annunciato da mesi. Lo sapevo io, lo sapevamo in tanti, lo sapeva pure lui. Quando l'incontravo, sino a poche settimane fa, alle prime di qualche film e lo salutavo come se nulla gli fosse successo, soltanto il pudore e il disagio m‘impedivano di andare ad abbracciarlo. Ogni volta, mi pentivo della mia mancanza di coraggio. Da anni, quando penso alla morte, mi tornano in mente i versi di Cardarelli: «Morte, non mi ghermire / ma da lontano annunciati / e da amica mi prendi / come l'estrema delle mie abitudini.» Ma nel caso di Alberto sarebbe un sogno impossibile e, forse, un augurio insopportabile. Non sono qui per fare l'elogio di Alberto Farassino. Altri lo faranno meglio di me che non lo conoscevo abbastanza a fondo. So, però, che le grandi civiltà sono quelle che riconciliano la vita con la morte. Perciò sono qui per dire il mio, il nostro affetto a Fulvia e a Viola. A loro siamo vicini oggi, e lo saremo in un domani quando potremo a lungo parlare con loro di Alberto, e ascoltarle parlare di lui. Come capita a tutti, Alberto sarà veramente morto soltanto quando sarà scomparsa l'ultima persona che lo conosceva, che lo stimava, che gli voleva bene.

Concorso Anteprima[modifica | modifica sorgente]

Concorso 150” a tema fisso: ‘’Sospetto”[modifica | modifica sorgente]

  • @#5% di Enrico Caroti Ghelli
  • Alter ego di Daniele Gangemi
  • Apice di Alba Lo Curzio
  • L'attesa di Monsieur Rangotte di Gianluca Macaluso
  • Camera car di Frank Monopoli
  • Camping di Arianna Tondo, Marco Bozzi, Davide Manti
  • Il cieco di Gabriele Zambelli
  • Comunque di Carlo Gazzotti
  • Deconstructing suspicion di Riccardo Terziani, Massimiliano Bertozzi
  • Destr-sinistr di Angelo Paparcuri
  • Esportiamo democrazia di Walter Tamburi
  • Le fantastiche avventure di Silvioman di Maurizio Failla
  • Festa sospetta di Graziano Misuraca
  • La finestra sul giardino di Armando e Claudio Alberti
  • Girotondi di Marcelo Peyrou
  • Guinzagli di Luigi De Filippo
  • Hamnet di Antonio Centomani
  • Hotel di Gabriele Zambelli
  • 1.5.0. di Consuelo Giorgi
  • Ibrid di Andrea Croci
  • Kuliscioff di Paolo Cognetti
  • The last blast di Luca Raul Mariani
  • Lavoro di Giuseppina Credi
  • Un letto di patate di Lorenzo Piccolo e Marta Arosio
  • Logica conseguenza di Luca Rivelli
  • Media Pax di Federico Tinelli
  • Mr. S di Davide Livio, Paolo Romano, Roberto Mauri
  • Nessun S.0.S.petto di Valentina Primavera
  • Nessun Sospetto di Tiziano Morelli
  • L'ora buca di Vittorio Vezza, Gianni Gandini
  • Orme sulla sabbia di Luca Berardi
  • Oscuro sospetto di Sergio Porro
  • Otto marzo di Carlo Gazzotti
  • Passaggio obbligato di Paolo Del Fiol
  • Per l'ultima volta di Ciro De Caro
  • Postumo di Giancarlo Guidi e Adriano Mercurio
  • Poveracci - IV episodio di Gabriele Zambelli
  • Prima serata di Giovanni Bufalini
  • Prospettive di Mauro Crociati e Massimo Magnani
  • La realtà, la finzione di Andrea Righi
  • Ri-ciclo sospetto, perché... di Lauro Crociani
  • 5.0.S.petto di Mimmo Avellis e Roberto Romeo
  • Sarà che siamo morti, compare mio? di Adriana Del Duca
  • La sartoria di Graziano Misuraca
  • Senza scacco di Walter Uliano Pistelli
  • Shot! di Antonio Macaluso
  • La soluzione Kennan di Alessandro Spada
  • SOS di Giovanni De Giorgi
  • Sospetta o spera? di Silvia Fabarro
  • Sospetto - Libero delirio visivo di Enrico Omodeo Salé
  • Sospetto di Roberto Vagnetti
  • Sospetto di Enzo Castiglione, Toni Giacalone
  • Il sospetto di Alessio Della Valle
  • Il sospetto di Lorenzo Zitoli
  • Il sospetto di Tommaso Liberti
  • Il sospetto di Gabriele Turci
  • Il sospetto (da una storia vera) di Matteo Pizzarello
  • Sospetto... di Giovanni Franci
  • Strada chiusa di Rudy Concer, Massimo Sarzi e Katia Bernardi
  • Suspect di Cesare Maccioni (Maraboshi)
  • Suspect di Daniele Pezzi e Paolo Pennuti
  • Suspicius di Alicia Baladan
  • Terrorissima di Carlo Gazzotti
  • Il trasporto di Valentina Di Liddo
  • Tutto ha “un” sapore di Chiara Pellegrini
  • TV killove di Danilo Monte e Cristiano Zuccotti
  • Uomo che parla di Gabriele Agresta
  • Vie di fuga di Andrea Cairoli
  • Vita fandango di Ugo Antonelli
  • Il v.3.S. di Vittorio Principe, Silvio Peroni, Juan Francisco Correa Diaz
  • William di Michela Cortina
  • Zanzare di Andrea Minoglio

Premio Casa Rossa[modifica | modifica sorgente]

Festa di compleanno: Non ho tempo di Ansano Giannarelli[modifica | modifica sorgente]

Non ho tempo di Ansano Giannarelli

Ansano Giannarelli su Non ho tempo a cura di Antonio Medici[modifica | modifica sorgente]

Dopo Sierra maestra, la televisione mi chiama e mi chiede dei progetti. Li preparo e, per una singolare combinazione, glieli porto il 12 dicembre del ’69. Uno di questi progetti era la ricostruzione dell'uccisione di Umberto II da parte di Gaetano Bresci e quando lo leggono, quel giorno della strage di Piazza Fontana, della pista anarchica etc. mi dicono: “Per favore, questo facciamo finta di non averlo neppure visto”. Un altro progetto, invece, quello appunto di Non ho tempo, è dedicato alla figura di un giovane geniale matematico francese, Evariste Galois, contestatore ante litteram, esponente ottocentesco del ‘68. Un personaggio molto romantico, a cui già Astruc, in Francia, aveva dedicato un film molto calligrafico. In effetti, la sua storia è assolutamente romantica: fa un duello per una questione amorosa e muore a soli ventuno anni. La notte prima di questo duello, scrive affannosamente tutto quello che ha in testa di matematica, perché probabilmente prevede di morire, il duello è di per sé quasi un suicidio. Quello che scrive è un testamento matematico di tale densità che i matematici del Novecento continuano a dire che su queste notazioni molto sintetiche, scritte senza dimostrazioni, c'è ancora da lavorare per decenni. La televisione accetta il progetto e proprio in chiave romantica, chiedendomi un film di un ora e mezza, ed io subito non sono d'accordo. Insomma, mi viene richiesto di fare il film per un doppio sfruttamento, cinematografico e poi televisivo, con tutti i canoni della scrittura filmica tradizionale e io invece voglio fare una cosa diversa, che contemporaneamente racconti la storia e il modo in cui la storia viene raccontata. Comincio così a lavorare a un progetto per un film di tre ore, perché la televisione mi dà la possibilità di un superamento della dimensione temporale prefissata per il tradizionale lungometraggio. La televisione non è d'accordo, e qui è evidente l'importanza di avere alle spalle una struttura produttiva come la Reiac, che attraverso un rapporto di coproduzione con la Tv, mi consente un margine di autonomia nella gestione dell'operazione, tanto che io giro per montare tre ore, o meglio due versioni, una strutturalmente adatta alla comunicazione televisiva, di tre ore, e l'altra con una struttura più tradizionalmente cinematografica. Ho la possibilità di lavorare con due collaboratori straordinari, sia dal punto di vista progettuale sia come sostegno politico e culturale. Il consulente scientifico e in parte interprete del film è Lucio Lombardo Radice, matematico, uomo politico, personaggi che aveva un'autorità culturale e scientifica tale per dire seriamente, durante una cena con il responsabile della televisione che ci annunciava il progetto di fare uno sceneggiato dall'Eneide che non c'era confronto tra l'autorità di Virgilio e quella di Galois, il cui grande genio aveva trasformato la storia del pensiero umano. L'altro straordinario collaboratore è Edoardo Sanguineti, col quale ci troviamo subito d'accordo in una sperimentazione sulla struttura linguistica del film, i cui dialoghi sono tutte citazioni da testi e dalla diaristica della letteratura francese. Prevediamo anche di fare alcune interviste a personaggi francesi sul significato che in quegli anni ha un personaggio come Galois. Progettiamo addirittura un esame psicoanalitico di Galois, che andai a chiedere a Lacan, ma che poi non si fece. Siamo nel ‘72, è ancora molto vicino il Maggio e in Francia c'è una repressione molto più forte di quella che non avvenga in Italia nello stesso periodo. E linguisticamente che il progetto mi appassiona: cioè, mentre si racconta allo spettatore una storia, gli si fa vedere nello stesso tempo come la storia si sviluppa, come è stata costruita e così via. Per prima cosa, termino il montaggio della versione lunga, di tre ore, e quando il responsabile del progetto la vede, c'è una contestazione molto dura sul piano contrattuale e di merito e si arriva all'accordo che le tre ore possono passare se siamo in grado di presentare il film al Premio Italia, in modo da avallare sotto il profilo interno, televisivo, questa operazione, con l'impegno inoltre di fare anche il film di un'ora e mezza per le sale cinematografiche, cosa che poi viene fatta. La versione cinematografica di Non ho tempo fu invitata a Cannes alla Settimana della critica. Ma la trasmissione televisiva non era assolutamente il film romantico che ci si aspettava, anzi incideva sui meccanismi di comunicazione linguistica, era una critica violenta al genere romanzo sceneggiato, che veniva smontato, con dentro delle forzature di attualizzazione politica. Si passava dal 1830 al 1972, Galois diventa il Valpreda della situazione, incarcerato per la strage di Piazza Fontana. Morale: la versione televisiva è terminata nel ‘73, ma viene bloccata. E ci vorrà la legge di riforma della Rai e il coraggio di un dirigente come Massimo Fichera, perché nel ‘77 il film possa andare in onda in tre puntate, in prima serata sulla seconda rete, con un riscontro degli indici di ascolti di circa cinque milioni di spettatori. Il che mi conferma che era un'operazione giusta quella che avevo fatto: per arrivare a un pubblico largo, quella era la strada.

Una tessera per il genio[modifica | modifica sorgente]

di Alberto Moravia[1]

La vita di Evariste Galois fu breve ma di straordinaria intensità creativa; la sua fine, tragica e misteriosa. Galois è, dunque, il tipo del genio romantico come è spesso raffigurato da Balzac nella Comédie Humaine. Ma Galois, oltre che un personaggio da romanzo balzacchiano, fu anche un autentico genio della matematica, la cui opera ha tutt'oggi un valore fondamentale. Da una parte, dunque il Galois romanzesco eccelle in una scienza inaccessibile, si getta con ardore nella lotta rivoluzionaria, muore in un misterioso duello per amore (ma forse il duello fu provocato dai suoi avversari politici). Dall'altra il Galois storico, ha la serietà creativa di un Einstein ventenne. Ciò che conferisce alla figura di Galois una straziante tragicità, è che egli fu consapevole di essere un genio e ciononostante di doversi sottomettere ad un destino sociale livellatore ed egualitario e, appunto per questo, ingiusto. In margine alle pagine del suo testamento scientifico, sedici pagine buttate giù febbrilmente la notte prima della morte, Galois scrive più volte: “Non ho tempo”. E dice al fratello: “Ho bisogno di tutto il mio coraggio per morire a vent'anni”. Perché insistiamo tanto sul fatto che Galois era un genio? Perché in questo film di Ansano Giannarelli su Galois Non ho tempo, serpeggiano due polemiche parallele: l'una contro il “sistema”, repressivo e persecutorio ieri come oggi; l’altra a favore dell'impegno politico degli intellettuali e contro il disimpegno. Ora, mentre la prima polemica ha buon gioco nel mostrare che le polizie e le magistrature sono sempre pronte, ieri come oggi, a mettere in prigione il Valpreda di turno, sull'altra polemica c'è da osservare che l'aver scelto Galois come esempio di intellettuale impegnato è per lo meno fuorviante. Infatti Evariste Galois non è un intellettuale tra i tanti, che è difficile immaginare capace di esistere fuori dell'impegno; è invece quel tipo umano rarissimo che, anche senza l'impegno politico, è “di per sé”, a causa della propria genialità, rivoluzionario e impegnato. Così, si potrebbe dire che, senza volerlo, il film di Giannarelli sottolinea l'ingiustizia che l'egualitarismo politico opera ai danni delle preziose quanto misteriose ineguaglianze naturali. Il suo film non illustra tanto il dramma dell'intellettuale che vuole impegnarsi, quanto la tragedia del genio che sa di essere genio e ciononostante non può comportarsi che come un intellettuale. La tragedia di Garcia Lorca, di Lautréamont, di Babel, di Mandelstam, di Pushkin. Come in Sierra Maestra, suo primo film, Ansano Giannarelli non ha voluto fare un film narrativo più o meno tradizionale sulla vita e la morte di Evariste Galois; ma ha composto un ritratto del matematico francese sullo sfondo sociale e politico della Francia del 1830. Questa specie di ritratto in piedi oratorio-agiografico è dipinto con il metodo brechtiano dell'estraniamento ottenuto a sua volta attraverso la dissociazione delle strutture narrative e l'abolizione della durata. In Non ho tempo il montaggio, così importante nel cinema, non è dissimulato per creare illusione e identificazione bensì mostrato e additato; i significati diventano personaggi cioè significanti; i ruoli vengono sdoppiati e capovolti. E' un modo di fare cinema di chiara origine teatrale; infatti, mentre il cinema, come il romanzo, è per sua natura narrativo, il teatro non lo è: estraniamento brechtiano e crudeltà artaudiana sono in certo modo impliciti nel teatro, i moderni non hanno fatto che riscoprirli. Nel cinema questo metodo risolve enormi difficoltà narrative con grande, forse eccessiva facilità. AL punto che si potrebbe persino affermare che un film come Non ho tempo ha un massimo di probabilità di essere, come infatti è, un’opera riuscita. Ma il vero merito di questo notevole film è in realtà il sentimento di simpatia espressiva che il regista e Edoardo Sanguineti che ha collaborato alla sceneggiatura, mostrano di provare per il loro protagonista. Mario Garriba ha disegnato egregiamente una figura di precoce e sfortunato genio romantico al tempo stesso infantile e consapevole. Gli altri interpreti, scelti e diretti con acume dal regista, non sono da meno e compongono un quadro convincente dell'ambiente rivoluzionario dell'epoca.

Scienza e politica di Evaristo Galois[modifica | modifica sorgente]

di Mino Argentieri[2]

Se la memoria non ci inganna, Non ho tempo di Ansano Giannarelli è il primo film della storia del cinema imperniato sulla figura di un matematico: Evariste Galois. La biografia di Galois, a leggerla con la leggerezza d'animo di una lettrice in smanie di sogni a occhi aperti, sembra tagliata apposta per sconfinare in un film hollywoodiano degli anni trenta. Giovane e geniale, di temperamento generoso e vivace, nella Francia fra il 1824 e il 1832, Galois, refrattario alla disciplina scolastica, incompreso dalle autorità accademiche, si infiamma per gli ideali rivoluzionari del tempo, finisce in galera, si innamora di una donna ad altri legata e a causa sua è costretto a battersi in un duello alla pistola. Poche ore lo separano dal cimento fatale, tredici per l'esattezza, e in questo breve scorcio egli raduna alcuni appunti, vi lavora febbrilmente, li completa e destina ai posteri considerazioni matematiche straordinariamente innovatrici. Il presagio della morte lo invade e all’età di un fiore una pallottola lo stronca. Friedrich March sarebbe stato un Galois affascinante e seducente all'epoca in cui Hollywood assaliva i cuori semplici e chiedeva prestiti alle infinite versioni melodrammatiche dei drammi spulciabili dalla realtà. Mutati i gusti nel corso del trentennio successivo, dimessi i panni più convenzionali e chiuso il rubinetto delle sdolcinature patetiche, il romanticismo non si è estinto e niente meno del romanticismo è la chiave adatta a comprendere e a inquadrare il personaggio di Galois. Reduce dalla sua opera prima - l'interessante Sierra Maestra - questo piccolo particolare Ansano Giannarelli lo ha capito bene, in virtù di una formazione culturale moderna e scientifica. Il suo Galois esula dalla tradizione romanzesca e dall'aneddotica che parla ai sentimenti delle platee, e non ha neanche di che spartire con l'odierna e anarchicheggiante infatuazione per il ribellismo degli eroi. [La vicenda della morte] di Galois è privata di ogni possibile mistificazione sentimentale: Giannarelli, nel solco dei più accreditati studi storici, l’attribuisce a mene provocatorie. Non per aver offeso una signora indegna e mediocre, lo studentematematico Galois muore, ma per essere caduto in un tranello tesogli da avversari. La sua fine, non dissimile da quella di Puskin, è un delitto politico. Il Galois di Non ho tempo vive su più piani che cinematograficamente si incrociano in un esperimento che fonde lezioni diverse: teatrali e televisive. Alcuni trasparenti si animano, alle spalle degli attori che recitano dinanzi alla macchina da presa, e le immagini si sovrappongono a titolo diverso. A volte le pareti di una scena, trasformatesi in schemi, ospitano documenti, illustrazioni, reperti a mo’ di nota in fondo alla pagina; altre volte ci trasferiscono ai nostri giorni, nella Francia dei moti studenteschi, a un di presso dagli edifici in cui la giustizia di classe si accanisce contro chiunque non accetta i suoi presupposti; altre volte ripercorriamo i luoghi che conobbero i passi di Galois. Giannarelli scarta uno stile di marca realistica, stilizza la composizione, si rifà al teatro epico brechtiano, getta un ponte fra passato e presente che, seppure meccanico nei parallelismi evocati, svincola il film dalle strettoie delle ricostruzioni puntigliose e pedanti. Il regista vuole arrivare al nerbo del tema che lo appassiona e sbalza di Galois il profilo a noi più caro e vicino. La matematica, con le sue grandi capacità di astrazione, avrebbe potuto essere per Galois un modo di sfuggire all'incontro con l'impegno politico, una maniera di estraniarsi dai fermenti rivoluzionari. Avviene il contrario. Eccezionalmente dotato nel campo specifico, il Galois di Giannarelli non è tanto il simbolo di una reazione all’autoritarismo e al conservatorismo imperanti nella scuola e nella società, quanto l'emblema di una partecipazione politica senza la quale la scienza matematica, e la scienza più in generale, sarebbero condannate. [...] Da questo angolo il ritratto di Giannarelli irradia spunti di meditazione riferibili a oggi ed è per questo che sentiamo un po’ pleonastiche certe analogie con la contemporaneità sottolineate dall'autore. Di fronte alla chiarezza dell'assunto e dell’ordito non vera bisogno di rimandi espliciti e circoscritti, che appesantiscono il film e rischiano di agevolare raffronti storiografici di taglio giornalistico e troppo condizionati dalle contingenze. Non identica chiarezza, almeno per chi non sia uno studioso di problemi matematici, impronta nell'arco del film la correlazione fra il personale apporto di Galois in una disciplina fra le più ardue e affascinanti, e il dispiegarsi di un pensiero volto a far fronte alle contraddizioni sociali con una metodologia scientifica. Se l'impressione avuta fosse giusta - ci si autorizzi il beneficio del dubbio - Non ho tempo avrebbe mancato in parte il suo obiettivo più tentante e perderebbe in compiutezza, pur non indebolendo affatto lo spessore dell'altra faccia problematica. Al di là, tuttavia, della nostra perplessità, Giannarelli ha realizzato un film singolare, in cui la modestia dei mezzi disponibili si traduce in una invenzione linguistica al servizio di un fine educativo che cineasti famosi, come Rossellini, perseguono spesso non solo con approssimazione culturale ma anche con deplorevole pigrizia espressiva. E ovvio che l'insolito esito è dovuto, oltre al talento del regista e alla sua vocazione per un cinema antispettacolare, alle condizioni di libertà in cui il film è nato. Ma non ci si illuda în merito, poiché l'indipendenza acquisita si scontra con la semiclandestinità di un’opera che pochi vedranno (i maggiori circuiti di sale cinematografiche gli hanno chiuso i battenti) e che la TV, sua committente, paventa di diffondere per motivi in cui si mescolano preoccupazioni paternalistiche (il pubblico, si afferma, non afferrerebbe il contenuto di Non ho tempo e sarebbe sconcertato dall'andatura frastagliata del film) e timori di indole politica.

Genio e politica[modifica | modifica sorgente]

di Morando Morandini[3]

Su un vecchio dizionario enciclopedico della UTET, alla voce GALOIS Evaristo (1811-1832), matematico, leggo: “Di ingegno vivissimo, scoperse da studente importantissime proprietà della teoria delle equazioni; ma trascurò gli studi per le lotte politiche, alle quali si diede senza riserva dopo la rivoluzione del luglio 1830. Processato e condannato più volte al carcere, morì in seguito a ferite riportate in duello”. Non ho tempo, opera seconda di Ansano Giannarelli, rievoca a ritroso e a incastri la breve vita di Galois, la sua partecipazione coraggiosa e appassionata alla lotta per una società diversa e una nuova scienza negli anni di trapasso dal regno reazionario di Carlo X Borbone alla rivoluzione del luglio 1830 quando il partito della borghesia conquista il potere e fa proclamare re dei francesi Luigi Filippo d'Orléans. Di origine borghese, Galois è repubblicano di sinistra, seguace delle idee rivoluzionarie di Buonarroti e Blanqui, e paga di persona come studioso e come militante politico. Nella notte precedente al duello insensato, scrisse sedici pagine a modo di testamento scientifico, riassumendo i suoi studi di matematico, oggi considerato come un geniale precursore dell'algebra astratta, e a margine di quelle pagine annotò queste parole: “Non ho tempo”. Scritto da Giannarelli con la collaborazione di Edoardo Sanguineti e la consulenza scientifica di Lucio Lombardo Radice che interviene anche come attore, nella parte di un matematico, Non ho tempo è un film di alta tenuta culturale e di complessa (talvolta intricata) struttura espressiva che si rivolge specialmente a un pubblico di intellettuali di sinistra. Attento alla lezione teatrale di Brecht (ma anche di Artaud e Weiss) e a quella cinematografica di Godard, Giannarelli punta su una narrazione che non coinvolga emotivamente lo spettatore: la recitazione è di tipo didascalico e “straniato”, e più di una volta gli attori si trasformano sotto i nostri occhi in personaggi, indossando sugli abiti moderni i costumi di scena; con un procedimento di tipo televisivo vediamo Galois - meglio: l'attore Mario Garriba - seduto al suo scrittoio mentre, dietro di lui, scorrono su uno schermo le immagini della sua vita; le sequenze girate con la macchina in mano (i moti popolari del luglio) si alternano con quelle di impianto teatrale nella cornice di scenografie espressionisticamente deformate (il tribunale, la recita in carcere) o con momenti di cinema didattico e quasi astratto (il brano sulle ricerche matematiche). Anche se talvolta, per eccesso di puntiglio cerebrale, Giannarelli rende più astruso del necessario il racconto e se, nella parte finale, s'affida troppo a declamazioni e parole d'ordine con sforzati agganci alla realtà d'oggi, Mon ho tempo è un film stimolante e insolito, un interessante tentativo di affrontare nuovi temi con un linguaggio nuovo o, comunque, diverso dai modi del cinema tradizionale.

Matematico rivoluzionario[modifica | modifica sorgente]

di Natalia Ginzburg[4]

Evariste Galois nacque a Bourg-Le Reine nel 1811 , morì giovanissimo a Parigi, nel 1832. Gli ultimi anni di Napoleone; la restaurazione borbonica; la definitiva conquista del potere da parte della borghesia, nel 1830; questi gli eventi storici che si svolsero nel corso della sua breve esistenza. Suo padre era sindaco di Bourg- Le Reine; una lapide lo commemora. Evariste Galois fu un matematico e un rivoluzionario, rivoluzionario perché matematico, disse di se stesso, e matematico perché rivoluzionario. Egli fu un incompreso. Trascorse lunghi anni in collegio, e la vita era dura in collegio, le aule gelate, frotte di topi sulle scalinate, due candele per ogni gruppo di allievi sul banco, stanze di segregazione per ogni minimo atto di indisciplina. Evariste era considerato un ribelle, e scarsamente dotato per gli studi. Comprese la sua grandezza uno solo fra gli insegnanti, il professor Richard; avendo Evariste ripetuto un anno, al liceo, e annoiandosi a morte, si diede a studiare la matematica, ed ebbe alcune straordinarie intuizioni. Esse stanno a fondamento dello studio della matematica oggi. Aveva diciassette anni quando suo padre si uccise, con una stufa a carbone. Per due volte, egli si presentò agli esami per entrare al Politecnico e per due volte fu respinto; le sue intuizioni erano di natura troppo sottile e complessa perché gli esaminatori potessero intenderle; entrò allora in una scuola preparatoria per insegnanti. Il 27 luglio 1830, re Carlo decimo chiude le Camere, e abolisce la libertà di stampa; scoppia la rivoluzione; il 29 luglio, i rivoluzionari hanno vinto. Evariste aveva chiesto al direttore della scuola che agli studenti fosse consentito di uscire a combattere nelle strade; il direttore aveva dato la sua parola d'onore che il giorno dopo avrebbe aperto le porte della scuola: una parola d'onore alla quale Evariste aveva dimostrato un disprezzo aperto e palese. Questo vediamo nella prima puntata di Non ho tempo, storia della vita di Evariste Galois; la sceneggiatura è di Ansano Giannarelli e Edoardo Sanguineti; la regia è di Giannarelli; recita nella parte di Evariste, Mario Garriba. Di Ansano Giannarelli ho visto l'anno scorso un telefilm, Immagini vive; non ho visto invece Sierra Maestra, né altro di lui. Immagini vive era la storia d'una donna in un paese, e ne ho un ricordo felice: mi sembrava vi fosse qualcosa, nella struttura del racconto, che ne inaridiva e disordinava le linee: e tuttavia era un bel racconto, condotto con grande nobiltà. Una sensazione simile ho avuto vedendo la prima puntata di Non ho tempo; non mi sembra di poterne ancora dare un giudizio, è opportuno veder tutto; ma la vita d'una persona, sarebbe a idea mia molto bello se venisse raccontata senza mescolare le epoche: è invece ora di moda far intervenire di continuo biciclette e maglioni fra costumi ottocenteschi; qui, l'epoca nostra e l'epoca in cui visse Galois sono continuamente rotte e mescolate. È chiaro che la storia di Evariste Galois suona estremamente vicina alla vita dei giovani ai giorni nostri, e alla contestazione degli studenti; è chiaro, e per esprimerlo non servono i maglioni; e invece di Lucio Lombardo Radice, avrei preso a recitare la parte del professor Richard un qualsiasi attore: anche se vedere la faccia di Lombardo Radice fa sempre un gran piacere. Per guardare la storia di Galois nella luce nostra, non mi sembra fosse necessario mescolare le epoche continuamente. E tuttavia di nuovo, come in Immagini vive, mi sembra che il modo come Giannarelli affronta le esistenze umane sia un modo intelligente, coraggioso e nobile; e in mezzo ai mescolamenti delle due epoche, la figura di Evariste Galois e il mondo intorno a lui appaiono ben vivi; e il volto dell'attore e la sua voce sono stati scelti degnamente.

L'acinéma: a partire da Lyotard[modifica | modifica sorgente]

Sull'ideale del dolce. Note per un film[modifica | modifica sorgente]

di Gianfranco Baruchello

Raccontano che nei campi di concentramento c'era chi si dedicava a recitare lunghi menus di pranzi. Non so se questo alleviasse la fame. Dedicare all'argomento dolce/dolcezza non aveva, all'inizio, un significato molto diverso. E' certo infatti che la scelta di questo film (o di questo libro, come pensavamo all'inizio), è stata influenzata dalla constatazione, personale, di assenza di dolce/dolcezza dalla propria vita e dal mondo circostante. Parlarne può essere stata, almeno all'inizio, un'attività non lontana dall'esorcismo. Parlarne allevia dunque la carenza? Per rispondere occorrerà allora arrivare alla fine del discorso; ma la fine è lontana. E ci vorranno altri mesi altri, al momento ancora non previsti modi di esorcismo, altre scoperte. Da quel non chiaro umore iniziale, quella fame, quella assenza e dopo molti anni di attenzione al cibo (vedi tutti i miei film su questo tema, nella filmografia, 1), e al rapporto sacro di questo con lo “spirito”, nasce dunque l'idea che il dolce sia il segno stenografico primordiale di ogni sapore derivante dall'atto di mangiare. Latte materno, succo zuccherino del frutto, miele delle api, manna mandata al popolo di dio nel deserto eccetera. Un itinerario che si complica, devia, si arricchisce, dirama attraverso 150 pagine di un oggetto simile a un libro fatto di note, prospetti, disegni, foto e fotocopie, ritagli non diversi nell'aspetto da altre precedenti operazioni para-letterarie, extra media da me fatta( per esempio il libro L'altra casa edito da Galilée con prefazione di Lyotard, quest'anno). Il libro (ma si tratta soltanto di fogli di carta sommariamente rilegati), si presta ad essere messo nelle mani di terzi cui chiedere cosa ne pensano sia del libro che, più generalmente, dell'argomento che sembra trattare. I terzi che sono poi un insieme molto difforme di filosofi, scrittori, poeti, pittori, operai, preti, bambini e forse anche (riuscendone a trovare qualcuno disposto a parlarci), uomini politici, militari, poliziotti, direttori di carcere e manicomio... Si va da uno di questi e se ne parla; con in mano una telecamera bianco e nero o un normale registratore vecchio modello da mezzo pollice (il b/n consente di girare più facilmente con poca luce e poca spesa, diversamente dal colore). Si va in due, carichi fili e doppie spine, Alberto gira, silenzioso, io parlo reggendo il microfono. Si fa presto o meglio tardi a parlare e così i nastri corrono. Si era detto di fermarsi a 40/50 ore: una specie di antologia sonoro visiva su dolce/dolcezza. Un mese a Parigi e siamo già a 12 ore di nastri con Lyotard, Klossowski, Lascault, D. Cooper, Guattari, N. Chatelet e un'altra dozzina di persone, pasticcere del Pain de Sucre all'operaio tunisino immigrato, . l'animatore per l'infanzia del Baubourg, al pittore che lavora l’effimero con la pasta sablé o la meringa. Che succede poi. Si sbobinano le dodici ore, si trascrivono nastrini, ci si pensa, si fanno foto, si riproietta tutto e si scopre che questo primo pezzo di un supposto lunghissimo metraggio (sarà ancora più lungo forse 80 ore...), ci ha cominciato a mostrare linee di forza e associazioni che né gli intervistati né gli intervistatori, sospettavamo. I sogni riferiti al dolce parlano più di morte che della madre; quel “sapore” che volevamo dee, mentare con lo zucchero in mente è in realtà il non-sapore (il doux che non ha niente a che fare col sucré), magari il dolce non sapore della carne se non - col racconto allucinante di Cooper il dolciastro del liquame cadaverico. Vengono a galla associazioni che vanno indietro verso altri sogni e memorie di morte: barattoli di marmellata che sono poi lo zio morto nascosto sull’armadio, il volto, come le confetture, coperto di giornali per proteggerlo dalle mosche. La linea zuccherina della favola di Hansel e Gretel dalle molliche di pane vanno alla pasta di mandorla / marza PANE della casetta stregata, subisce una sferzata nel cannibalismo della sorcière che vuole mangiarli o li mangerà, in “Carne e Ossa". Il Cristo, agnello di dio è carne nel sacrificio ma diventa pane e vino (“zuccherini”, destinati, cioè agli o provenienti dagli zuccherî) quanto lo si deve desiderare o mangiare. Il desiderio ( e questo era l'occulto sottotema del libro e del film). Il desiderio di mangiare prende dunque le forme di un tipo di DOLCE (farina e zucchero) che muta in un altro DOLCE (carne, sangue?) quando dal desiderio di mangiare si passa alla paura (o alla realtà) é essere mangiato e alla morte. Così il nostro itinerario (si era pensato al gag delle torte in faccia, a scene con candeline e compleanni), finisce in territori funebri tali quali gli stessi gag suggerivano (al dolce con candeline seguiva nel finale una bara dalla quale il morto sorgeva spegnendo le candele “happydeathtday to you...”). Perché, come? E quello che ci diranno le prossime 60/70 ore. Per ora siamo qui a pensare ai punti di incrocio, ai sotterranei legami tra segni e codici solo in apparenza così discosti l'uno dall'altro. La carne, la morte, la distruzione era nata sotto questo desiderio di dolce/dolcezza quasi che essendo l'assenza di dolcezza il portato di un sistema che uccide, l'andarla a cercare suggerisse soluzioni e vie di morte (o vie che sì aggirare intorno al significato, al senso della morte), come risposta appunto a quel sistema deprivante. Il nostro diario di lavorazione è a questo punto.

A partire dal dolce. Conversazione con Jean-Frangois Lyotard[modifica | modifica sorgente]

(Brano di conversazione tra Jean Francois Lyotard (JFL) e Gianfranco Baruchello (GFB) trascritto dai videonastri “Sull'idea del dolce”, lavoro in videotape di Baruchello e Grifi)

JFL: Ma allora dì un po’, quello che tu chiami dolce è lo zuccherino?

GFB: Beh, forse. Come idea iniziale sì.

JFL: Perché per me il dolce non è quello.

GFB: E’ una cosa molto italiana.

JFL: Da quando me ne hai parlato ci ho pensato un po’ facendo delle associazioni casuali. E mi sono accorto che per me il dolce è più che altro qualcosa come lo zero dei sapori, e comunque una cosa che mi dà qualche problema. Voglio dire...Per esempio la crema, la crema francese, diversa da quella italiana o da quella americana, per me questa crema è dolce.

GFB: La panna.

JFL: No, la panna non ha proprio lo stesso sapore. La crema francese va più verso il burro, capisci, anche il burro va verso il dolce. “Les bourres fins” si chiamano burri dolci.

GFB: Assomiglia al sapore del latte, della madre.

JFL: Sì, ma non sono molto d'accordo con questa associazione che fai tu e non mi lascerò trascinare da quella parte! No, il fatto è che non è affatto zuccherina, è qualcosa molto difficile da metaforizzare, se la si vuole descrivere. Si dice è dolce come ... e si vanno a cercare dei colori, dei suoni ... così se si dovesse fare una metafora per la crema francese o il burro dolce non saprei come fare. Vedi, se facessi delle associazioni senza pensarci affatto, se dicessi quello che viene così, penserei al grigio. Nel senso în cui ne parla Klee, il grigio è il mezzo, il mezzo nel senso di neutro. Si potrebbe dire che tutti i sapori si annullino nel dolce, che tutti i sapori potrebbero neutralizzarsi nel dolce. Un sapore neutralizzato diventerebbe dolce. Stessa cosa per il grigio, non è veramente un colore, ma tutti i colori dal nero al bianco e il nero , e il bianco insieme. In questo senso il dolce diventa un problema non propriamente intellettuale ma fisico e metafisico, suscita allo stesso tempo una sorta di curiosità, perché penso che il dolce sia raro, rarissimo, come il grigio, e una sorta di diffidenza o repulsione, ma repulsione non è esatto, in ogni modo il dolce va verso qualcosa di nauseante, non so...ma credo che sia qualcosa che provo io, la crema mi nausea. Sai, per esempio, quelle parti del dolce che sono fatte di una crema, che può essere zuccherata o poco zuccherata e che sono veramente le parti dolci, ecco per quelle provo un po’ di repulsione, insomma una rapida saturazione. Il limite della saturazione è molto basso.

GFB: Questa è una reazione quasi fisica.

JFL: Sì, è fisica.

GFB: Quindi le parole, il sapore dolce è una cosa che ti è piuttosto indifferente.

JFL: No, non mi è indifferente, provo curiosità e desiderio, ma allo stesso tempo mi fa venire i brividi, e questa non è indifferenza! Per esempio, penso che gli umori vaginali siano dolci, per me quello è il dolce, non ci sono molte cose dolci... Chiaramente gli umori vaginali ti faranno andare avanti nella tua idea della madre ma...

GFB: Certo, infatti stavo per farti subito un’obiezione: se pensi che gli umori vaginali abbiano un sapore zuccherino perché non...

JFL: No, non zuccherino...

GFB: Va bene, dolce!

FTL: Tentavo di distinguere ...

[...]

GFB: Quindi, in modo classico, abbiamo fatto lo stesso errore di confondere lo zuccherato/zuccherino con il dolce e tu ora mi fai un'osservazione stimolantissima perché dissoci le due cose, dici che il dolce è diverso dal zuccherat/zuccherino e questo mi interessa molto.

JFL: Sì, mi chiedo solo una cosa, se per esempio non potessimo parlare anche della dolcezza di quello che nella cucina francese si chiama velouté. Ci sono modi di preparare i funghi che sono veluoté. Non so come si fanno, dentro ci deve essere della farina, prendi della farina cruda, in polvere e se l'assaggi direi che è dolce. Del resto è vero per gli umori femminili e per la farina come anche per altre cose, per la crema con un leggero accento di acidità, no, non esattamente acido, più che altro un accento di amarezza. l'amarezza è come un'ombra portata dal dolce. Il dolce si proietta in un retrogusto di amarezza... Non è il dolce-amaro che corrisponde a un’altra preparazione quella del sauer.

GFB: L'agrodolce.

JFL: Il pane azimo, per esempio, è un tipico pane dolce. In fondo per me si tratta di una specie di neutralizzazione dei sapori, cosa assurda perché il dolce è un sapore decisamente esistente... Nel mio delirio è più che altro una specie di inizio di tutti i sapori.

GFB: ...l'idea del dolce con una certa idea di “classe”, prima che tu dicessi che il dolce non esiste avevamo detto: le brioches quando non c'è il pane, sono un fatto di “classe”, cioè sono i ricchi che hanno i dolci, non gli altri, i poveri idioti, gli uomini, se fanno i buoni tutt'al più ricevono la manna dal cielo, che bisogna grattare con le dita tra la merda di capra, quindi il dolce è anche il cibo degli dei. Come puoi pensare che gli dei scelgano il grigio per nutrirsi?

JFL: Lo dici tu che il dolce è il cibo degli dei.

GFB: Lo dicevano i Greci.

JFL: Penso che l'aldilà dei sapori, l'inizio dei sapori si trovi fuori dalla sfera dei sapori umani; gli uomini aggiungono sale, aggiungono zucchero, fanno l'acido, fanno l'amaro, ovvero speziano i cibi. Hanno bisogno di creare delle differenze per poter istituire dei sistemi di sapori in opposizione e per creare una cucina, ma la cucina vale anche come mezzo di comunicazione tra di loro. Gli uomini hanno bisogno di creare dei sapori [...]. Ma gli dei non hanno bisogno di tutto questo! Questo è la povertà dei sistemi di opposizione umani. Ed è questo che significa la dolcezza delle sostanze divine.

GFB: Ma è comunque strano che il sangue del Cristo sia simboleggiato dal vino che non è altro che il prodotto di una fermentazione alcolica proveniente dallo zucchero e che possiede quindi una certa dolcezza di principio, non è così? In Francia nel vino ci si mette lo zucchero...

JFL: E' dolcezza, sì, è dolcezza nel senso zuccherino. Ma il vino non è dolce...

GFB: Non è dolce ma ha a che fare con il metabolismo dello zucchero, è una fermentazione alcolica. Ed è bizzarro come le cose divine si riferiscano sempre a cose che... l'ostia di grano e nello stesso tempo il vino provengono da un processo che passa attraverso...lo zucchero, il fruttosio e quindi quegli alberi... Erano zuccherini, che cosa faceva Adamo, che cos'era la mela, era un frutto zuccherino, un frutto dolce o zuccherato/zuccherino. La mela non è grigia; dolce-acida...

JFL: Certo. La mela è chiaramente un sapore, con il suo sistema di sapori ecc.

GFB: E' già questo?

JFL: Sì, certo, ma l'uomo preadamico non aveva bisogno di mek navigava nel sapore del dolce sapere. Sai che sapere ha la stes: origine di sapore: conoscere, provare per via orale. Questo sugo. risce che ci sia una specie di sapore che ha luogo per va orale. che non è un sapore delle differenze. E che il dolce, che non, un contrario, è proprio il sapere del sapore o il sapore come sape. re. Il sapore, come sapore della vita, della vita e della mon: indifferenziate, è la dolcezza. E la dolcezza profonda, che è quel la del grigio e del neutro. Sono sicuro che su questo argomento ci siano dei testi indiani. Perché vedi, anche la morte... credo che questo sapore sia come la vita e la morte, e se uno mangia L terra, la terra è dolce, e quando uno mangia la terra vuol dire che è morto.

L'acinéma[modifica | modifica sorgente]

di Jean-Frangois Lyotard

Il nichilismo dei movimenti convenzionali[modifica | modifica sorgente]

Il cinematografo! è iscrizione del movimento, scrittura di movimenti. Ogni tipo di movimento: ad esempio, per quanto riguarda il piano, quello degli attori e degli oggetti mobili, delle luci, dei colori, dell'inquadratura, della focale; per la sequenza, degli stessi elementi ancora e, in più, dei raccordi (del montaggio); per il film, dello stesso découpage e, al di sopra o attraverso tutti questi movimenti, del suono e delle parole, che costituiscono un tutt'uno con essi. C'è, dunque, una moltitudine (per quanto numerabile) di elementi in movimento, una moltitudine di oggetti mobili e possibili candidati all'iscrizione sulla pellicola. Imparare i mestieri del cinema consiste nel diventare capaci di eliminare, al momento della produzione del film, un buon numero di questi movimenti possibili. La composizione dell'immagine della sequenza e del film sembra dover avere luogo a spese di queste esclusioni. Da ciò derivano due interrogativi davvero ingenui rispetto al discorso dell’attuale teoria cinematografica: quali sono questi movimenti e questi oggetti mobili? Perché è necessario selezionarli? Non selezionare alcun movimento significa accettare il fortuito, lo sporco, l’impuro, il non organizzato, il confuso, ciò che è male inquadrato, ciò che è sbilenco e mal fatto... Poniamo, ad esempio, che stiate lavorando ad un piano con una videocamera, magari su una splendida chioma alla Saint-John Perse. AL momento di visionare, notate che c'è stato un vacillamento: di colpo, disordinati profili di isole, paludi e scogliere taglienti invadono in vostri occhi, li colmano, intercalano, nel vostro piano, una scena venuta da chissà dove, che non rappresenta nulla di riconoscibile, che non si ricollega alla logica del vostro piano, che non ha valore neppure come inserto, perché non sarà ripresa, ripetuta, una scena indecidibile che dovrete eliminare. Non rivendichiamo un cinéma brut, come l'art brut di Dubuffet. Non facciamo parte di un'associazione per la salvaguardia dei provini e la riabilitazione del non montato. Per quanto... Pensiamo che se il vacillamento viene eliminato, lo sia per la sua non conformità, che venga rimosso, al tempo stesso, per proteggere l'ordine dell'insieme (del piano e/o della sequenza e/o del film) e per negare l'intensità che veicola. L'ordine dell'insieme ha per scopo solo la funzione del cinema: che ci sia ordine nei movimenti, che i movimenti si facciano in ordine, che facciano ordine. Siamo in grado di concepire e praticare la scrittura con il movimento, il cinematografare, solo come un'incessante organizzazione dei movimenti: regole della rappresentazione per la localizzazione spaziale, regole della narrazione per il farsi istanza del linguaggio, regole della forma “musica da film” per il tempo sonoro. Quella che chiamiamo impressione di realtà è una vera e propria oppressione d'ordini. Questa oppressione consiste nell'applicazione del nichilismo ai movimenti. Nessun movimento, indipendentemente dalla sua provenienza, è dato all’occhio-orecchio dello spettatore per quel che è: una semplice differenza sterile in un campo visivo-sonoro. AL contrario, ogni movimento proposto rinvia ad altro, si iscrive come un più o un meno sul libro dei conti che è il film, ha valore perché in relazione ad altro?, perché è dunque una risorsa? potenziale e vantaggiosa. Il solo vero movimento con il quale si scrive il cinema è dunque quello del valore. La legge del valore (nell'economia cosiddetta politica), sostiene che l'oggetto, nel nostro caso il movimento, vale per quanto è scambiabile, in quantità di un'unità definibile, per quanto è equivalente ad altri oggetti o a quelle stesse quantità. Bisogna dunque che l'oggetto sia suscettibile di movimento perché abbia valore: che proceda da altri oggetti (“produzione” in senso stretto), e che sparisca, ma a condizione di dar luogo ad altri oggetti ancora (consumo). Un processo del genere non è sterile, è produttivo, è produzione nel senso più ampio del termine.

La pirotecnica[modifica | modifica sorgente]

Distinguiamolo bene dal movimento sterile. Un fiammifero acceso si consuma. Ma se con esso accendete il gas, grazie al quale scaldate l’acqua per farvi il caffè di cui ogni mattina avete bisogno prima di andare al lavoro, il suo non è un bruciare sterile, ma un movimento che appartiene al circuito del capitale: merce-fiammifero _ merce-forza lavoro _ denaro-salario _ merce-fiammifero. Tuttavia, quando un bambino accende la capocchia rossa del fiammifero solo per vedere, senz'altra ragione, lo fa perché ama il movimento, i colori che sfumano l'uno nell'altro, le luci che esplodono in tutto il loro splendore, la morte del pezzetto di legno, lo sfrigolio. A lui, dunque, piacciono le differenze sterili, quelle che non portano a nulla, che non sono ammortizzabili e compensabili, a lui piacciono le perdite e ciò che il fisico chiamerebbe degradazione d'energia. Il godimento, per quanto fornisca occasione di perversione e non solo di propagazione, si distingue per questa sterilità. Al termine di Al di là del principio di piacere, Freud lo pone come esempio della combinazione della pulsione di vita (Eros) e delle pulsioni di morte. Ma si riferisce al godimento ottenuto attraverso la genitalità “normale”: come ogni godimento, compreso quello che dà occasione alla stasi isterica o allo scenario perverso, il godimento normale include la componente letale, ma la nasconde in un movimento di ritorno, che è quello della genitalità. La sessualità genitale, se è normale, dà luogo ad una nascita e quel che nasce è il prodotto‘ del suo movimento. Ma il movimento di piacere in quanto tale, più o meno genitale o sessuale, se non inserito nel movimento di propagazione della specie, diverrebbe ciò che, oltrepassando il punto di non ritorno, riversa le forze libidiche al di fuori dell'insieme e a spese di esso (a spese della distruzione e della disintegrazione dell'insieme). Quando il fiammifero prende fuoco, al bambino piace questo dirottamento® (la parola è cara a Klossowski) dispendioso di energia. Egli produce, attraverso il suo movimento, un simulacro del godimento nella sua componente cosiddetta di morte. Se è un artista, certo lo è perché produce un simulacro, ma soprattutto perché questo simulacro non è un oggetto di valore che vale per un altro oggetto, con il quale si comporrebbe, si compenserebbe e si richiuderebbe in un insieme regolato da una qualche legge costitutiva (in struttura di gruppo, per esempio). Conta invece che tutta la forza erotica investita nel simulacro sia in esso promossa, dispiegata e bruciata invano. Per questo Adorno diceva che la sola grande arte è quella degli artificieri: la pirotecnica, infatti, simulerebbe alla perfezione il consumarsi sterile delle energie libidiche. Joyce accredita questa prerogativa nella sequenza sulla spiaggia (Ulysses). Un simulacro inteso in senso klossowskiano, che non va concepito sotto la categoria della rappresentazione, come ciò che, ad esempio, mima il godimento, ma in una problematica cinesica, come prodotto paradossale del disordine delle pulsioni, come combinazione di decomposizioni. La discussione sul cinema, e sull'arte rappresentativo-narrativa in genere, comincia proprio da qui. Perché si schiudono due direzioni per concepire (e produrre) un oggetto, cinematografico in particolare, conforme all'esigenza pirotecnica: due correnti apparentemente contrarie, le stesse che paiono oggi attrarre ciò che vi è di intenso nella pittura ed operare anche nelle forme realmente attive del cinema sperimentale e underground. Questi due polarità sono rappresentate dall'immobilità e dalle. cesso di movimento. Attratto verso questi opposti, il cinema smette impercettibilmente d'essere una forza dell'ordine: produce dei veri - cioè vani - simulacri, delle intensità di godimento, invece che oggetti consumabili-produttivi.

Il movimento di ritorno[modifica | modifica sorgente]

Facciamo qualche passo indietro. Che cosa hanno a che fare questi movimenti di ritorno o questi movimenti reiterati con la forma rappresentativa e narrativa nel cinema di grande distribuzione? Sarebbe insufficiente rispondere a questa domanda in termini di semplice funzione sovrastrutturale di un'industria, il cinema i cui prodotti, i film, dovrebbero agire sulla coscienza del pubblico per addormentarlo con i suoi infusi ideologici. Se la messa in scena è messa in ordine di movimenti, non lo è in quanto propaganda (a favore della borghesia, direbbero alcuni, e della burocrazia, aggiungerebbero gli altri), ma in quanto propagazione, Nello stesso modo in cui la libido deve rinunciare alle sue eccedenze perverse per poter assicurare, all'interno di una genitalità normale, la propagazione della specie - solo fine per il quale permette la costituzione del “corpo sessuato”, così il film prodotto dall'artista nell'industria capitalistica (e ogni industria conosciuta al momento lo è), e risultante, l'abbiamo detto, dall'eliminazione dei movimenti anomali, dai dispendi inutili, dagli scarti di puro disfacimento, è composto come un corpo omogeneo e propagatore, un insieme riassemblato e fecondo che saprà tra. smettere, non perdere, ciò che porta con sé. Il racconto chiuderà la sintesi dei movimenti nell'ordine dei tempi e la rappresentazione prospettica nell'ordine degli spazi. Ora, in che cosa possono consistere tali chiusure, se non nel disporre la materia cinematografica secondo la figura del ritorno. Non parliamo qui solo dell'esigenza di guadagno imposta dal produttore all'artista, ma dell'esigenza di forma che l'artista fa gravare sul materiale. Ogni forma cosiddetta “buona” implica la riapparizione dell'identico, la riconversione della diversità nell'unità identica, In pittura, tutto questo può tradursi in rima plastica o in equilibrio di colori; in musica, può essere la risoluzione di una dissonanza nell'accordo di dominante; in architettura, una proporzione. La ripetizione, principio proprio non soltanto della metrica ma anche della ritmica, considerata nel senso della ripetizione dello stesso (dello stesso colore, della stessa linea, dello stesso angolo, dello stesso accordo o intervallo), è ciò che conviene a Eros-e-Apollo, ciò ce disciplina i movimenti riconduce ai limiti di tolleranza caratteristici del sistema o dell'insieme considerato. Quanto alla ripetizione, siamo stati fortemente tratti in inganno quando abbiamo creduto, con Freud, di scoprire in essa il movimento stesso delle pulsioni. Perché Freud, in Al di là del principio di piacere’ fa sempre ben attenzione a tenere distinti la ripetizione dello stesso, che segnala il regime delle pulsioni di vita, e la ripetizione dell'altro, che non può che essere altro dalla prima ripetizione indicata, corrispondente alle pulsioni di morte: essendo queste fuori dal regime assegnabile dal corpo o dall'insieme, non è possibile distinguervi ciò che ritorna, quando, con esse, a ripresentarsi è l'intensità di estremo godimento e pericolo di cui esse sono portatrici. AL punto che bisogna chiedersi se si tratta proprio di ripetizione, o se invece non si tratti ogni volta di altro, e se l'eterno ritorno di queste sterili esplosioni di investimenti libidici non debba essere concepito in un diverso ordine spazio-temporale rispetto a quello della ripetizione dello stesso, come loro copresenza incompossibile [coprésence incompossible]. Qui ci si scontra certamente con l'insufficienza del pensiero, che necessariamente passa per il medesimo che è il concetto. I movimenti del cinema sono in generale quelli del ritorno, cioè della ripetizione dello stesso e della sua propagazione. La sceneggiatura, un intrigo con epilogo, rappresenta, nell'ordine degli affetti relativi ai “significati” (denotati e connotati, direbbe Metz), la stessa risoluzione di una dissonanza che la forma della sonata in musica. A questo proposito, ogni fine, anche mortale, è buona in quanto fine, come risoluzione di una dissonanza. Nel registro degli affetti relativi ai “significanti” cinematografici e filmici, troverete applicati a tutti i campi (focale, messa in quadro, raccordo, illuminazione, stampa, ecc...) la stessa regola di riassorbimento della diversità nell'unità, la legge del ritorno dello stesso attraverso una parvenza d’alterità che, in realtà, non è che un espediente.

L'istanza di identificazione[modifica | modifica sorgente]

Questa regola, laddove si applichi, opera principalmente, come abbiamo detto, sotto forma di esclusioni e di cancellazioni. Esclusioni di movimenti di cui gli addetti ai lavori non sono consapevoli, cancellazioni che, in compenso, essi non potrebbero ignorare perché rappresentano una parte importante dell'attività cinematografica. In realtà, queste cancellazioni ed esclusioni costituiscono le operazioni stesse della messa in scena. Eliminando, prima o dopo la ripresa, i riflessi, ad esempio, l'operatore e il regista condannano l’immagine sulla pellicola al sacro imperativo di rendersi riconoscibile all'occhio, ed esigono dunque da quest'ultimo che percepisca l'oggetto o l'insieme di oggetti come il doppio di una situazione supposta reale. L'immagine è rappresentativa perché è riconoscibile, perché si rivolge alla memoria dell'occhio, ai punti di riferimento d'identificazione stabiliti, noti, nel senso di “ben noti”, certi. Questi riferimenti sono l'identità che misura il ritornare e il ritorno* dei movimenti. Formano l'istanza (o il gruppo di istanze) alla quale si fissano tutti i movimenti e grazie alla quale essi assumono inevitabilmente la forma di cicli. Così, ogni allontanamento, ogni disturbo, ogni scarto, perdita e irregolarità può aver luogo, perché non di tratta più di dirottamenti, di derive a perdere ma, a conti fatti, soltanto di percorsi più lunghi per un saldo in attivo. È in questo preciso punto di ritorno a fini di identificazione che la forma cinematografica, intesa come sintesi di movimenti corretti, si articola sull'organizzazione ciclica del capitale. Un esempio tra i tanti: in Joe (film interamente costruito sull'impressione di realtà), il movimento compare alterato in due momenti: la prima volta, quando il padre picchia a morte il giovane hippy con il quale la figlia vive, la seconda quando, “ripulendo” con il fucile una comune hippy, uccide la figlia senza saperlo. Quest'ultima sequenza si ferma su un primo piano del volto e del busto della giovane donna colpita in pieno movimento. Nel primo omicidio, distinguiamo appena, alle soglie minime di percezione, una gragnola di pugni scagliarsi su un volto indifeso che sprofonda presto nel coma. Questi due effetti, uno di immobilizzazione, l’altro di eccesso di mobilità, sono ottenuti in deroga alle norme della rappresentazione, che esigono che il movimento reale, impresso sulla pellicola a 24 fotogrammi al secondo, sia restituito in proiezione alla stessa velocità. Ci si potrebbe aspettare da ciò una forte carica affettiva, dal momento che questa perversione del ritmo realistico, come aumento o diminuzione, risponde a quella del ritmo organico nella grande emozione. E questo in effetti si produce, ma a beneficio della totalità filmica, e dunque, in definitiva, dell'ordine: perché queste due aritmie si producono non in maniera aberrante, ma esattamente in corrispondenza dei punti culminanti della tragedia dell'incesto impossibile padre/figlia che la sceneggiatura lascia intendere. Esse possono così disturbare l'ordine rappresentativo - fino a sopprimere per qualche istante la cancellazione della pellicola, che ne è la condizione essenziale - ma non cessano, al contrario, di soddisfare l'ordine narrativo, al quale imprimono una bella curva melodica, con la prima uccisione accelerata che trova la sua risoluzione nell'immobilizzazione della seconda. La memoria alla quale i film si rivolgono non è dunque nulla in se stessa, esattamente come il capitale non è nient'altro che istanza capitalizzante; è un'istanza, un insieme di istanze vuote che non operano affatto attraverso il loro contenuto: la buona forma, la buona luce, il buon montaggio, il buon missaggio, non sono “buoni” perché conformi alla realtà percettiva o sociale, ma perché, al contrario, sono gli operatori scenografici a priori che determinano gli oggetti da registrare sullo schermo e nella “realtà”.

La messa fuori scena[modifica | modifica sorgente]

La messa in scena non è un'attività “artistica”, è un processo generale che riguarda tutti gli ambiti di attività, un processo profondamente inconscio di selezione, di esclusione e di cancellazione. In altri termini, il lavoro della messa in scena si effettua su due piani simultanei, e qui sta l'aspetto più enigmatico. Da un lato, il lavoro consiste semplicemente nel separare la realtà da uno spazio di gioco (un “reale” o un “dereale”, ciò che si trova nell'obiettivo): mettere in scena significa istituire questo limite, questo quadro, circoscrivere la regione di deresponsabilità all'interno di un insieme che, ipso facto, si porrà come responsabile (lo chiameremo natura, ad esempio, o società, o ultima istanza), e dunque istituire, tra l'una e l'altra regione, una relazione di rappresentazione o di doppio!°, accompagnata necessariamente da una perdita di valore relativa alle realtà di scena che, allora, divengono solo delle rappresentanti delle realtà di realtà. Ma, d'altro lato, e in maniera indissociabile, perché la funzione di rappresentazione possa essere assicurata, il lavoro di messa in scena non deve essere solo, come abbiamo appena detto, un lavoro che mette fuori scena, ma un lavoro che conforma tutti i movimenti, da una parte e dall'altra del limite del quadro, che impone, in un luogo come nell'altro, nella “realtà” come nel reale, le stesse norme, che chiama in causa allo stesso modo tutti gli impulsi, e che, pertanto, esclude e cancella fuori scena non meno che in scena. La messa în scena impone all'oggetto filmico gli stessi punti di riferimento che impone anche, di necessità, ad ogni oggetto extrafilmico. Essa disgiunge dunque, prima di tutto sull'asse della rappresentazione, grazie al limite teatrico [théatrique], una realtà dal suo doppio, operando così un’evidente rimozione; ma în più essa elimina, oltre a questa disgiunzione rappresentativa, in un ordine pre-teatrico [pre-thédtrique] ed economico, ogni movimento pulsionale, di dereale o di realtà, che non si presterebbe a raddoppiamento, che sfuggirebbe all'identificazione, al riconoscimento e alla fissazione mnestica. Indipendentemente dal “contenuto”, che può anche apparire “violento”, la messa in scena, analizzata dalla prospettiva di questa primordiale funzione di esclusione, estesa tanto all'’esterno” quanto all'interno dello spazio cinematografico, agisce dunque sempre come un fattore di normalizzazione libidica. Questa normalizzazione, è ormai chiaro, consiste nell'escludere tutto ciò che non può essere ricondotto a forza, sulla scena, nel corpo dal film, e fuori scena, nel corpo sociale. Il film, questa strana formazione reputata normale, non lo è molto più che la società o l'organismo. I suoi oggetti, che non sono veramente tali, risultano tutti dall'imposizione e dal desiderio dì una totalità tradotta in realtà. Si presume che questi oggetti realizzino la funzione più ragionevole per eccellenza: la subordinazione di tutti i movimenti pulsionali, parziali, divergenti e sterili all'unità del corpo organico. Il film è il corpo organico dei movimenti cinematografici. È l'ekklesia delle immagini, come ciò che è politico lo è per quella degli organi sociali parziali. Per questo, la messa in scena, tecnica di esclusioni e di cancellazioni, che è per eccellenza attività politica, e quest'ultima, che è per eccellenza messa in scena, sono la religione dell'irreligione moderna, l'ecclesiastica della laicità. Il problema centrale non è, in nessuno dei due casi, né la disposizione rappresentativa, né la questione, ad essa correlata, di sapere cosa e come rappresentare, di definire una buona o vera rappresentazione: il problema è l'esclusione o la preclusione di tutto ciò che è giudicato irrappresentabile perché non-ricorrente. Il film agisce, così, come lo specchio ortopedico di cui Lacan ha analizzato, nel 1949, la funzione costitutiva del soggetto immaginario o oggetto a; il fatto che si agisca a livello di corpo sociale non modifica nulla della sua funzione. Ma il vero problema, che Lacan elude a causa del retaggio hegeliano che sottostà alle sue riflessioni, è quello di sapere perché le pulsioni diffuse sul corpo polimorfo abbiano bisogno di un oggetto nel quale riunirsi. All'interno di una filosofia della coscienza, questo termine la dice lunga sul fatto che l'esigenza di unificazione sia data per ipotesi e che sia l’obiettivo stesso di una tale filosofia; in un “pensiero” dell'inconscio, in cui una delle forme più affini alla pirotecnica sarebbe l'ipotesi economica alla quale Freud costantemente accenna, la questione della produzione dell'unità, anche immaginaria, non può più evitare di rivelarsi in tutta la sua opacità. Non dovremo più far finta di comprendere la costituzione dell'unità del soggetto a partire dalla sua immagine nello specchio, dovremo invece domandarci come e perché la parete speculare in generale, e lo schermo cinematografico in particolare, possa diventare un luogo privilegiato di investimento libidico, perché e come le pulsioni si posino su questa pelle così fine, la pellicola, e, per così dire, l'oppongano a se stesse come luogo della loro iscrizione, e per di più, come il supporto che l'operazione cinematografica, in tutti i suoi aspetti, cancellerà. Un'economia libidica del cinema dovrebbe letteralmente costruire gli operatori che sul corpo sociale e organico eliminino le aberrazioni e canalizzino le pulsioni nel dispositivo. E non è certo che il narcisismo o il masochismo siano gli operatori adeguati, perché comportano un tasso di soggettività (di teoria dell'Io) forse ancora troppo elevato.

Il tableau vivant[modifica | modifica sorgente]

L’acinéma, come abbiamo detto, si situerebbe ai due poli del cinema inteso come grafia dei movimenti: l'immobilizzazione e la mobilizzazione estreme. Solo per il pensiero questi due sistemi sono incompatibili. Nell'economia pulsionale, invece, sono necessariamente interrelati: lo stupore, il terrore, la collera, l'odio, il godimento, tutte le intensità, sono sempre degli spostamenti sur place. Bisognerebbe analizzare il termine emozione come una mozione che pervenisse all'esaurimento di se stessa, una mozione immobilizzante, una mobilizzazione immobilizzata. Le arti della rappresentazione offrono due esempi simmetrici di queste intensità, l'una in cui appare l'immobilità, il “tableau vivant”, l'altra invece in cui si manifesta l'agitazione e l'astrazione lirica. In Svezia esiste oggi un società detta di posering, termine preso in prestito alla posa indicata dal ritrattista fotografico: giovani donne prestano i loro servizi presso delle maisons specializzate, servizi che consistono nell'assumere, con o senza abiti, le pose che i clienti desiderano. Dal momento che non si tratta di luoghi di prostituzione, però, a costoro è proibito toccare in qualsiasi modo le modelle. Verrebbe da pensare che una simile associazione sia perfettamente a misura della fantasmatica di Klossowski, nella quale sappiamo l'importanza accordata al tableau vivant, come simulacro quasi perfetto del fantasma e della sua intensità paradossale. Ma bisogna prestare attenzione alla maniera in cui, in questo caso, si dispiega il paradosso: l'immobilizzazione sembra interessare solo l'oggetto erotico, mentre il soggetto si troverebbe in balia del più forte turbamento. Forse non è facile come sembra, e bisognerebbe piuttosto considerare il dispositivo come ciò che opera la segmentazione, sui due corpi, quello della modella e quello del cliente, delle regioni di intensificazione erotica estrema per uno dei due, quello del cliente, reputato dunque intatto nella sua integrità. Una formulazione del genere, nella quale si coglie un’affinità con la problematica sadiana del godimento, obbliga, per quello che ci interessa, a notare quanto segue: generalmente, il tableau vivant ha un potenziale libidico certo, perché mette in comunicazione l'ordine scenico con quello economico e perché si avvale di “persone totali” come di zone erogene staccate sulle quali convogliare le pulsioni dello spettatore (non stiamo parlando qui di una facile riduzione al voyeurismo). Così facendo, fa percepire il prezzo, elevatissimo, come spiega mirabilmente Klossowski, che il corpo organico, pretesa unità del preteso soggetto, è costretto a pagare perché il piacere esploda nella sua irreversibile sterilità. È lo stesso prezzo che il cinema dovrebbe pagare se si muovesse verso il primo dei suoi due poli estremi, l'immobilizzazione: perché questa (che non è immobilità) significherebbe che il cinema ha continuamente bisogno di sbarazzarsi della sintesi convenzionale che ogni movimento cinematografico diffonde con lui, perché, al posto delle buone forme ragionevoli e unificanti che offre all'identificazione, l'immagine dia sostanza, con il fascino della sua paralisi, all'agitazione più intensa. Si troverebbero già molti film di ricerca e underground per illustrare quest'orientamento verso l'immobilizzazione. Bisognerebbe qui affrontare, nella sua complessità, una questione di fondamentale importanza: in Sade o Klossowski, è evidente che il paradosso dell'immobilizzazione si distribuisce chiaramente sul piano della rappresentazione. L'oggetto, la vittima, la prostituta, assume la sua posa, offrendosi così come regione a sé, ma bisogna anche che, nello stesso tempo, si sottragga** o si umili come persona totale. L'allusione a quest'ultima è un fattore indispensabile dell'intensificazione, perché indica il prezzo inestimabile del dirottamento di pulsioni alla quale procede il godimento perverso. È dunque essenziale che questa fantasmatica sia rappresentativa, che cioè offra allo spettatore delle istanze di identificazione, delle forme riconoscibili, che offra, insomma, materia alla memoria: perché, ripetiamolo, è a spese del superamento di quest'ultima e dello scompiglio dell'ordine della propagazione che l'emozione intensa si farà sentire. Ne consegue che il supporto del simulacro — che si tratti della descrizione dello scrittore, della pellicola del fotografo Pierre Zucca (che illustra(?) La monnaie vivante), della carta del disegnatore Pierre Klossowski - non dovrà essere soggetto ad alcuna perversione rilevante in modo che questa riguardi soltanto ciò che esso supporta, la rappresentazione della vittima: lo mantiene, dunque, nell'insensibilità o nell'incoscienza. Da questo deriva l’attiva militanza di Klossowski in favore della plastica rappresentativa e i suoi anatemi contro la pittura astratta.

L'astrazione[modifica | modifica sorgente]

Ma cosa succede, invece, se è il supporto stesso ad essere coinvolto in questa perversione? Saranno allora la pellicola, i movimenti, le illuminazioni, gli aggiustamenti, a rifiutarsi di produrre l'immagine riconoscibile di una vittima o di un modello immobile, e ad incaricarsi essi stessi, senza più lasciar nulla al corpo fantasmatico, dell'agitazione e del dispendio pulsionale. La pellicola (per la pittura, la tela) si fa corpo fantasmatico. In pittura, ogni astrazione lirica si basa su questo spostamento che implica l'attrazione, non più verso l'immobilità del modello, ma verso la mobilità del supporto. Mobilità che è tutto il contrario del movimento cinematografico, che deriva da ogni procedimento in grado di scomporre le belle forme che questo suggerisce, a livello elementare o complesso, e che questo tormenta. Essa si oppone alle sintesi di identificazione, si sottrae alle istanze mnestiche e può anche andare oltre, comportando un'atarassia delle costituenti iconiche che dovremmo intendere, ancora una volta, come mobilizzazione del supporto. Ma questa maniera di eludere il movimento attraverso il supporto non deve essere confusa con quella che passa attraverso l'attacco paralizzante della vittima che fa da motivo-modello.? Qui, non solo non vi è più bisogno di modello, ma è la relazione al corpo del cliente-spettatore ad essere completamente spostata. Come si produce il godimento davanti ad una grande tela di Pollock o di Rothko o davanti ad un’opera di Richter, di Baruchello o di Eggeling? Se sparisce il riferimento alla perdita del corpo unificato, se non appare più, grazie all'immobilizzazione del modello e al suo dirottamento finalizzato a deflussi parziali, quanto inapprezzabile sia la disposizione che il cliente-spettatore può ottenere, il rappresentato smetterà di essere oggetto libidico e lo schermo stesso prenderà il suo posto nei suoi aspetti più formali. La pelle sottile non si annulla più a beneficio della carne, ma si offre come carne stessa in posa. Su quale corpo unificato fa però affidamento perché lo spettatore possa goderne e per sembrare a questi davvero di un inestimabile valore? Davanti ai fremiti più sottili, ai confini delle superfici di contatto che raccordano le campiture cromatiche delle tele di Rothko, o davanti agli spostamenti quasi impercettibili di piccoli oggetti o organi di Pol Bury, è a prezzo di rinunciare alla sua totalità di corpo e alla sintesi dei movimenti che lo fa esistere, che il corpo dello spettatore stesso può goderne: questi oggetti esigono la paralisi non più dell’oggetto-modello, ma del “soggetto”-cliente, la decomposizione del suo stesso organismo, la restrizione delle vie di transito e di deflusso libidico a piccolissime regioni parziali (occhiocorteccia la neutralizzazione del corpo quasi intero in una ten. sione che blocca ogni deflusso delle pulsioni verso vie diverse da quelle necessarie all'individuazione delle sottili differenze sull'oggetto. Lo stesso dicasi, anche se con modalità differenti, degli effetti degli eccessi di movimento di un Pollock in pittura o di un Thompson (lavoro sull'obiettivo) nel cinema. Il cinema astratto, come la pittura astratta, rendendo opaco il supporto, ribalta il dispositivo e fa del cliente la vittima. E vi è ancora lo stesso principio, anche se in maniera diversa, negli spostamenti quasi impercettibili nel teatro NÒ. La domanda, da considerarsi cruciale perché riguarda la messa in scena e dunque la messa în società (fuori scena), è la seguente: è davvero necessario che la vittima sia in scena perché il godimento sia intenso? Se la vittima è il cliente, se in scena c'è soltanto la pellicola, lo schermo, la tela, il supporto, perdiamo, con ciò, l'intensità del deflusso sterile? E, se questo è vero, è necessario rinunciare a farla finita con l'illusione, non solo cinematografica, ma anche sociale e politica? Non si tratta forse di un'unica illusione? Ed è necessario credere che si tratti di illusione? Bisogna assolutamente che il ritorno delle intensità estreme sia fatto istanza almeno su questa permanenza vuota, su questo fantasma di corpo organico o di soggetto, che è il nome proprio (anche se non vi ci si saprebbe stabilire)? Questa istanza, questo amore, in che cosa si distingue da questo ancoraggio al nulla che costituisce il capitale?

Traduzione di Chiara Tartarini

Jean-Frangois Lyotard (1924-1998)[modifica | modifica sorgente]

Jean-Frangois Lyotard è nato a Parigi nel 1924. “Agrégé” di filosofia nel 1950 e “docteur ès lettres” nel 1971, ha svolto attività di ricerca e di insegnamento alla Sorbonne, a Nanterre, al CNRS e all'Université de Paris VIII (Vincennes, Sain Denis) dove divenne professore emerito dal 1984. Ha insegnato inoltre in varie Università all’estero (Stati Uniti, Danimarca, Canada, Italia, Brasile e Germania). Ha svolto lavoro politico nel gruppo prima nel “Socialisme ou barbarie”, poi a “Pouvoir ouvrier”. Interprete dei testi di Marx e di Freud, Lyotard fece largo uso del concetto di economia libidinale, attraverso il quale si adoperò per dimostrare quanto di passionale c'è nell'economia politica e di politico nelle passioni. Tra le sue opere vanno ricordate: La phénoménologie, P.U.F., Paris 1954; Discours, figure, Klincksieck, Paris 1971; Economie libidinale, Minuit, Paris 1974 (trad. it. Economia libidinale, Colportage, Firenze 1978); Dérives à partir de Marx et Freud, U.G.E. 10/18, Paris 1973 (trad. it. A partire da Marx e Freud, Multhipla, Milano 1979); La condition postmoderne, Minuit, Paris 1979 (trad. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981); Le différend, Minuit, Paris 1984 (trad. it. Il dissidio, Feltrinelli, Milano 1985); L'enthousiasme. La critique kantienne de l'histoire, Galilée Paris, 1986; Heidegger et les juif, Galilée, Paris, 1988; La guerre des Algériens, Ecrits 1956-1963, Galilée, Paris 1989; Lectures d'enfance, Galilée, Paris 1991; Signé Malraux, Grasset, Paris 1996. Ordinatore della mostra Les Immateriaux presso il Centre Georges Pompidou di Parigi nel 1985, Lyotard si è occupato intensamente della produzione artistica contemporanea: Les Transformateurs Duchamp. Galilée, Paris 1977; Essai sur le secret dans l'oeuvre de Baruchello, Galilée, Paris, 1982 (trad. it. La pittura del segreto nell'epoca post moderna, Baruchello, Feltrinelli, Milano 1982) L’Assassinat de l’expérience par la peinture, Monory, Le Castor Astral, Paris 1984; Legons sur l'Analytique du sublime: Kant, Critique de la faculté de juger, Galilée, Paris 1991. Tra le sue opere, una delle più celebri è sicuramente La condizione postmoderna. Con questo libro Lyotard definisce quale peculiarità della società “postmoderna” la fine delle grandi narrazioni metafisiche (illuminismo, idealismo, marxismo) che hanno giustificato ideologicamente la coesione sociale e ne hanno ispirato, nella modernità, le utopie rivoluzionarie. La ricerca di Lyotard degli ultimi anni si è concentrata sul problema dei criteri di giudizio e di legittimazione che abbiano valore locale e non più universale: è questa la direzione intrapresa con indagini sul ruolo della razionalità pratica e la rivalutazione del “sublime” come categoria critica del reale. Lyotard si occupò di cinema tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta con una serie di seminari e di sperimentazioni audiovisive, in collaborazione con Dominique Avron, Claudine Eyzikman, Guy Fihman che poi proseguirono autonomamente il loro lavoro di cineasti e ricercatori. Da queste esperienze è nato il testo teorico L'acinéma (in Cinéma: théorie, lectures, numero speciale della “Revue d'Esthétique”, Klinksieck, Paris 1973) e una serie di sperimentazioni cine-video, la principale delle quali è L’autre scène (1969-1972) sulla relazione tra lavoro onirico e lavoro filmico. Da tutto questo ha preso avvio l’esperienza della Paris Film Coop-Cinédoc, alla quale è stata dedicata la restrospettiva del Bellaria Film Festival del 2002. Lyotard è morto a Parigi nel 1998 all’età di 74 anni.

Che cos'è l'“acinéma”? Lyotard e il cinema sperimentale francese degli anni settanta[modifica | modifica sorgente]

di Antonio Costa

C'è evidentemente uno stretto legame tra il testo L'acinéma, alla cui elaborazione hanno concorso Dominique Avron, Claudine Eyzikman, Guy Fihman come riconosce esplicitamente lo stesso autore, e la sperimentazione che, a partire da L’autre scène (1969- 72), è stata realizzata dallo stesso gruppo di cineasti. Fu proprio in seguito a questa esperienza realizzativa, condotta alla fine degli anni sessanta al Service de la Recherche dell'ORTF, e ai seminari teorici che la hanno accompagnata, che il gruppo venne invitato a dare un contributo per un numero monografico de La Revue d'Esthétique, diretto da Dominique Noguez: nacquero così, oltre a L'acinéma di Lyotard, Remarques sur le travail du son dans la production cinématographique standardisée di Dominique Avron, Que sans discours apparaissent les film di Claudine Eyzikman e D'où viennent les images claires de Guy Fihman!. Con la proiezione di L'autre scène, Mao Gillette, Tribun sans tribune e la traduzione di L'acinéma, il Bellaria Film Festival continua il lavoro iniziato lo scorso anno con la rassegna, curata da Claudine Eyzikman e Guy Fihman, dedicata alla Paris Film Coop. Non si tratta soltanto di un omaggio a Jean Frangois Lyotard a cinque anni dalla sua scomparsa. Certo, Lyotard, secondo una tradizione francese che non ha corrispondenza nel nostro paese e nelle nostre università, è un filosofo che ha prestato attenzione al cinema e un filosofo il cui pensiero si è incontrato con il cinema*. Ma c'è qualcosa di più, in quanto Lyotard ha anche avviato un tipo di riflessione che si è tradotta in sperimentazione, sperimentazione diretta, nel caso di L'autre scène, e sperimentazione indotta, nel caso del gruppo di Avron, Eyzikman e Fihman, ma anche nel caso di Baruchello con il quale si sviluppa un rapporto di reciproca attenzione che diede luogo, tra l'altro, a quel curioso “essai” che pure viene presentato a Bellaria, A partire dal Dolce (1979-80), riflessione a più voci, in forma di interviste con vari intellettuali, sulla categoria di dolce. Il testo di Lyotard L'acinéma fornisce la teoria di quel tipo di sperimentazione, come del resto dimostra il recente saggio di Fihman e Eyzikman L’oeil de Lyotard de l'acinéma au postmodeme?, nel quale i due cineasti e studiosi evidenziano il ruolo fondativo di quell'intervento, ma allo stesso tempo l'evoluzione conosciuta sia dal pensiero di Lyotard sia dalla loro stessa sperimentazione, L’acinéma è un proclama contro il cinema della normalizzazione. Prima ancora di normalizzare nella convenzione della rappresentazione/narrazione la gamma vastissima delle sue potenzialità, il cinema normalizza la materia di cui è fatto: il movimento. Rispetto all'infinita varietà di movimenti possibili, la produzione del film comporta, secondo Lyotard, l'esclusione di una moltitudine di “mobiles”. Ad essere sistematicamente esclusi sono i limiti estremi, vale a dire l'immobilità e l'eccesso di movimento: Imparare i mestieri del cinema consiste nel diventare capaci di eliminare, al momento della produzione del film, un buon numero di questi movimenti possibili. La composizione dell'immagine, dell'immagine, della sequenza, del film sembra dover avere luogo a spese di queste esclusioni. Il movimento viene, secondo Lyotard, selezionato e reso funzionale alla rappresentazione-narrazione, escludendo pertanto tutto ciò che resta (deve restare) estraneo alla costituzione del sistema rappresentativo-narrativo. Sviluppando e approfondendo tali idee in direzione di un'economia politico-libidinale del cinema, Caludine Eyzikman delineerà la contrapposizione cinema sperimentale, caratterizzato dal dispendio improduttivo e quello che viene da lei definito il NRI, cioè il cinema “narrativo-rappresentativo-industriale”. Il saggio di Lyotard va quindi collocato nell'ambito di quella spinta anti-istituzionale -tanto in senso politico che in senso linguistico- estetico- che caratterizza la teoria e la prassi del cinema alla metà degli anni sessanta e che coinvolge non solo il cinema sperimentale e d'avanguardia. Si pensi, ad esempio, alla teoria del cinema di poesia e della “lingua scritta dell'azione” di Pier Paolo Pasolini", che notoriamente non amava l'avanguardia. E tuttavia credo non sia difficile dimostrare le analogie che esistono tra la formula “lingua scritta dell'azione” di Pasolini e quella di Lyotard secondo la quale nel cinema “on y écrit en mouvements”, il cinema è scrittura di movimenti. L'idea pasoliniana di un'energia poetica insita nella natura stessa (riproduttiva) del mezzo cinematografico che viene negata e convogliata nelle convenzioni narrative del cinema commerciale potrebbe essere riformulata in termini analoghi a quelli di Lyotard in L’acinéma. D'altra parte conosciamo il debito esplicitamente riconosciuta da Gilles Deleuze alla teoria pasoliniana della soggettiva libera indiretta”. Più diretta e più facilmente contestualizzabile è la relazione tra L'acinéma di Lyotard e le critiche radicali al sistema di rappresentazione prospettica che, secondo la riflessione sviluppata nelle riviste francesi tra la fine dei sessanta e i primi settanta, unisce e salda in un'unica visione ideologica la pittura del Rinascimento al cinema, la camera obscura di Leonardo alla cinepresa, la prospettiva quattrocentesca a Hollywood”. Echi di tale impostazione si ritrovano non solo nelle pratiche più radicali dell'avanguardia cinematografica degli anni settanta, ma anche negli studi e nelle ricerche sulla storia del cinema. Penso in particolare alla contrapposizione introdotta da Noél Burch tra MRI (Modo di Rappresentazione Istituzionale) e MRP (Modo di Rappresentazione Primitivo), nella quale è evidente l'intenzionalità di mettere in contrapposizione l'istituzionalizzazione del cinema narrativo attuata da Hollywood e le potenzialità di una sorta di statu nascenti del cinema”. Mi sembrano del resto evidenti le parentele che si possono individuare tra una certa concezione di “primitivo” e varie manifestazioni del cinema d'avanguardia. Una analoga contrapposizione, anche se ricondotta in un ambito più neutrale, più descrittivo che interpretativo, si ritrova in Gaudreault & Gunning che hanno delineato l'evoluzione tecnico-linguistica del cinema dei primi tempi nei termini di un passaggio dal SAM (Sistema delle Attrazioni Mostrative) al SIN (Sistema dell'integrazione Narrativa). Contro la normalizzazione del cinema istituzionale narrativo Lyotard espone l'idea della pirotecnica (ed anche qui non sarà ricordare l'importanza che la pirotecnica ha nel sistema delle attrazioni del cinema “primitivo” di Méliès e i legami che esso conserva con il dispendio improduttivo della festa). Nella sua semplicità estrema l'esempio che fa Lyotard stesso del bambino che accende un fiammifero per il puro piacere dell'esplosione di luce/calore e non per accendere il gas è di una chiarezza esemplare. e introduce con una evidenza assoluta la contrapposizione tra il principio di piacere e il principio di realtà derivato dalla teoria freudiana. Mentre è su questo piano, legato allo sviluppo della teoria dei dispositivi pulsionali, che va interpretato il contributo di Lyotard alla teoria del cinema, è piuttosto su quello dell’analisi-interpretazione dei fatti filmici e della pratica sperimentale e che va misurata la proposta teorica del filosofo francese. Esiste per il cinema, per tutto il cinema, il problema di riattivare ciò che la normalizzazione della rappresentazione nega, ciò che da essa viene espunto, vale a dire l'immobilità e l'eccesso di movimento. Nel primo caso, ecco la dimensione del tableau vivant, nel secondo quella che Lyotard chiama l'esaltazione lirica. Quale esemplificazione diretta di questa implicazione dell’“irrapresentabile della rappresentazione”, Lyotard fa riferipagina mento, da una parte, all'attenzione di Pierre Klossovski al tableau vivant e, dall'altra, alla pittura dell'espressionismo astratto (Rothko e Pollock). Lyotard non esclude però che ci possano essere anche nel cinema corrente momenti particolari in cui, in deroga alle norma della rappresentazione (il movimento ripreso a 24 fotogrammi al secondo, deve poi essere restituito/proiettato alla stessa cadenza) che sfruttano effetti di immobilizzazione o parossistica esaltazione del movimento. E cita al proposito Joe-La guerra del cittadino Joe (1970) di John G. Avildsen. Pur presentando due casi di “eccessi”, essi sono tuttavia funzionali al sistema di rappresentazione, alla logica drammaturgica del film e, quindi, risultano alla fine essi stessi “normalizzati” nell'economia (politica e pulsionale, si direbbe) del film. In un intervento successivo!!, Lyotard cita una sequenza di Apocalypse Now (1979) di F. F. Coppola, quella dell'attacco degli elicotteri al suono della Cavalcatta delle Valchirie di Wagner, nella quale tuttavia l'eccesso di movimento viene interpretato come un effetto di iperrealismo, con conseguente perdita di realtà. Ma qui, viene il momento in cui la scena è saturata di elementi sonori e visivi in rapidissimo spostamento, in cui le informazioni eccedono le capacità dell'occhio e dell'orecchio e in cui il destinatario soffre di un eccesso di realtà. La scena risulta sovraffollata. Tutte le piccole storie in precedenza abbozzate sui personaggi principali e secondari sono distrutte e scompigliate, rese di colpo inafferrabili. La scena si svuota di senso [...]. Lo spettatore non riceve più dalla scena le prescrizioni che implicitamente lo inducevano a intervenire: Fa questo, pensa questo. Lo spettatore non ha più obblighi!?. In una sintesi-commento di L'acinema, Dominique Chateau introduce delle possibili esemplificazioni che possono aiutare forse con maggior efficacia a comprendere le implicazioni di questo ritorno del rimosso della rappresentazione; e cita, a proposito del tableau vivant, Passion (1982) di J.-L. Godard e, a proposito dell'esaltazione lirica, il cinema di Carmelo Bene. Secondo Eyzikman e Fihman il termine acinéma ha il merito di “evocare la natura paradossale del dispositivo cinematografico” che consiste nel produrre il movimento mediante l'immobilità: il cinema infatti riprende e restituisce il movimento “attraverso la sua soppressione”! . Partendo da questa premessa, i due cineasti e studiosi francesi mostrano quale importanza abbia avuto il pensiero lyotardiano nello sviluppo della loro sperimentazione e in particolare nei loro film V.W. Vitesse Women (1972-74) di Claudine Eizykman e Ultrarouge-Infraviolet Guy Fihman (1974) di Guy Fihman, film che sono stati presentati a Bellaria lo scorso anno!5. Sono questi in rapida sintesi i motivi che ci hanno indotto, dopo la retrospettiva dedicata lo scorso anno alla Paris Films Coop, a tributare quest'anno un omaggio a Jean-Frangois Lyotard e al ruolo propulsivo che la sua riflessione teorica e la sua sperimentazione hanno avuto nella nascita e nello sviluppo dell'avanguardia cinematografica francese degli anni settanta. Certo, ci sono anche altri momenti in cui il pensiero di Lyotard incontra il cinema, sia direttamente che indirettamente, a partire dallo sviluppo delle implicazioni delle formulazioni dell'acinéma fino alle non meno importanti e complesse relazioni tra la teoria Iyotardiana della condizione postmoderna e il cinema, senza contare poi gli sviluppi che la teoria del “figurale”, elaborata in Discours, figure ha avuto în vari sviluppi di teoria e metodi di analisi del film! . Ma tutto questo richiederebbe ben altro spazio e un tipo di rassegna ben più ampia di quella possibile a Bellaria. Siamo paghi di poter in questa occasione presentare un omaggio a Jean-Frangois Lyotard e al suo acinéma, a completamento della ricerca che abbiamo iniziato lo scorso anno, riservandoci in un prossimo futuro di riprendere queste tematiche strettamente legate allo sviluppo del pensiero del filosofo francese e ai suoi intrecci fecondi con la ricerca estetica.

Evento speciale: Il cinema delle pianure di Gianni Celati[modifica | modifica sorgente]

Cinema delle pianure: Case sparse di Gianni Celati[modifica | modifica sorgente]

di Antonio Costa

Il cinema di Gianni Celati è una sorta di back-stage dei suoi libri. Strada provinciale dell'anima (1991) ripercorre lo stesso paesaggio della raccolta Verso la foce (1989) ma, questa volta, “su una corriera azzurra assieme a trenta persone”. I{ mondo di Luigi Ghirri (1998) è una testimonianza appassionata sul lavoro fatto in comune con l’amico fotografo (prematuramente scomparso nel ‘92). Case sparse-Visioni di case che crollano (2003) è il capitolo conclusivo di questa trilogia audiovisiva che prolunga e integra il lavoro di scrittura. Con il volume di racconti Narratori delle pianure (1985) Celati aveva iniziato il suo viaggio attraverso la Valle Padana alla ricerca di storie da raccontare. Da allora fino al suo libro più recente (Cinema naturale, 2001), Celati ha continuato questa raccolta di storie. I suoi film-documentari (ma io preferisco chiamarli film e basta) sono un altro aspetto del suo viaggio alla ricerca di cose da vedere (e sentire). Per questo mi piace definirli cinema delle pianure. E penso alla fotografia di Ghirri che c'è in copertina della prima edizione Feltrinelli di Narratori delle pianure: c'è lo scrittore fotografato di spalle, rivolto verso l'orizzonte brumoso di una spianata bianca di neve (nessuno ha saputo fotografare la neve come Ghirri, uomo di pianura). Osserva Celati, in Il mondo di Luigi Ghirri: “Metteva sempre le persone di spalle a guardare qualcosa”. E ancora: “Luigi diceva che la fotografia è il mondo che‘. guarda il mondo”. Case sparse, a partire dal titolo, sviluppa suggestioni di Ghirri (lo scrittore Ermanno Cavazzoni ricorda: “Uno degli ultimi progetti di Ghirri, prima di morire, era quello di fotografare le vecchie case di campagna: doveva chiamarsi Case sparse”). E a Luigi molto doveva Strada provinciale dell'anima. Vi appariva come una sorta di fotografo di scena. In realtà era l'ispiratore della concezione visiva del film. E della sua filosofia. In una scena, l'unica în cui prende la parola, Ghirri ricorda una definizione di paesaggio come “luogo dove finisce la natura” (Ansel Adams). E aggiunge che il paesaggio “è anche luogo di distruzione”, riconoscendo che in ogni rappresentazione c'è una riduzione, una schematizzazione della complessità delle percezioni: “gli odori, il vento che ti passa sulla faccia, la luce, le parole che ascolti, i suoni che non ci sono...: forse, alla fine, il paesaggio è il luogo dell'attenzione infinita. In questo senso non riesci mai a trovare un punto definitivo per determinare un ambiente...”. E a ricordarci il paesaggio come luogo di attenzione infinita, in Strada provinciale dell’anima, c'è anche Stefano Barnaba, lo straordinario tecnico del suono di tutti i film di Celati. Barnaba non dice una parola, ma è lì a ricordarci, entrando e uscendo dalle inquadrature con i suoi strani strumenti di registrazione, che un film si fa registrando immagini e suoni. Lo spettatore în genere ricorda solo le immagini. A nessuno viene mai in mente di dirgli buon ascolto, nessuno gli augura mai buona audiovisione. Veduta frontale e il cinema dell'attesa. C'è un breve testo di Celati su Antonioni, scritto nell'87. Si chiama La veduta frontale. Antonioni, l'Avventura e l'attesa. Qui egli interpreta il mondo del regista ferrarese attraverso una fotografia di Ghirri. La fotografia è quella famosa del rettangolo bianco di una porta in un campo di calcio, nel bel mezzo di una campagna di un verde impenetrabile. Tutto il brano è costruito su un’opposizione tra due termini: aspettative e attesa. Le aspettative sono soddisfatte dai meccanismi narrativi del cinema spettacolare (ma anche, possiamo aggiungere, dalle grandi narrazioni ideologiche della società, della storia). L'attesa è un’altra cosa. Le aspettative servono a “ingannare il tempo”, L'attesa è invece la sensazione di un presente ineludibile, di un tempo che non può essere ingannato. 'attesa è una “sosta nel paesaggio”. Mentre le vedute oblique, di scorcio, sono il cinema delle aspettative, il cinema spettacolare, le vedute frontali sono îl cinema dell'attesa, il cinema di Antonioni, le fotografie di Ghirri. Case sparse è, allo stesso tempo una ricerca di immagini e una ricerca sull'immagine. Le immagini sono quelle dei casolari abbandonati, delle case che crollano, abitazioni disabitate, ville in rovina, chiese scoperchiate. Immagini fuggevoli per chi attraversa la pianura sfrecciando in autostrada o per chi guarda il paesaggio dal finestrino di un eurostar. Immagini che si possono guardare un po’ più da vicino vagando lungo la foce o prendendo un treno locale, per esempio il trenino rosso della linea Parma-Suzzara che ferma a Luzzara, il paese di Zavattini, a Boretto che abbiamo imparato a conoscere sulle pagine di Verso la foce... Di immagini di rovine Celati mette insieme una bella collezione, un po’ come i soldati di Godard tornati dalla guerra (Les carabiniers). E che una guerra sulla Valla Padana ci sia stata, lunca e estenuante, Celati sembra non aver dubbi: una guerra che ha lasciato ovunque rovine, anche se mentre si svolgeva nessuno sembrava accorgersene. In uno dei testi scritti per Ghirri, Celati definiva Il profilo delle nuvole, “lalbum delle cose che si possono vedere, indicate nel modo in cuì chiedono di essere viste”. Questo è il punto: come si guardano queste rovine? Cosa significa fissare le immagini di queste rovine? E ancora: cosa sono le rovine? Lo sguardo della macchina da presa cerca la giusta prospettiva e tende a fissarla nell'esattezza di un’inquadratura: ora è un colore che emerge, ora è l'associazione di un suono evocativo di spazio circostante, ora un oggetto (un rottame di bicicletta, la carcassa di un televisore, una trave sporgente, fradicia d'acqua...). Le immagini in movimento di Celati sembrano cercare l'esattezza delle fotografie di Ghirri, ma per verificame l'impossibilità. Nel tempo sospeso si inserisce il movimento quasi impercettibile delle foglie di un albero, dei fili d'erba di un prato in primo piano; l'incanto della visione è interrotto da un'auto che sfrecciando lacera l'intelaiatura del giusto vedere. Tutto questo è cinema: esso ha in comune con la fotografia la ricerca di un senso da attribuire all'atto del vedere. La fotografia di Ghirri procede per astrazioni, per sottrazioni: sottrae l'attimo alla precarietà, alla casualità del tempo che passa. Il cinema di Celati temporalizza l'attimo fotografico, lo scompiglia: ci fa vivere la dimensione dell'attesa, che ci rivela l'ineludibilità del tempo, della morte degli oggetti. C'è un'inquadratura di uno specchio d’acqua limpida che ci fa vedere in trasparenza, depositati sul fondo, oggetti sommersi da chissà quando, che si confondono con la vegetazione acquatica, desueti gli uni e l'altra come reperti archeologici che si danno al nostro sguardo sotto una patina di melma grigiastra: di tanto in tanto, una goccia d'acqua, cadendo, agita la superficie e turba per un attimo l'ordine immobile delle cose. Così si guardano le rovine; così le rovine ci guardano. In Case sparse non ci sono solo questi momenti privilegiati, quelli in cui il “mondo guarda il mondo”, come diceva Ghirri. Ci sono anche informazioni varie su tempi, modi in cui è avvenuto questo progressivo abbandono delle case sparse, in cui si è compiuto il degrado del tessuto abitativo. Ma non sono questi aspetti “sociologici” a costituire il centro del film, a determinarne la qualità visiva (audiovisiva), ineludibile come il tempo presente. Celati riesce a trasmetterci in Case sparse una sensazione che C'era già in Verso la foce, dove aveva parlato di “un nuovo genere di campagne in cui si respira un'aria di solitudine urbana”. In un articolo su Case sparse pubblicato in “Alias”, Marco Belpoliti ha giustamente ricordato un saggio di Celati, che si intitola Il bazar archeologico (1975), al quale si può far risalire la filosofia della sua ricerca di immagini e di storie. Si tratta di un'idea di modernità (ricavata da Benjamin, Breton, Blanchot, Bachtin e altri) che mette il bazar al posto del museo, che prende le distanze dallo storicismo e dalla sua idea di Storia, a favore dei frammenti, degli sguardi marginali. Giustamente Belpoliti cita la frase che dà il senso di quel saggio, ma che dà anche il senso di questa ricerca sulle rovine: “ciò che manca alla Storia è il senso di morte degli oggetti”.

Personaggi e storie: una questione di sguardi[modifica | modifica sorgente]

In Case sparse il compito di enunciare queste idee è affidato a John Berger, accreditato nei titoli di coda come il narratore. Verso la fine lo vediamo guardare, dal porticato di una casa in rovina, un giovane pioppeto che si distende davanti ai suoi occhi. Egli osserva che gli alberi sono piantati in modo da offrire diverse direzioni allo sguardo, quella principale che conduce direttamente verso il fiume, ma anche altre trasversali, marginali, secondarie. E conclude con una sorta di invettiva contro l'inganno dello storicismo, l'ideologia del grande unico sentiero della Storia: “A scuola ci insegnano che c'è un unico sentiero, il grande sentiero della Storia, la grande interpretazione storica del passato che sarebbe questo viale principale. Balle! In realtà, quando ci sì trova davvero di fronte al passato, ci sono tanti sentieri da prendere, forse tanti quante sono le persone che guardano e che scelgono le loro strade.” A questo punto, Celati, che nel film traduce Berger che parla inglese, entra in campo dal lato inferiore dell'inquadratura e applaude. John Berger è un intellettuale londinese settantenne, dai capelli bianchi dritti, uno sguardo chiaro e intenso, il volto asciutto come quello di Beckett. È autore di Questione di sguardi, un libro che ha per sottotitolo Sette inviti al vedere tra storia dell'arte e quotidianità. Nei suoi interventi lungo il film, durante i quali porta quasi sempre una camicia azzurra come la corriera di Via provinciale dell'anima, egli ci parla del modo di guardare le rovine. “La verità è che quando si osserva davvero una di queste case che crollano si entra in una diversa dimensione. Di solito noi non mettiamo gli occhi su aspetti del genere, aspetti in cui le cose si trasformano intensamente, si trasfigurano nel loro stato di abbandono, diventano come strane memorie che in realtà non sappiamo che cosa ci vogliano dire, né cosa significhino per gli altri. Loro sono dei relitti. noi almeno per un momento ci troviamo smarriti.” Cogliere lo smarrimento, l'esitazione tra vari sensi possibili senza che in realtà uno possa prevalere. Questo cercano le immagini di Celati: le inquadrature mobili (lenti carrelli in avanti alla ricerca della giusto attimo in cui la luce, il colore il dettaglio si rivelano allo sguardo), i piani fissi, i campi lunghissimi come quelli che mostrano una cascina che emerge dalle acque come una palafitta, ultime, indimenticabili, immagini del film dopo i titoli di coda. Forse il senso sta nelle storie dei personaggi che si raccontano, come quella detta più volte, in differenti situazioni, dall'attrice Bianca Maria D'Amato. A guidarla nella ricerca della giusta intonazione, nella giusta posa è Alberto Sironi (per un telespettatore d'oggi è il regista del Montalbano televisivo, ma per i lettori di Celati è un personaggio di Verso la foce, con il quale egli lavorava a una sceneggiatura su Fausto Coppi): “Solo quando mi sono sposata ho visto una casa nuova. Prima in campagna nessuno aveva l'acqua in casa. Adesso avevo l'acqua corrente. Casa Calda. Mio marito in un caseificio. Io mi ero messa a fare l'infermiera. Incontravo degli uomini. Sono andata con un imbianchino. L'imbianchino...” Infine l'attrice dice la sua storia sul palcoscenico di un teatro (è il Teatro Petrella di Longiano), mentre su uno schermo passano vecchi documentari in bianco e nero (di Florestano Vancini, Renzo Renzi, Giuseppe Morandi), immagini che sembrano venire da un altro mondo... “Tra le case sparse ci si conosceva tutti. Tutti sapevano tutto di te. Le campagne erano per me posti per nascondermi. Anche nei fossi delle volte. Delle volte con uomini. Delle volte nel buio stavo in un fosso a guardare le stelle.” Case sparse-Visioni di case che crollano (2003) è prodotto da Pierrot e la Rosa (Via S. Pier Tommaso, 18, 40139 Bologna) e Stefilm în coproduzione con ZDF/ARTE e con la partecipazione di Telepiù. E stato presentato al Festival “Memorie periferiche” di Livorno (28 genn-1 febbr. 2003) ed è stato trasmesso da Telepiù il 28 gennaio 2003 e più volte replicato. Ugualmente prodotti da Pierrot e la Rosa sono stati Strada provinciale dell'anima (1991; andato in onda su Raitre nel 1992) e I{ mondo di Luigi Ghirri (1998). I libri di Gianni Celati citati sono: Narratori delle pianure, Feltrinelli, Milano 1985; Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989; Cinema naturale, Feltrinelli, Milano 2001; l'articolo di Celati, La veduta frontale. Antonioni, l'Avventura e l'attesa è apparso in “Cinema & Cinema”, a. XIV, n. 49, giugno 1987, pp. 5-6; il saggio di Celati Il bazar archeologico (1975) è ora compreso nel suo volume Finzioni occidentali, Einaudi, Torino 2001, pp. 197-227. Il libro di Ghirri cui si fa riferimento è Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano, testi di G. Celati, Feltrinelli, Milano 1989.Il libro di John Berger, Questioni di sguardi è edito da Il Saggiatore, Milano 1998. L'articolo di Marco Belpoliti, Celati, cinema-filosofia lungo la valle del Po è apparso in “Alias”, suppl. sett. di “Il manifesto”, a.VI, n. 7, 15 febbraio 2003, p. 18. Il film su Coppi, diretto da Alberto Sironi che lo ha scritto con Celati, si intitola Il grande Fausto (1995) ed è interpretato da Sergio Castellito e Ornella Muti.

Film[modifica | modifica sorgente]

Documentari imprevedibili come i sogni - Conversazione con Gianni Celati[modifica | modifica sorgente]

A cura di Sarah Hill

Gianni Celati sta attualmente a Chicago, dove il 28 maggio sarà proiettato Visioni di case che crollano, l'ultimo suo documentario. Invitato dall'Università di Chicago, sta svolgendo un seminario sullo Zibaldone di Leopardi. Questo è il libro che aveva in mente come modello di scrittura, nella sua prima narrazione documentaria, Verso la foce, un reportage sulla solitudine urbana nelle campagne modere, pubblicato nel 1989. Dopo Verso la foce è passato a dirigere dei veri documentari, iniziando con Strada provinciale delle anime, del 1991, dove porta in viaggio nel delta del Po un gruppo di trenta persone, tra vecchi zii e zie, cugini, parenti e amici. Solo nel 1999 potrà dirigere un secondo film, Il mondo di Luigi Ghirri, che è un tributo a uno dei maggiori fotografi italiani. Il suo terzo lavoro documentaristico, Visioni di case che crollano (2003), è uno studio sulle case abbandonate nelle campagne della Valle del Po. Mentre porta l'attenzione su aspetti marginali o ignorati del paesaggio, in questo film Celati abbandona molte convenzioni del documentario tradizionale, come l'illusione di catturare una « realtà» e l'uso della voce fuori campo che spiega quello che vediamo. Invece c'è un coro di voci varie che si alternano, mentre vediamo i membri della troupe che filmano le case crollanti, e lo scrittore inglese John Berger in riva al Po nelle vesti di narratore, e il regista Alberto Sironi che dirige l'attrice Bianca Maria D'Amato, la quale fa le prove per una recitata teatrale sull'abbandono delle vecchie case - recita che dà al film una struttura musicale, come una cantata. La conversazione con Gianni Celati qui riportata si è svolta a Chicago îl 3 maggio, ed è stata completata il 15 maggio 2003.]

GC: Quando è scoppiata la guerra in Iraq ero qui a Chicago, e per una settimana ho passato le giornate guardando la televisione. C'erano i reportages dal fronte, i responsi degli esperti, i discorsi dei conduttori di trasmissioni, ma per una settimana io non ho sentito una sola frase che non fosse propaganda patriottica. A un certo punto non ne potevo e dovevo scappar fuori, anche perché quei giornalisti non mi informavano su niente e parlavano solo con frasi prescritte. La loro era una realtà tutta fatta di parole e decisa in partenza, che non doveva essere perturbata da niente. Poi fuori c'era il mondo, le case, le vecchie signore con l'artrite nel supermercato, i quartieri disastrati del ghetto, i giovanotti neri che ti chiedono degli spiccioli. Ma tutto questo era come se non esistesse, spazzato via dalla fiction della guerra. Era il modello d'una fiction totalitaria, chiusa a tutto quello che può succedere, che ha bisogno di sempre nuove rimozioni e censure del pensiero. Con i documentari si può almeno tentare di rimettere in gioco uno scarto nella visione, in mezzo a tutti questi spettacoli pubblicitari che sostituiscono e sostituiranno sempre più ciò che noi chiamavamo « vita ».

SH: Una volta tu hai detto che i documentari sono « racconti come tutti gli altri ». Ma c'è qualcosa che distingue — se non altro - un documentario da altre forme cinematografiche?

GC: C'è un'aura di moralità che avvolge il documentario e che lo pone in antitesi con gli spettacoli del cinema. Il cinema sarebbe la finzione e il documentario sarebbe la realtà presentata senza infingimenti. Io però non credo che filmando il mondo esterno qualcuno mi documenti la cosiddetta realtà. Mi mostra delle cose che esistono, ma non per questo evade dalla finzione. Una macchina da presa porta con sé tutto un modo di immaginare il mondo, e trasforma ogni cosa osservata. Ogni tipo di inquadratura è già un tipo di finzione immaginativa o di messa in scena. Dunque alla fine tra film e documentario forse non c'è molta differenza nei modi di manipolazione delle immagini, ma c'è differenza nel grado di sorveglianza dei confini del fittizio. Nel cinema ufficiale la dimensione del fittizio è intoccabile, un vero tabù professionale, tutto deve essere finto; il che vuol dire che non c'è posto per imprevisti, per l'apertura a situazioni esterne, contingenti o qualsiasi. E questa mi pare l'essenza stessa del documentario : l’esposizione all'inatteso, al fuori, a una situazione contingente che diventa come una dimensione esterna dell'inconscio.

SH: Ma cosa « documenta » un documentario ? L'apertura all'imprevisto?

GC: Secondo me, mostra l'esposizione a qualcosa che può essere pensato come una zona d'inconscio, fatta di tutte le cose quotidiane nello spazio esterno - tutto quello che è fuori di noi - qualcosa di anonimo e collettivo, di esterno e contingente, che non può essere controllato o presupposto, come non si possono controllare o presupporre i sogni che faremo. Il primo esempio di documentario, Nanuk di Flaherty, non è tanto straordinario perché ci mostri il « vero » modo di vita d'una famiglia di eschimesi. Sappiamo che Flaherty faceva recitare i suoi personaggi come in un film e ricreava dei veri set (come l'igloo spaccato a metà, per aver abbastanza luce nelle riprese). Quello che è straordinario e sempre sorprendente in Nanuk è l'esposizione a una situazione che non puo essere finta, che è difficile da controllare, da filmare, ma anche da capire, e dove i discorsi che dovrebbero riportarla a significati previsti si perdono per strada. Così nasce un film senza discorsi, solo di immagini, che sembra davvero un sogno, con quelle incredibili aperture all'infinito.

SH: A parte l'esempio di Nanuk, in quali altri documentari hai trovato questo genere di esposizione all'incontrollabile, all'inconscio sociale dello spazio esterno?

GC: Tra le cose più entusiasmanti nell'orizzonte dei documentari c'è innanzi tutto L'uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov. Raramente il cinema ha dato tante stimolazioni alle nostre capacità percettive e capacità di pensiero. La sua grandezza sta nel liquidare l'idea che al mondo esista qualcosa di banale, di poco interessante. E' un esercizio a guardare tutto, dove tutto diventa singolare, come quando si visita una città in stato di innamoramento. Questo rende qualsiasi aspetto della città - Odessa, dall'alba alla notte - commovente come la vita. Quello di Vertov è un cosmo tutto pieno, vorticante, col senso di un'armonia sotterranea negli insiemi umani. Ed è la più pura visione comunista della vita, dove il vivere e il lavorare sembrano un moto armonico, un eros diffuso nei corpi e nelle cose, senza niente che resti isolato nel vuoto. L'altro esempio per me folgorante è Pioggia di Joris Ivens, dove l'idea di filmare i piedi dei passanti, le ruote delle auto, le pozzanghere, le grondaie e gli scoli d'acqua mentre sta piovendo, diventa la scoperta d'una dimensione inesplorata - quella delle cose qualsiasi . Queste sono colte in una contingenza che le rende tutte esemplari, come altrettante immagini dell'essere al mondo. La pioggia richiama il sentimento d'essere al mondo, assieme ai passanti, alle auto, ai gatti che spiano l'acqua, etc.

SH: E in Italia ? Come vedi la tradizione del documentario in Italia?

GC: Fino a un certo punto da noi il documentario è stato visto solo come testimonianza su una realtà politica che non poneva nessun problema percettivo o narrativo. Sembrava che la realtà fosse una cosa ovvia e pronta da catturare, e l'unico problema fosse quello di metterci sopra un discorso ideologico. Il dibattito sul realismo nella letteratura e nel cinema negli anni 1945-55 verteva su questo - sul discorso da fare, sul « messaggio ». Il che portava a una messa in posa dei personaggi, come statue per rappresentare un discorso politico, e una messa în posa dell'idea stessa di realtà, data come puro meccanismo economico. Questo si vede bene in un film come La terra trema di Visconti, un film che finge d'essere un documentario con finissimi artifici di regia. Rossellini va in una direzione opposta, adottando modi di regia piu semplici e casuali, ma mettendo in primo piano il problema percettivo, ossia d'un modo più naturale di guardare. E questo è stato un cambiamento radicale, con cui Rossellini ha insegnato a un paio di generazioni (dalla nouvelle vague al nuovo cinema tedesco) a ripensare il cinema attraverso le risorse d'una visione documentaristica.

SH: Tu parli d'una semplificazione nei modi di regia di Rossellini. Potresti spiegare come fa Rossellini a creare un modo di percezione più naturale dentro all'artificio del film ?

GC: Rossellini riduce la messa in scena al minimo, e questo dà via libera a un modo visionario di osservare tutto. All'inizio di Paisà, l'incontro dei siciliani con gli americani si risolve in poche battute, poi si fissa sul volto della ragazza siciliana. Quel viso così irregolare e così poco cinematografico diventa l'immagine d'uno sguardo naturale sulle cose. Non c'è altra messa in scena: il volto della ragazza - con primi piani poco marcati - risolve tutto il senso dell'episodio senza forzature. Lo stesso nell'episodio delle paludi vicino a Comacchio : un vuoto d'acqua che nessuno avrebbe filmato, e il senso d'uno sguardo che ispeziona l'aperto spazio fuori di noi, dove può succedere di tutto. Da Paisà alla trilogia del dopoguerra, si vede che Rossellini non ha bisogno di tante trame o di tanti artifici tecnici per mettere insieme un film, perché con il suo trasporto visionario per tutto diventa un documentario infinito sul mondo - dalla Berlino bombardata in Germania anno zero a una processione qualsiasi nel napoletano in Viaggio in Italia, fino alle vedute dell'India. Con Rossellini succede questo: che la spettacolarità del cinema si rivela meno emozionante della visione naturale, ossia d'una visione naturale di ciò che semplicemente esiste.

SH: Ma cos'è uno «sguardo naturale?»

GC: Se tu fai leggere un brano a un attore, di solito ti accorgi che recita con la voce impostata, perché quello è il modo professionale. Mentre una voce non impostata di solito ti fa sentire meglio le parole, basta che le articoli bene e tenga i ritmi. Alla stessa maniera c'è un modo impostato di guardare le cose con macchina da presa, ed è il modo professionale che si riconosce subito come une retorica obbligata. E qui, se cerchi uno sguardo non impostato che abbandoni quella retorica professionale, devi tornare a Rossellini - ed è appunto la sua visione documentaristica.

SH: Dopo Rosellini, chi ti sembra che abbia questo sguardo nei film?

GC: Dopo Rossellini, i debiti del nuovo cinema con la visione documentaristica verranno fuori chiaramente. In Antonioni prima di tutto, cominciando con Gente del Po, un documentario dove tutto sembra colto in un ultimo momento irripetibile, come un'ultima visione d'un paesaggio selvatico. La visività di Antonioni si rivolge alle cose meno appariscenti, che si rivelano solo ad uno sguardo un po' fisso ed eidetico. Ad esempio nessuno avrebbe mai pensato di filmare la distesa di sassi su un'isola vuota, come nell'Avventura. Questo è un modo del sentimento completamente nuovo, che nasce da un'ottica documentaristica. Poi, senza questa nuova idea della visione documentaristica, i primi film di Jean- Luc Godard sarebbero incomprensibili. Il che vale anche per il cinema tedesco degli anni settanta . Ad esempio: Aguirre di Herzog comincia con la ripresa della fila di indios che salgono il costone della montagna, ripresa lenta e decisamente documentaristica, legata a una contingenza difficile. Ma poi tutto il film non è che il documentario d'una messa in scena sul grande fiume tropicale, con gli indios e Klaus Kinsky. La cosa è ancora più chiara in Fitzcarraldo, che può esser visto come il documentario d'una messa in scena quasi impossibile — la nave da trasportare in cima alla montagna. Su questa linea narrativa, l'azione, la trama, diventano secondarie rispetto alla visione, mentre la capacita visionaria che viene in primo piano fa della messa in scena un oggetto documentaristico. La cosa diventa emblematica in due film di Fellini - Roma e Intervista - che sono documentari d'un modo di mettere in scena la vita.

SH: Cosa vuoi dire quando dici «capacità visionaria»?

GC: Nelle vecchie comunità c'era spesso qualcuno di cui si diceva che «avesse visto», ossia che avesse avuto delle visioni. Sono percezioni che si caricano di forti intensità affettive o perturbanti, e diventano stati cosiddetti allucinatori. Ma non sono fenomeni molto rari, piuttosto sono continuamente rimossi, perchè dipendono da stati troppo intensi della sensibilità. Leopardi diceva che agli occhi di un sensitivo dietro ogni paesaggio c'è sempre un altro ‘paesaggio, che si percepisce con la vaghezza o l'indefinitezza dei fatti immaginativi. Comunque è la capacita visionaria che caratterizzi la ricerca cinematografica e documentaristica, da Rossellini fino a Herzog. Io direi che si tratta di riuscire a servirsi delle immagini filmate come se fossero le visioni di qualcun altro, come se venissero da un fondo di visioni anonimo e collettivo in cui ci si innesta.

SH: È questo il tuo modo di lavorare?

GC: Mah, non so. La mia idea è che bisogna fare dei documentari imprevedibili come i sogni. Imprevedibili non solo per gli spettatori, ma anche e soprattutto per chi li fa. Bisogna restare del tutto spiazzati, e dopo nel tormento del montaggio viene fuori qualcosa di impensato.

SH: Qual e il risultato di questi modi di vedere il documentario? A cosa ti portano?

GC: Nel documentario c'è la possibilità di usare le immagini per compiere una ricerca su quello che vediamo, su come vediamo, sulle cose che ci trascinano o che paralizzano lo sguardo. Un grande artista del xx secolo, Alberto Giacometti, aveva questa idea : «Io disegno per capire cosa vedo». Se copio un bicchiere su un tavolo - diceva - non disegno che una visione, cioè qualcosa che scomparirà tra un attimo, sostituita da una visione diversa di quel bicchiere. Dunque quello che si disegna (o si filma) è solo la traccia di un'immagine che arriva alla coscienza, ma appena c'è un po' più di luce, o un colore diverso, potrebbe risultare una cosa del tutto diversa. Tutto quello che riguarda il vedere è sempre sul punto di trasformarsi in qualcos'altro. Giacometti diceva : «L'arte non è che un mezzo per vedere. Qualunque cosa guardo mi sbalordisce, e io non so esattamente cosa vedo. Allora bisogna cercar di copiare semplicemente, per rendersi un po' conto di cosa vediamo ». E un’altra cosa che diceva, in un'intervista : «C'è molta gente che trova la realtà banale e pensa che le opere d'arte siano più belle. Una volta io andavo al Louvre e i quadri mi davano sempre l'impressione del sublime. Adesso vado al Louvre, e non posso fare a meno di guardare la gente che guarda le opere d'arte. Il sublime per me adesso sta nelle facce di quelli che guardano».

SH: La visione documentaristica porta a questo tipo di ricerca, secondo te?

GC: La visione documentaristica è legata allo stretto necessario, cioè al fatto che hai qualcosa davanti in un momento e poi non l’avrai più, perché tutto passa, e non è ricostruibile con le messe in scena. Questa limitazione è anche la grande virtù del documentario, cioè di dover restare attaccati alla contingenza, semplificando tutto, per tradurla o trasfigurarla in esempi di qualcosa che allarghi il pensiero. E' quello che succede in ogni documentario che continui la ricerca con questo mezzo espressivo : si tratta sempre di pensare in modo meno astratto e schematico lo spazio esterno, le situazioni nello spazio, i momenti del mondo. Io dico che si tratta di ritrovare quello sguardo impregiudicato su tutte le cose, su tutte le forme di vita, che è la grandezza di Vertov, di Ivens, e di Rossellini. Questa tipo di ricerca nel cinema ufficiale è diventata impossibile, perché un film deve sfruttare i modi di vedere già stabiliti, se vuol andare incontro al pubblico e al gusto dei produttori. Così ogni immagine diventa congelata nel dovere di «fare il prodotto», col massimo asservimento al capitalismo piu brigantesco e senza nessuna ricerca. E devo anche dire che lo stesso succede nei prodotti letterari, con questi infiniti romanzi per andare incontro al pubblico e al gusto dell'editore.

SH: E nel tuo caso, che cosa ti ha spinto a metterti a fare dei

documentari?

GC: Più di dieci anni fa, mi era stato proposto di usare un mio libro di esplorazioni della valle del Po - Verso la foce - per ricavarne un film o qualcosa del genere. Dopo è venuta fuori un'idea tutta diversa, ed io e il Gruppo Pierrot e la Rosa - con gli operatori Lamberto Borsetti e Paolo Muran e Guglielmo Rossi, con cui lavoro anche adesso - abbiamo fatto il nostro primo film-documentario. S'è intitolato Strada provinciale delle anime, prodotto per Rai Tre. È così che abbiamo cominciato a studiare le campagne e filmare le vecchie case che crollano un po' dappertutto nella valle del Po. Le case che crollano mi attiravano molto, ma poi non abbiamo trovato i soldi per fare un altro documentario e il materiale e rimasto lì inutilizzato. Poi nel 1998 abbiamo fatto un documentario su un nostro amico, il grande fotografo Luigi Ghirri, morto prematuramente, e questo ci ha portato di nuovo în giro per campagne a filmare altre case in rovina. Il documentario su Ghirri ha attirato l'attenzione di qualcuno e così finalmente abbiamo trovato i soldi per fare quest'ultimo.

SH: Il lavoro fotografico di Ghirri, e le ricerche sul paesaggio che avevi fatto insieme a lui, in che misura hanno influenzato il tuomodo di avvicinarti ai documentari?

GC: Di sicuro l'impianto fotografico dei nostri documentari deve molto alle foto di Luigi Ghirri, ed a tutto quello che Ghirri ci ha insegnato lavorando insieme. Io con lui ho lavorato a tre libri fotografici, e negli anni Ottanta abbiamo fatto delle ricerche collettive sul nuovo paesaggio italiano, assieme ad altri fotografi e scrittori. Poi Ghirri faceva parte del gruppo di viaggianti in Strada provinciale delle anime, dove tra l'altro fa un discorso sulle campagne come «il luogo della distruzione». Il suo ultimo progetto prima di morire era di fotografare l'architettura rurale nelle zone del reggiano, architettura che sta scomparendo e tra pochi anni sarà svanita nel nulla. Siamo ripartiti di lì anche noi, filmando un repertorio di esempi di case in rovina. Ci hanno aiutato in questa impresa due speciali guide indigene sul territorio - uno è Daniele Benati, autore d'uno straordinario libro di racconti, Silenzio in Emilia, pubbblicato da Feltrinelli ; l’altro è Alfredo Gianolio, un avvocato di Reggio Emilia che è stato un amico e seguace di Cesare Zavattini.

SH: Potresti dirmi come si è evoluto il progetto di Visioni di case che crollano?

GC: Ci ho pensato almeno cinque anni sulle case in rovina che avevamo filmato. Ne era venuto fuori una specie di archivio, con tanti esempi tra cui non riuscivo più ad orientarmi. Ho cominciato a orientarmi solo quando ho montato un po' di materiale, e mi sono accorto che ogni casa mostrava una sua fisionomia, una personalità che ispirava da sola un nome, e dopo nello studio ne parlavamo con quel nome. Una si chiamava «La sospesa tra le acque», un'altra «L'impaludata del Po», un'altra «Il mostro di solitudine». Le case crollanti non erano più reperti oggettivi, erano diventate oggetti d'affezione, e tra noi ne parlavamo come se si portassero dietro dei racconti fantastici. Cosi ho capito che non bisognava mostrarle come malinconici relitti del passato, ma come uno tra i più sorprendenti aspetti d'un paesaggio moderno. In un'epoca in cui si tende a restaurare tutto per cancellare le tracce del tempo, quelle case portavano i segni d'una profondità del tempo e così ponevano la domanda : cosa dobbiamo fare delle nostre rovine? cosa fare di tutto ciò che è arcaico e sorpassato, e non può essere smerciato come un altro articolo di consumo? SH: E queste sono domande che il film solleva.

GC: Nel nostro film una donna (Marianne Schneider) dice che «noi non siamo più abituati a vivere tra crolli e distruzioni, dunque questi ci sembrano la fine del mondo». Poi fa un paragone con le situazioni in Africa e Medio Oriente. Mi sembra sia questa l'idea che ha guidato il nostro lavoro anche nei momenti di dubbio massimo su quello che stavamo facendo. E' vero che c'è quella linea divisoria netta, tra popoli che sono abituati a vivere tra i crolli, nella penuria, dunque abituati a prendere il mondo esterno così com'è, e popoli ricchi che tendono a un restauro totale del visibile, per farlo sempre più uguale a un'immagine pubblicitaria. Il mondo occidentale sta diventando sempre più dominato dal fanatismo del far tutto nuovo di zecca, per cancellare le tracce del tempo. Questo fanatismo consiste nel trattare tutto come un prodotto di consumo da gettare via appena è vecchio, oppure da sostituire con un modello tecnologico più avanzato SH: La premurosa attenzione del film per le case crollanti, funziona, mi sembra, nei due sensi da una parte riflette e dall’ altra contrasta quella specie di fanatismo consumista.

GC: L'altra riflessione che è venuta fuori mentre facevamo il film, è quella espressa da John Berger nella scena in riva al Po. Per l'uomo moderno la vecchiaia e la malattia sono una specie di scandalo : e tutto ciò che crolla per vecchiaia - dalle case alle facce - deve essere sottoposto a una forma di restauro cosmetico. C'è da chiedersi se in tutto ciò non vi sia un tremendo rifiuto del mondo, che si spande con la produzione di immagini spettacolari di consumo, senza più margine. A partire dai segni del crollo nelle vecchie case della valle del Po, noi - io e gli altri della troupe, gli operatori in primis, e poi John nel suo ruolo di narratore - abbiamo cercato di fissare lo sguardo sulle rovine e di imparare a guardarle non più come una malattia, ma come un aspetto che non è necessario nascondere sotto uno strato di maquillage. Si trattava di riattivare la semplice percezione delle cose poco osservate, la capacità di guardare mondo esterno così come è. Forse il problema di fondo è che noi non crediamo più veramente al mondo esterno, crediamo solo a un'immagine di noi stessi da proiettare in base all'estetica spettacolare dei consumi. John Berger, nel suo ultimo libro, The Shape of a Pocket, ha parlato della «grande disfatta del mondo».

SH: Di fronte a questa disfatta che dici, cosa può fare il documentario?

GC: Ormai l'obbligo principale in tutte le attività è quello di fare dei prodotti di consumo e di facile smercio. Il che vuole dire che non può esserci alcuna ricerca se non nella direzione del cosiddetto marketing. Nella letteratura sta accadendo lo stesso e i libri diventano sempre più tutti uguali, scritti nello stesso modo. Mi sembra che il documentario rappresenti ancora uno dei pochi spazi di lavoro e di pensiero non completamente devastati, ancora un terreno di ricerca, con una straordinaria fioritura di esempi degli ultimi anni. Non so quanto durerà.

La veduta frontale. Antonioni, l'Avventura e l'attesa.[modifica | modifica sorgente]

di Gianni Celati

Dopo tanti anni mi sembra che L'avventura di Antonioni sia una di quelle opere i cui effetti si vedono dovunque, come una forma di comprensione non più individuale, ma divenuta collettiva ed epocale. Ad esempio, senza questo tipo di comprensione è impensabile il cinema di Wim Wenders e quello di Jim Jarmusch, e sono impensabili molti altri film e racconti in cui i tempi descrittivi lenti, i tempi dell'indugio senza aspettative, hanno trovato ammissione. È qui che si fa avanti una forma di comprensione epocale, come un modo d'attesa non più in balia delle aspettative. Rivedendo L'avventura ho cominciato a pensare a questo partire dal momento in cui la ragazza scompare sull'isola, l'isola nuda, quei personaggi vaganti o immobili, il cielo basso, la visione grigia e siderale, aprono il regno dell'indeterminato (come ogni deserto), in cui le pretese della cultura cominciano a sfaldarsi. Le vedute dell'isola non sono mai descrizioni compiute, ma piuttosto soste nel paesaggio, indugi che producono dei tempi morti. I personaggi vanno avanti e indietro senza meta, semplicemente costretti dall'attesa. E quanto alle aspettative di trovare la ragazza, di scoprire la verità, di ridurre l'accaduto a qualche forma di determinazione o spiegazione, tutto ciò è stato spesso riportato ad un discorso di tipo saggistico che ci parla del “crollo dei valori” nella cultura europea. Ma evidentemente questo discorso presuppone che prima del crollo i cosiddetti valori dell'arte, della cultura e della morale avessero un fondamento. Il semplice svelarsi dei valori come un ordine vuoto, senza determinazioni fuori dal discorso che continuamente li giustifica e li impone, diventa una verità dell'esperienza che la cultura non può mai ammettere. Tutte le constatazioni sul “crollo dei valori” non sono che ansia di determinazione propria della nostra cultura, e crescita di quest'ansia che marca le moderne visioni del mondo. Se il film di Antonioni partecipasse a questa miseria, probabilmente non riusciremmo più a guardarlo. In esso ritroveremmo solo le aspettative della saggistica a cui sembra ispirarsi, ed una visione del mondo, una serie di asserzioni che ci ordinano cosa dobbiamo capire. Ma dal momento in cui la ragazza scompare sull'isola, comincia un itinerario di esautoramento delle aspettative: le aspettative prodotte dai fatti narrati e insieme quelle prodotte dai valori della cultura, dell'arte e della morale, di cui nel film si discute a lungo. Che le istanze di questi valori vengano a poco a poco sostituite dall'abulia, mi sembra l'aspetto liberatorio di questo nuovo tipo di avventura in cui i personaggi non riescono più ad ingannare il tempo. L'avventura in altre epoche è stata appunto una corsa tra i pericoli per ingannare il tempo, per ingannare l'attesa attraverso le aspettative prodotte: ma cosa avviene quando il tempo si fa avanti come qualcosa che non può più essere ingannato? Vorrei solo far notare un aspetto di questa forma di comprensione. Nel film di Antonioni, come nei film di Wenders, la veduta frontale consente indugi senz'ansia, che spesso sono tempi morti sul filo della narrazione. La veduta frontale sfrutta le simmetrie ortogonali, e perciò risulta un modo ordinato e semplice di guardare le cose. Nelle foto di Walker Evans come nei film di Antonioni (con cui mi viene da associarle), la veduta frontale è essenzialmente la scelta di una bassa soglia d’intensità, d'un modo di narrare che evita le eccitazioni, e riporta tutto ad un pacato uso della rappresentazione. E ciò a differenza della veduta obliqua o do scorcio, che ha sempre un'aria di instabilità, e perciò introduce aspettative che annientano la forma semplice del guardare, l'indugio e la sosta senz'ansia. Il film di Antonioni termina con un indugio del genere, veduta frontale che sfrutta le simmetrie ortogonali per mettere ordine nello sguardo, con la ragazza in piedi di profilo e l'uomo seduto sulla panchina, nell’alba, mentre sullo sfondo si vede il bianco telone del cielo. C'è un tipo di comprensione che qui comincia a trovare le sue figure, e che ci porta alla sensazione del presente ineluttabile, il vero tempo dell'attesa. Questo presente ineluttabile, tempo che non può essere ingannato, è l'apertura a cui il film ci affida. Se l'essenza di un'epoca si rivela nel modo con cui quest'epoca si affida al tempo, dobbiamo dire che l'essenza della nostra epoca sta nel sogno d'essere un'altra epoca, “più avanzata”, “futura”, sogno continuo delle moderne visioni del mondo. Dunque la nostra epoca è un'epoca che sfugge a se stessa, epoca senza epoca, perché la sua attesa d'un altro tempo è tutta solcata da aspettative che ingannano il tempo, che rendono sempre più occulto il presente, nello stordimento del sapere e della cultura. Percepire il presente vuoto di un'epoca che sogna un'altra epoca, mi sembra allora l'unica ricerca d'una forma di comprensione ambientale. L'unica ricerca che non dipenda dalle pretese della cultura, e che tenda a riaffidarsi al tempo senza ingannarlo preventivamente con le aspettative. Ciò che l'attesa aspetta è lo svelarsi del tempo. Ma il tempo è reso sempre più occulto dalle moderne visioni del mondo, tutte proiettate in un’altra epoca, e dunque senza più nozione del tempo che ci costituisce come esistenti, o mortali. Nel film di Antonioni sono appunto i tempi morti, gli sguardi o gesti d'indugio senza meta, la fissità delle vedute frontali, a riaprire per noi questa comprensione. Credo di aver cominciato a pensare a questo tema dell'attesa guardando una foto di Luigi Ghirri, che può essere considerata un commento o un omaggio ad Antonioni. C'è la veduta frontale di un campo di calcio, col terreno erboso, la linea di fondo tracciata dall'ombra dei grandi alberi che chiudono la visuale, e là in mezzo il rettangolo della porta vuota, in una specie di grande silenzio: non è la porta d'un campo di calcio la meta delle aspettative, qui misteriosamente sospese nel presente senza aspettative? Con questo tipo di comprensione aperto da Antonioni, tutti i luoghi divengono osservabili, non c'è più differenza tra luoghi belli e brutti. Sono tutti possibili luoghi dove indugiare, e l’indugio è la figura del nostro abitare la terra, nel regno dell'indeterminato. Quando smettiamo di sentire un paesaggio come regno dell'indeterminato, dunque come inenarrabile, vuol dire che la nostra comprensione ambientale è andata a rotoli. L’anno scorso in una giornata nuvolosa percorrevo gli argini del Po verso Porto Tolle, nei luoghi ancora quasi uguali dove si svolgono alcune scene del Grido, il film in cui Antonioni ha cominciato a parlarci d'un nostro paesaggio inenarrabile. Pochi giorni dopo ho rivisto Ossessione di Luchino Visconti, che parla dello stesso paesaggio ed è l’ultimo film italiano che parli senza remore della morte e del destino. Subito dopo comincerà a diffondersi l'idea che si muore per colpa della società, e che ci si ammala non perché siamo mortali, ma perché le condizioni economiche non sono come dovrebbero. Comincerà la propaganda totalitaria, secondo cui tutto nella vita d'un uomo dipende dall'ideologia e dalla previdenza sociale. Poi politici e amministratori, assassini d'anime, deliri pubblicitari, imporranno definitivamente a questo paese il sogno d'essere un altro paese, sempre più aspettative d'un “futuro” che comunque sarà catastrofico, e sempre più macchine e spettacoli e discorsi culturali per ingannare il tempo. Qualche mese fa ho incontrato Guido Fink e abbiamo parlato di tutto questo. Lui mi ha chiesto di scrivere i miei pensieri e così ho fatto[5].

Cinema per la realtà. Cinema utile[modifica | modifica sorgente]

Cinema per la realtà[modifica | modifica sorgente]

Cinema utile[modifica | modifica sorgente]

Scuola nazionale di cinema[modifica | modifica sorgente]

La Fondazione “Scuola Nazionale di Cinema” (ex Centro Sperimentale di Cinematografia) è una delle più antiche scuole di cinema del mondo. La fondazione del CSC risale al 13 aprile 1935, anche se già da qualche anno (dal marzo del 1932) era in attività la “Scuola Nazionale di Cinematografia”. Nel corso dei suoi oltre 60 anni di vita, la Scuola ha formato intere generazioni di cineasti. Da Antonioni alla Cavani, da Bellocchio a Virzì, da Loy all'Archibugi, da Maselli a Verdone, molti rappresentanti di punta della cinematografia italiana sono passati per i teatri di posa del Centro Sperimentale di Cinematografia. Illustri e autorevoli i docenti che hanno messo la propria arte a disposizione degli allievi: Alessandro Blasetti, che è stato anche l'ideatore del Centro, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Pietro Germi, Suso Cecchi d'Amico, Furio Scarpelli, Roberto Perpignani, Gianni Amelio. Questi sono solo alcuni dei nomi di prestigio che negli anni hanno dato il proprio contributo nella formazione dei giovani cineasti. Nove i corsi già attivi, tutti di durata triennale: Fotografia; Montaggio; Produzione; Recitazione; Regia; Sceneggiatura; Scenografia; Arredamento e Costume; Tecnica del suono; Animazione, che si svolge presso la sezione distaccata di Torino della SNC. Nato come scuola di cinema, il Centro Sperimentale di Cinematografia (trasformato, nel 1997, da Ente Pubblico in Fondazione e denominato SNC), ha progressivamente ampliato le sue attività. Nei cellari della Cineteca Nazionale della SNC sono preservate circa 45.000 pellicole, 700.000 immagini fotografiche sono conservate nella Fototeca, 60.000 tra manifesti, locandine e fotobuste sono archiviati nella Manifestoteca, oltre 60.000 i testi e le opere raccolti nella Biblioteca (monografie - pubblicazioni - sceneggiature). Attualmente la Scuola Nazionale di Cinema si articola in quattro diversi settori: Biblioteca e Attività Editoriali; Cineteca Nazionale; Formazione, Ricerca e Sperimentazione; Produzione e Promozione Culturale.

I Corsi di animazione della Scuola Nazionale di Cinema per i nuovi talenti del cartoon italiano sono 18 i posti a concorso per il triennio 2004-2006 per i corsi di alta specializzazione nell'arte e nell'industria dell'animazione. Il bando scade il 31 luglio 2003.

Il bando è rivolto a giovani fra i 19 e i 28 anni dotati di creatività, talento artistico, capacità di concezione e di narrazione visiva, spinti da una motivazione forte ad un impegnativo percorso di formazione tecnica, progettuale e creativa per una professionalità nuova ad alto tasso di creatività. Obiettivo dei corsi è la formazione di figure professionali altamente qualificate per la partecipazione a tutte le fasi creative, progettuali e realizzative delle produzioni per il cinema, la televisione e i nuovi media, basate su tecniche tradizionali, sperimentali e digitali dell'animazione e della manipolazione dell'immagine in movimento. La frequenza dei corsi è gratuita. La Scuola, che ha sede in un'ampia tenuta sulla collina di Torino, è strutturata come un campus e propone una full immersion nella straordinaria potenzialità espressiva dell'animazione con corsi, seminari e workshop di materie tecniche e progettuali tenuti dai migliori professionisti dell'animazione, esercitazioni su progetto e stage in produzione in Italia e all'estero. Requisiti essenziali dei candidati: Diploma di Scuola Media Superiore o titolo equivalente (entro il 30-9-2003); Data di nascita compresa fra il 1° gennaio 1975 e il 31 dicembre 1984; Solida preparazione artistica e ottime capacità di disegno. Buona conoscenza della lingua inglese.

Contatti: Sede di Roma: tel. 06 722 94 247 - email: info@snc.it; Sede di Chieri/Torino: tel. 011 9473284 201 - email: snc.animazione@tin.it ;Alfio Bastiancich, Chiara Magri

Il Bando completo e tutte le notizie sulla Scuola Nazionale di Cinema si trovano on-line: www.snc.it

  • Ciao Alberto di Edoardo De Angelis, Francesco Amato, Claudio Giovannesi, Anna Suriani Wasch, Francesco Costabile, Matteo Oleotto
  • Sintonie di Primavera di Francesco Costabile, Edoardo De Angelis, Anna Wasch, ,Matteo Oleotto, Claudio Giovannesi, Francesco Amato

I mestieri del cinema[modifica | modifica sorgente]

Dino Audino, editore[modifica | modifica sorgente]

La Dino Audino editore è stata fondata nel 1987 ed è diretta da Dino Audino, che fino 1984 era stato direttore editoriale e comproprietario della più nota casa editrice data sinistra giovanile degli anni 70, la Savelli (i non giovanissimi si ricordano certo il bestselle, Porci con le ali, primo titolo della collana Il pane e le rose diretta da Lidia Ravera e Marca Lombardo Radice). Dello spirito originario la Dino Audino riprende la battaglia culturale per la modernizzazione del Paese in un settore giovanile tanto centrale nel futuro quanto sottovalutato nel presente: la formazione nello spettacolo. In un panorama didattico desertico, in cui domina ancora la visione tardo-romantica dell'artista il cui talento basta a se stesso, i libri che parlano di formazione (da L’abc della regia a Checov, La tecnica dell attore a Come scrivere una grande sceneggiatura di Linda Seger) sono qualcosa di più di un semplice strumento didattico, sono un modo di scuotere un sistema e portare le esigenze dell'arte all'interno del mondo industriale contemporaneo. Ma a qualificare la casa editri. ce non è solo il suo essere unica nel fare formazione dello spettacolo ma soprattutto il “come la fa”. Mutuando dal pragmatismo anglosassone alcuni dei libri migliori la Dino Audino sta introducendo in Italia una metodologia basata sull'analisi strutturale e la ricostruzione del testo o del corpo scenico che àncora all'esperienza e al lavoro pratico ogni ipotesi teorico-didattica il che, in un Paese fondamentalmente crociano come il nostro abituato ad una critica impressionistica, è di per sé già rivoluzionario.

Alberto Crespi, critico[modifica | modifica sorgente]

Alberto Crespi è nato a Milano nel 1957. Si è laureato in Storia del cinema all'Università degli Studi di Pavia, con una tesi di laurea sul film “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick. Nel 1978 ha cominciato a collaborare con “l'Unità”, dal 1980 è entrato nella redazione spettacoli e nel 1985 si è trasferito a Roma, dove tuttora vive, per lavorare nella sede centrale del giornale fondato da Antonio Gramsci. Dal 1992 è titolare della critica cinematografica. Per “L'Unità” ha seguito i principali festival del cinema (Cannes, Berlino, Venezia), ma gli piace ricordare di aver coperto come inviato anche due Olimpiadi (Barcellona ‘92 e Atlanta '96) e due Mondiali di calcio (USA ‘94 e Francia ‘98), nonché, meno gloriosamente, un festival di Sanremo (nel 2000). Scrive su varie testate (“Cineforum”, “Film Tv”, “Diario”, “Il mucchio selvaggio”) ed è fra i conduttori della trasmissione radiofonica sul cinema “Hollywood Party”, in onda quotidianamente sul terzo canale della Rai. Ha collaborato con la Mostra di Venezia facendo parte della commissione di selezione per la Settimana della Critica (dal ‘90 al ‘93) e della commissione di selezione della Mostra, con la direzione di Alberto Barbera (nel 2001). Ama John Ford, il western, la commedia all'italiana, la musica rock e l' Inter

Paolo Ferrari, direttore della fotografia[modifica | modifica sorgente]

Si diploma nel 1988 al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Dapprima allievo di Vittorio Storaro, nel corso degli anni firma la fotografia di diversi lungometraggi fra cui I tuffo di Massimo Martella (1993), Rose e pistole di Carla Apuzzo (1998), Quello che cerchi di Marco S.Puccioni (2002), Mariti in affitto di Ilaria Borrelli(2003). Molto ricca la realizzazione documentaria con diversi registi tra cui: Giuseppe Bertolucci, Mimmo Calopresti, Giorgio Treves, Massimo Guglielmi, Gianfranco Pannone, Roberto Giannarelli. Da segnalare il lungo sodalizio con Daniele Segre con cui realizza nel corso di vent'anni numerosi film di notevole interesse documentario. Paolo Ferrari insegna alla Scuola Nazionale di Cinema di Roma dove tiene un corso specifico sull'Immagine digitale. Nel corso degli anni si è specializzato nel campo delle tecnologie digitali. Ha firmato la fotografia di numerosi prodotti di origine Digitale, con particolare attenzione al trasferimento digitale su 35mm.

Franco Giraldi, regista[modifica | modifica sorgente]

Franco Giraldi ha cominciato a interessarsi di cinema a vent'anni, come critico e giornalista. È stato assistente di Gillo Pontecorvo (Giovanna), Giuseppe De Santis (Uomini e Lupi, La strada lunga un anno, La gargonnière), Valerio Zurlini (Le soldatesse), Carlo Lizzani (Il gobbo). Nel 1964 è regista della seconda unità in Per un pugno di dollari di Sergio Leone. Debutta nella regia nel 1965 con Sette pistole per i Mc Gregor, a cui seguono Sugar Colt (1966) e Sette donne per i Mc Gregor (1966), Escondido (1968), La bambolona (1969), Cuori solitari (1970), La supertestimone (1971), Gli ordini sono ordini (1972), La rosa rossa (1973), Colpita da improvviso benessere (1976). Inizia una intensa produzione televisiva: Il lungo viaggio (1975), Un anno di scuola (1977), La giacca verde (1978). Sono degli anni ottanta Il corsaro, Mio figlio non sa leggere, Nessuno torna indietro, cui seguono La vita în gioco e le due serie dell'avvocato Porta interpretate da Gigi Proietti. Torna al cinama nel 1996 con il film La frontiera che ha vinto la Grolla d'Oro per la migliore fotografia (Cristiano Poganv) a Saint Vincent. Il film successivo, Voci, esce sugli schermi nel 2001. Intensa anche l'attività teatrale e lirica. Franco Giraldi collabora con il gruppo Cinema del presente, coordinato fa Francesco Maselli. Ha partecipato alla riprese del film collettivo sul G8 di Genova e ha curato il montaggio e l'edizione del film sul Social Forum europeo svoltosi a Firenze nel novembre del 2002

Mario Mazzarotto, produttore[modifica | modifica sorgente]

Mario Mazzarotto (Treviso, 1965) dal 1993 ad oggi lavora come produttore per le maggiori reti televisive nazionali (Rai, Mediaset, Stream, Telepiù) e estere (Channel 4, MTV, Planete) realizzando numerosi programmi televisivi. Tra i più significativi: Ultimo minuto (Rai Tre), Storie vere (Rai Tre), Eroi per caso (Italia Uno), Speak & Splatter (Stream). Negli stessi anni realizza produzioni cinematografiche come produttore o produttore esecutivo, specializzandosi nella produzione di film cinematografici originati con tecnologie digitali. Tra le sue produzioni di lungometraggi: Il ritorno di Cagliostro di Franco Maresco e Daniele Ciprì (2003), Quello che cerchi (2001) di Marco S. Puccioni, L'America a Roma (1998) di Gianfranco Pannone, Sell your body, now! (1998) di Marco S. Puccioni, Due volte nella vita (1998) di Emanuela Giordano, A ridosso dei ruderi, i trionfi (1996) di Franco Brocani, Intolerance - Sguardi del Cinema sull'Intolleranza (1996) di Francesco Maselli, Paolo Virzì, Marco Puccioni, Daniele Cini, Gabriele Muccino, Mariano Cirino, Giorgio Treves, Roberto Giannarelli e altri autori, Oasi (1993) di Cristiano Bortone.

Marco Simon Puccioni, regista[modifica | modifica sorgente]

Autore di cortometraggi, documentari, sceneggiature e programmi televisivi. Dopo una laurea in architettura e alcune esperienze in teatro e cinema, grazie ad una borsa di studio, parte per gli USA dove frequenta l'università Cal-Arts, punto di riferimento per il cinema indipendente americano della West Coast. Dirige diversi documentari e cortometraggi, tra cui Concertino e The Blue Fiction, medio metraggio ispirato ai testi di Marguerite Duras (Premio del Pubblico al X. Festival Giovani di Torino). Coinvolto nelle lotte per i diritti civili delle minoranze, realizza A Light on the Path sull'approccio alla diversità sessuale tra gli indiani d'America. Nel 1996, di nuovo in Italia, riprendendo l'impegno che unisce il cinema ai diritti umani, fonda l'associazione di autori Cinema Senza Confini e realizza il “Progetto Intolerance”. Intolerance - sguardi del cinema sull‘intolleranza, film collettivo contro l'intolleranza che coinvolge oltre 50 autori del cinema italiano, viene presentato al festival di Venezia, (Premio Cinema e Società e premio Phil Collins/Toyota per l'impegno sociale). Andrea Camilleri e Suso Cecchi D'Amico premiano l'episodio firmato da Marco Puccioni, per miglior film, miglior regia e montaggio. I ricavi del film finanziano iniziative a favore degli immigrati. Insieme a Guido Chiesa, Davide Ferrario, Antonio Leotti, Daniele Vicari realizza il film documentario Partigiani! sulla resistenza a Correggio. Nel 1998 il Progetto Intolerance continua con la sceneggiatura Gli Ultimi della Classe tratta dai racconti sul razzismo scritti da studenti. Continuando tra impegno sociale e ricerca, da un racconto di Alessandro Barbero, realizza Sell Your Body, Now (miglior corto Buenos Aires, Parigi, Siena , Clorofilla, Imola, Trieste) e documenta grandi manifestazioni (Gaypride, G8, Art. 18). Palestina Tuttigiorni, documentario sulla vita quotidiana nei territori occupati è il suo documentario più recente

Fuori concorso[modifica | modifica sorgente]

La verifica incerta di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi

Su: La verifica incerta[modifica | modifica sorgente]

di Umberto Eco

Vorrei abbordare la questione partendo dal film sperimentale di Baruchello e Grifi (Verifica incerta) che abbiamo qui visto in questi giorni. Era un film che narrava una “non storia” attraverso il montaggio ironico di spezzoni di normali film di circuito, giocando sull'accostamento di immagini discordi e sulle analogie che ne seguivano, o le opposizioni che esplodevano di colpo. A un certo punto si sono aperte delle porte e quando si apre una porta in una narrazione succede come per il proverbiale fucile di Checov; se descrivete una stanza e alla parete sta appeso un fucile, prima della fine della novella questo fucile deve sparare perché ovviamente la descrizione prepara nel lettore un sistema di aspettative che deve trovare la sua risoluzione psicologica. Quando in un film si apre una porta deve uscire qualcuno; se non esce allora deve nascere il sospetto di un fantasma, come può avvenire in un film con Cristopher Lee. Se questo qualcuno esce, poi, bisogna vedere dove va; ed è impossibile che una volta che è uscito non sia ancora uscito. Questi sono principi psicologici normali che regolano la lettura di un comune film western o di un film scandito secondo moduli tradizionali dell'intreccio. Quando, come in Verifica incerta, la porta si apre, e non esce nessuno, poi si riapre, poi appare ancora chiusa, quindi si vedono persone già uscite, infine queste persone escono di nuovo, in teoria c'è una spezzatura di un sistema di aspettative, di attese, di risoluzioni che fa sì che lo spettatore si trovi improvvisamente in una situazione di crisi. Però ci siamo accorti (se adesso rianalizziamo le nostre sensazioni del momento) che tutto questo rispondeva esattamente ad un nostro sistema di aspettative “rigenerato”. Noi non rimanevamo affatto shockati dal fatto che il personaggio uscisse quattro volte, anzi alla seconda volta cominciavamo a desiderare che il gioco si ripetesse per la terza. Detto in termini sintetici, noi non stavamo vedendo Verifica incerta tenendo presente, sia pure inconsciamente, uno schema di intreccio di tipo aristotelico - partenza, sviluppo, aghizione, colpo di scena, catastrofe, catarsi, fine - ma stavamo godendolo in base a un sistema di aspettative e di valutazioni estetiche già totalmente diverso. Non ci interessava più la risoluzione del conflitto, ma la continua riproposizione del conflitto (e su quello si creava il nostro sistema di aspettative). Cosa significa tutto ciò? Oggi abbiamo fatto tanto parlare di narrativa autre, ma comincia a cogliermi il sospetto che la maggior parte della narrativa di cui abbiamo parlato sia già méme, cioè rientri nella normalità di una macchina narrativa che trova nel lettore un sistema di attese e di rispondenze pienamente qualificate. L’autre, in gran parte, sta diventando méme. In questi giorni ne abbiamo avuto delle prove e indico i punti estremi, per esempio il pezzo di Lucas Foss al concerto. Era costituito secondo un montaggio di “gruppi”, cosa che alcuni anni fa scandalizzava le platee: ora è stato addirittura accusato di gastronomismo. Certo îl pezzo mirava andare precise soddisfazioni timbriche allo spettatore, colmava lo spettatore con una certa gioia dell'orecchio, ma questa gioia dell'orecchio si fondava evidentemente su un training del pubblico, che, anni fa, non avrebbe compreso questi blocchi magmatici di suoni e li avrebbe accolti come provocazione, mentre attualmente li accoglieva già come gratificazione. Si pensi anche all’altro film visto in questi giorni, quello di Alfredo Leonardi sul Living Theatre, dove la narrazione era tenuta su una precisa volontà di urto continuo. Ebbene, se vi ricordate, a un certo punto venivano ripresi i marines mentre facevano dei violenti esercizi; mentre un film normale avrebbe ripreso queste acrobazie attraverso una sequenza continua, Leonardi ha mostrato per stacchi successivi, e volutamente “non congruenti”, varie fasi di uno stesso movimento. Ora, non solo al terzo stacco noi eravamo completamente abituati allo stilema in questione e attendevamo la continuazione di un discorso a stacchi e non a sequenza continua: già al primo stacco trovavamo questa tecnica estremamente rispondente all'azione.[6]

Tenere così duro...[modifica | modifica sorgente]

di Alberto Grifi

Caro Edoardo, mi hai chiesto di fare un discorso sul filmico per il numero 300 di Filmcritica proprio mentre sto facendo un lavoro che è lontanissimo da questo tema; di nuovo, dopo quindici anni dalla Verifica Incerta, mi rimetto a lavorare con Gianfranco Baruchello: conversazioni videoregistrate sul bisogno di dolcezza, sul mattatoio, sulla morte. Se si dovesse analizzare il modo operativo del cinema sotterraneo di quasi vent'anni fa, che è il filmico, non riuscirei che a descriverlo nei termini della nevrosi, dove l'autore era ancora confuso dalle bugie di cui è nutrito lo spettatore, dove tutte le operazioni dissacratorie dirette contro “l'industria della celluloide” erano ancora invischiate nei linguaggi di quell'industria. La via verso la guarigione, se così si può chiamare quell'autostop elemosinato su “strade marginali” accanto alla superstrada per i panzer delle grosse produzioni, è passata per una lotta dove, per rimanere nella metafora della nevrosi, man mano che si guariva, man mano che si mettevano in moto processi di coscienza, ci si scontrava con lo psichiatra, con l'istituzione, con l'isolamento; nel mio caso, smetto di metaforizzare, con il carcere, con la disoccupazione. Poi, la mia posizione più recente, sulla necessità di uscire dall'impotenza del cinema, in conosci, è già nota. Te la riformulo affrettatamente, riassumendo tutta una serie di dichiarazioni che vertevano su “quel momento di passaggio dalla MdP alla VTR”, quel passaggio che mi ha portato dal cinema sotterraneo, estremamente complicato al livello della costruzione delle immagini o del suono che facevo negli anni ‘60, al cinema che ho realizzato più di recente, che rimette in proiezione cinematografica le immagini già registrate con un videoregistratore, quindi in bianco e nero, a bassa definizione, ecc. Avendo constatato che il cinema si affatica a “rendere più bella e significativa” la vita filmata, manipolando, censurando e truccando la vita reale che è invece considerata insignificante e insulsa, ho voluto rovesciare i termini del problema: smettere di “fare l'arte” (beninteso: un'arte che proveniva dalle avanguardie storiche che già si era antagonizzata all'arte borghese e alle accademie), smettere di “fare l’arte”, dunque, e vedere se si riusciva a sottoporre a critica e nello stesso tempo a realizzare nella vita di tutti i giorni i desideri e le istanze che l'arte progetta. (...)

A partire dallo spettacolo[modifica | modifica sorgente]

Attualità[modifica | modifica sorgente]

Documentari[modifica | modifica sorgente]

Senza cattedra[modifica | modifica sorgente]

Stati d'animazione[modifica | modifica sorgente]

Storie d'immigrati[modifica | modifica sorgente]

  1. “L'Espresso”, 1973; poi in A. Moravia, Al cinema, Bompiani, Milano, 1975, pp. 280-282
  2. “Rinascita”, 4 maggio 1973
  3. Il Giorno, 17 maggio 1973
  4. Corriere della Sera, 5 gennaio 1977)
  5. (Cinema & Cinema, a. XIV, n.49, giugno1987. Pp-5-6)
  6. (Aa. W, Gruppo 63. Il romanzo sperimentale, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 84-86)